Il ritorno dalla villeggiatura/Nota storica

Nota storica

../Atto III IncludiIntestazione 2 giugno 2021 100% Da definire

Atto III
[p. 335 modifica]

NOTA STORICA.

All’ultima parte della trilogia la citata Introduzione (vedi pagg. 87, 175), dopo augurato il buon viaggio e il buon ritorno a chi passava il novembre in campagna, dedica quest’ottava:

          «Nella terza Commedia allor noi pure
               Della Villa il Ritorno avrem studiato.
               E le genti da noi vengan sicure,
               Che nulla sopra lor fia caricato.
               Noi parlerem di tai Villeggiature,
               Accadute sovente in altro stato;
               Che lo scrittore al suo dovere intento
               Tratto assai di lontano ha l’argomento».

Il Ritorno fu recitato la prima volta la sera di sabato 28 novembre 1761 e la Gazzetta dei due dicembre [mercordì] ne diede questa notizia: «Sabbato scorso andò sulle scene del Teatro di San Luca una nuova commedia del Signor Dott. Goldoni, intitolata il Ritorno della Villeggiatura, e vi fu ricevuta colla solita approvazione del pubblico. Ella è una commedia quasi di seguito ad altre due, che la precedettero col medesimo titolo, e lascio di questa ancora parlarne meglio chi l’avrà veduta a quest’ora più d’una volta».

I nodi vengono al pettine. Leonardo, tornato in città, per isfuggire ai creditori che invadono la sua casa, deve uscire dalla «porticina segreta», scendere da una «scala oscura e precipitosa» e «allungare la strada il doppio per non passare dalle loro botteghe». Anche Filippo, in gravi strette, non ritrova l’usata giovialità. Avrebbe a sborsare ottomila scudi, la dote di Giacinta, ma non dispone, ahimè, neppure di «ottomila soldi»! Così l’unica ancora di salvezza dello sciagurato Leonardo sta per isfuggire. Chi temesse però di vedere suocero e genero in spe sprofondare nell’abisso scavato dalla loro prodigalità, mostrerebbe di non conoscere la sconfinata indulgenza di babbo Goldoni per i difetti, piccoli e grandi, delle sue creature. Ecco che il buon Fulgenzio, anche da lontano vigile tutore di questa gente spensierata, trova ingegnoso modo di rimediare a tutto....

Delle tre questa è per noi la commedia più forte e più viva. Maggior unità ha si la prima, ma il nocciolo suo è di così diafana entità che il pregio del lavoro di necessità ne soffre. Ben altro vigore drammatico deriva a questo Ritorno alle angustie di Leonardo, per entro alle quali la passione sempre accesa di Giacinta mette una simpatica nota di poesia. Non che il lavoro sia perfetto. Il terz’atto si trascina non poco, al solito, e vi mancano troppo, nella prima metà, l’interesse e il brio. Ne appar felice pensiero risolvere l’intreccio di ben tre commedie in casa d’un personaggio affatto episodico. Costanza anzi, la nipote sua e quello sciocco di Tognino dovevano, senza pregiudizio dell’opera, restarsene in villa a tener compagnia alla vecchia Sabina. Là dove resta pure il cameriere Paolo (e questo con grave rammarico di Brigida), benchè figuri ancora nell’elenco dei personaggi attivi. Le ultime scene d’insieme son [p. 336 modifica]però assai ben animate. Il dormite, signor Guglielmo?, ripetuto tre volte da Vittoria al fidanzato che ha occhi solo per chi ormai, date le circostanze, non dovrebbe più vedere, è fra gli spunti comici più geniali del Goldoni.

Ma il pregio vero e grande del Ritorno d. v. è ne’ due primi atti, che contengono scene stupende: quali le due d’introduzione, quella tra Vittoria e Ferdinando, l’episodio di Bernardino e i dialoghi di Giacinta e Brigida, personaggio questo ch’entra in gara vittoriosa con le più birichine e più petulanti servette goldoniane. Specie nella terza scena tra padrona e cameriera (II, 10) con quanto irresistibile effetto comico — comicità della più spontanea e più serena — scappa fuori l’amore sempre negato e sempre presente! E com’è fine e sentito il lungo monologo (sciupato solo dalla chiusa rettorica), dove Giacinta legge la lettera di Guglielmo!.... Peccato che la fanciulla, ne’ vani suoi conati di togliersi alla fatale passione, ricorra persino a un libro, e con iscarso utile suo e grave tedio dello spettatore esponga le massime ivi lette. Anni innanzi, con assai maggior opportunità, e con parole belle di verità e di garbo, aveva dette le stesse cose a un suo cliente il medico olandese. (Riaccosta i due passi goldoniani il Chatfield-Taylor a pag. 450 del suo volume). Ma guai se alle femminette goldoniane salta in mente di metterci a parte di letture loro mal digerite!

Anche il carattere di Leonardo si delinea in questa terza parte con tocchi più sicuri. Meno incresciosa riesce ora la figura per quel tanto di sentimento che l’egoismo avea troppo nascosto nelle due prime. Ormai si crede un po’ anche noi all’affetto suo per Giacinta.

Accompagnano i critici ancora, con simpatico animo, le peripezie amorose della nostra eroina. «Il combattimento degli affetti — osserva l’Albertazzi — già così vivo nelle prime due parti, per arte spontanea diviene potentemente drammatico nella terza; la tenerezza, la disperazione, l’eroismo, senza sforzo di psicologi, atteggiano tragicamente la donna innamorata quando, alla fine, la volontà di lei supera tutto e il dovere la conduce vittoriosa, non vinta, al sacrificio. E col sacrificio, non con il solito lieto matrimonio, finisce la trilogia. Se la leggessero coloro che incolpano il Goldoni di osservazione superficiale -!» (Pel 2.o ceni. d. nascita di C. G. il Teatro Manzoni, Milano, 1907, p. 32).

Non sembra a Maria Merlato che, pur risolto il combattimento degli affetti a gloria della più strenua virtù, nell’animo di Giacinta sia cessato «ogni spasimo». Le è caro imaginarsi quale potrà essere la vita della giovine donna. «Vediamo l’avvenire di Giacinta, lontana dalla sua città natale, sola, con un marito che non ama; la vediamo fantasticare quand’egli è assente, sulla sua vita spezzata, sulla sua felicità distrutta. A qualche frase del marito che le parla della sorella lontana e del cognato, Giacinta trema e impallidisce, e si abbandona ancora al suo sogno inattuabile, e forse impreca in cuor suo a quelle circostanze che per anime deboli costituiscono il destino.... Poteva essere convinto il Goldoni che questa fragile creatura fosse capace di compiere così, senza rimpianto, il sacrifizio di ciò che può essere più forte della vita?». (Mariti e cavalier serventi nelle commedie del G., Firenze, 1906, p. 19).

Negli apprezzamenti però dati dalla critica a questo lavoro, chi prende il sopravvento su Giacinta è quello zio da noi conosciuto per sentita dire sin dalle Smanie. Ce lo presentò Leonardo. («Quell’avaraccio di mio zio [p. 337 modifica] potrebbe aiutarmi e non vuole. Ma se i conti non fallano, ha da crepare prima di me....»). Gli fece eco Vittoria («Quel tisico di nostro zio....»). Ma è giusto mettere come fanno i poco amorosi nipoti questo Bernardino in compagnia di Arpagone e di Todero? Osserva giustamente lo Schmidbauer: «Bernardino non è proprio un avaro, se anche molto attaccato al suo denaro», ma in altro luogo, contradicendo sè stesso, aggiunge: «questo personaggio episodico è ottimamente osservato, un avaro moderno senza traccia di esagerata caricatura» (Das Komische bei G., München, 1906, pp. 46, 47). Noi, senza spezzare una lancia per una figura tanto antipatica (s’indispettì il buon Goldoni nel crearla! [Memorie, II, cap. XXIX]), arriviamo a scorgervi solo un egoista, e l’egoismo suo appare giustificato dalla balorda prodigalità di Leonardo e Vittoria, e dal loro completo disamore. Biasimevole resta non il rifiuto, ma il modo.

L’episodio, del quale l’autore tanto si compiacque da riprodurlo intero, in libera versione, nei Mèmoires, gli venne ispirato, fu detto, da quella scena del Festin de pierre, ove Don Giovanni con isquisito garbo mette alla porta il negoziante Dimanche, suo creditore (Rabany, op. cit., pp. 260, 376); Maddalena, Rivista Teatr. Ital., 1905, vol. X, pp. 54-57; Toldo, L’oeuvre de Molière et sa fortune en Italie, Turin, 1910, p. 378). La situazione è diversa. Là si congeda un creditore: qui uno zio che non paga i debiti del nipote. Ma l’esuberante cortesia, onde ciascuno colma l’importuno petente e se ne libera, mostra affinità che non sembrano fortuite.

Ritorno d. V. Festin d. p.

Oh! Signor nipote, la riverisco; che fa ella? sta bene? che fa la sua signora sorella? che fa la mia carissima nipotina?

Ah! monsieur Dimanche, approchez. Que je suis savi de vous voir!.... Comment se porte madame Dimanche?.... Et votre petite fille Claudine, comment se porte-t-elle?

Signore, io non merito esser ricevuto da voi con tanto amore, quanto ne dimostrano le cortesi vostre parole.

Monsieur, vousavez trop de bontè pour moi.... Je n’ai point meritè cette grace, assurément.

Che possa.... in quel ch’io possa.... se mai potessi....

.... je suis à vous de tout mon coeur.... Il n’y a rien que je ne fisse pour vous.

Ah, signor zio.... (col cappello in mano).

Monsieur.

Si copra.

Allons, asseyez vous.

Metta il suo cappello in capo.

Mettez-vous là, vous dis-je.

Favorisca (mette il cappello in testa a Leonardo).

Non, je ne vous ècoute point, si vous n’ètes point assis....

Siete padroni, di giorno, di notte, a tutte le ore....

....vous ètes en droit de ne trouver jamais de porte fermée chez moi....

«Le mouvement dramatique — osserva il Rabany — est le même et le procédé semblable: empêcher à force de bonnes paroles et de compliments polis la demande d’argent à laquelle on est décidé à ne pas rèpondre» (op. [p. 338 modifica] cit., p. 261). Dello stesso espediente fece uso il Nostro — avverte Pietro Toldo — nel Vecchio bizzarro sempre per impedire a un personaggio di chieder quattrini (cfr. anche Schmidbauer, op. cit., p. 46, 47) e nella Figlia ubbidiente allo scopo di evitare la lettura d’una lettera (op. cit., p. 379). Era anche questo, secondo il Momigliano, un lazzo del teatro estemporaneo e a parer suo non fece bene il Goldoni a giovarsene in una commedia seria (I limiti dell’arte goldoniana. Miscellanea Renier 1913, p. 83). A noi sembra però che egli ne abbia saputo trarre mirabile partito e facciamo nostra senza esitare questa lode del De Gubernatis: «Le due scene sono vive, e certamente studiate sul vero; non pochi avranno conosciuto qualche prototipo dello zio Bernardino, che gli ha pure sopravvissuto; e, per quanto il Goldoni abbia tenuto a farci sapere che un tal carattere gli pareva insoffribile, irritante, odioso, dobbiamo ritenere che egli fosse contento del modo con cui l’aveva sostenuto nella commedia poichè, nelle Memorie, credette opportuno riprodurre per intero le due scene» (Carlo Goldoni, Firenze, 1911, pagina 275). Più autorevole ancora quest’elogio di Ferdinando Martini che, in una sua Antologia, accompagna questo e un altro frammento dal teatro del Nostro: «Io dal Goldoni ho tratto tre scene, che bastano sole a dimostrare non soltanto quale scrittore di dialogo mirabile, di comica efficacia, egli fosse, ma come pronto a dipingere con poche maestrevoli pennellate i caratteri» (Prosa viva, Firenze, 1 896, pp. 32 1, 322).

Il Ritorno dalla Villeggiatura non ebbe la fortuna delle Smanie, e se ne intende la ragione. Una trilogia è carico troppo greve per chi la recita e per chi ascolta. Se la prima parte si può eseguire benissimo senza le altre, come staccare il Ritorno dalle sorelle, alle quali è si strettamente legato? Per le recite si vedano le Note a pp. 94, 176. Aggiungiamo qui un accenno del Ciampi, dove alludendo all’insuperata verità d’alcuni interpreti goldoniani dei suoi giorni (Gaetano Vestri, Amilcare Bellotti, Calloud, ecc.) scrive: «Parvemi poi trovarmi quasi nel mezzo degli intimi amici, quando vidi nel carnevale del 1853 il Ritorno dalla villeggiatura recitata dalla compagnia di Alamanno Morelli, diretta dal vecchio Bon» (La Commedia italiana, Roma, 1880, p. 235).

Francesco Cameroni accolse la nostra commedia tra i Capolavori di C. G. (n. 46, Trieste 1857), ma in quella sua collezione il numero dei capolavori (più di sessanta!) è tale che ne va diminuito l’onore fatto a ogni commedia. Tra le Commedie scelte, in coda alle due compagne, il Ritorno si legge pure nella Raccolta, assai men copiosa, del Vignozzi di Livorno (1813, vol. V). Del resto, per i motivi già addotti, le innumerevoli Scelte e Antologie di lavori interi largheggiarono d’ospitalità con le Smanie soltanto. Se non la commedia tutta, fortunatissimo fu l’episodio in casa di Bernardino, che si legge in buon numero di Antologie (F. Carrara, Antologia italiana, Vienna, 1857- 1859, vol. IV, pag. 207-21 I; A. D’Ancona e O. Bacci, Manuale della letteratura italiana, vol. IV, pp. 91-95, Firenze, 1894; Ferdinando Martini, op. cit.., pp. 321-326; Maddalena, Raccolta di prose e poesie, Vienna, 1909, pp. 45-50; L. Morandi, Letture educative. Città di Castello, 1912, pp. 111-116; nè certo son tutte). L’ultimo citato sdegnò l’originale e preferì tradurre dalle Memorie assicurando il lettore che, come per un’altra traduzione del suo volume così per questa, «l’Italia non ha finora niente di meglio». Aggiunse ancora: «Salvo le differenze di sostanza, il testo italiano della scena del Goldoni [p. 339 modifica] ognun sa che cosa sia o se lo imagina, mentre sarebbe potuta riuscire così italiana, se l’autore l’avesse scritta quasi intera nel suo maraviglioso dialetto, dandole poi le desinenze toscane» (p. XIl, XIll). Che pasticcio sarebbe saltato fuori da sì curiosa ricetta, non sappiamo imaginare. Noi per conto nostro non esitiamo a preferire le due scene originali, così come sono, alla correttissima minestra riscaldata del Morandi. Perchè le mille imperfezioni nella lingua del Goldoni non tolgono che non «si trovi dialogo più snello, più rapido, più vivace del suo» (F. Martini, vol. cit., p. 644). E del resto basta mettere a fronte la rifrittura delle Memorie con l’originale — nella sola chiusa — per preferire, non una, ma cento volte, questo a quella.

Memorie:

Fulgence. Je vous demande pardon; mais dans ce moment ci.... vous ètes un barbare. (il sort.).

Bernardin. (vers la coulisse avec un air de gaieté). Pasquin, Marguerite, Charlot; vite, que l’on me fasse diner. (Il sort.).

Commedia originale:

Fulgenzio. Siete peggio d’un cane.
Bernardino. Bravo, bravo. Evviva il signor Fulgenzio.
Fulgenzio. (Lo scannerei con le mie proprie mani). parte
Bernardino. Pasquale!
Pasquale. Signore.
Bernardino. In tavola.

Quando le tre Villeggiature apparvero nel tomo XI del Pasquali, Domenico Caminer nel suo Giornale enciclopedico ne recò quest’apprezzamento, sensatissimo seppur non peregrino. Noi lo riportiamo quasi corollario alle nostre Note.

Nelle tre Villeggiature «l’Autore ha sparso tutto quel ridicolo che pur troppo hanno le villeggiature d’oggidì, nelle quali non il respiro di aria aperta, e migliore di quella delle città, non un’attenzione a’ propri interessi rurali, ma una dissipazione di corpo, di borsa, e danni forse maggiori ne sono il frutto. Trattavasi di illuminare i propri concittadini intorno ad un punto ben delicato per il genere di quelli che al ridicolo e ad una critica salutare voleva sommettere, e vi riuscì egregiamente, trattando il suo argomento con quella leggiadria, con que’ riguardi, e con quella decenza, che spirano in tutte le sue Opere. Come nelle altre, lasciò anche in queste la Satira insultante, l’allegorico, che inteso solo da chi lo scrive è inutile, o rilevato è condannabile sul Teatro, a sozzi e villani scrittori, se pur ve n’ha di questi l’Italia nostra, che meritino qualche attenzione» (Tomo I, genn. 1774).

E. M.


Il Ritorno dalla villeggiatura fu impresso la prima volta a Venezia, l’anno 1773, nel t. XI dell’ed. Pasquali e fu poi ristampato, sempre di seguito alle Smanie per la villegg. e alle Avventure della villegg. a Torino (Guibert e Orgeas XIV. 1 774), a Bologna (a S. Tomaso d’Aquino, 1775), a Venezia ancora (Savioli e Pitteri XV, 1780; Zatta, cl. I, t. II, 1789; Garbo III, 1794), a Livorno (Masi XI, 1789), a Lucca (Bonsignori XVII, 1789) e forse altrove nel Settecento. La data della prima recita che leggesi nella intestazione delle varie edizioni «nel Carnovale dell’anno MDCCLXIII», risulta fantastica. — La presente ristampa seguì principalmente l’ed. Pasquali, approvata dall’autore e più fedele. Valgono le solite avvertenze.