Il piacere/XIV
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XIV.
Il marchese di Mount Edgcumbe, aprendo il grande armario segreto, la biblioteca arcana, diceva allo Sperelli:
— Voi dovreste disegnarmi i fermagli. Il volume è in-4, datato da Lampsaco come Les Aphrodites del Nerciat: 1734. Gli intagli mi pajono finissimi. Giudicatene.
Egli porse allo Sperelli il libro raro. Era intitolato Gervetii — De Concubitu — libri tres, ornato di vignette voluttuose.
— Questa figura è molto importante — soggiunse, indicando col dito una delle vignette, che rappresentava un congiungimento di corpi indescrivibile. — È una cosa nuova che io non conosceva ancora. Nessuno dei miei scrittori erotici ne fa menzione...
Seguitava a parlare, discutendo alcune particolarità, seguendo le linee del disegno con quel dito bianchiccio sparso di peli su la prima falange e terminato da un’unghia acuta, lucida, un po’ livida come l’unghia dei quadrumani. Le sue parole penetravano nell’orecchio dello Sperelli con uno stridore atroce.
― Questa edizione olandese di Petronio è magnifica. E questo è l'Erotopaegnion stampato a Parigi nel 1798. Conoscete il poema attribuito a John Wilkes, An essay on woman? Eccone una edizione del 1763.
La raccolta era ricchissima. Comprendeva tutta la letteratura pantagruelica e rococò di Francia: le priapèe, le fantasie scatologiche, le monacologie, gli elogi burleschi, i catechismi, gli idillii, i romanzi, i poemi dalla Pipe cassèe del Vadè alle Liaisons dangereuses, dall'Arètin d’Augustin Carrache alle Tourterelles de Zelmis, dalla Descouverture du style impudique al Faublas. Comprendeva quanto di più raffinato e di più infame l’ingegno umano ha prodotto nei secoli per comento dell’antico inno sacro al dio di Lampsaco: Salve, sancte pater.
Il collezionista prendeva i libri dalle file dell’armario, e li mostrava al giovine amico, parlando di continuo. Le sue mani oscene si facevano carezzevoli intorno i libri osceni rilegati in cuoi ed in tessuti di pregio. Ad ogni tratto sorrideva sottilmente. E gli passava nelli occhi grigi il baleno della follia, sotto la enorme fronte convessa.
― Posseggo anche la edizione principe degli Epigrammi di Marziale, quella di Venezia, fatta da Vindelino di Spira, in-folio. Eccola. Ed ecco il Beau, il traduttore di Marziale, il comentatore delle famose trecento ottanta due oscenità. Come vi sembrano le rilegature? I fermagli sono d’un maestro. Questa composizione di priapi è di grande stile.
Lo Sperelli ascoltava e guardava, con una specie di stupore che a poco a poco andavasi mutando in orrore e in dolore. I suoi occhi ad ogni momento erano attirati da un ritratto d’Elena, che pendeva alla parere, sul damasco rosso.
― È il ritratto di Elena, dipinto da Sir Frederick Leighton. Ma guardate qui, tutto il Sade! Le roman philosophique, La philosophie dans le boudoir, Les crimes de l’amour, Les malheurs de la vertu... Voi, certo, non conoscete questa edizione. È fatta per conto mio da Hèrissey, con caratteri elzeviriani del XVIII secolo, su carta delle Manifatture imperiali del Giappone, in soli cento venti cinque esemplari. Il divino marchese meritava questa gloria. I frontespizii, i titoli, le iniziali, tutti i fregi raccolgono quanto di più squisito noi conosciamo in materia d’iconografia erotica. Guardate i fermagli!
Le rilegature dei volumi erano mirabili. Una pelle di pescecane, rugosa ed aspra come quella che avvolge l’elsa delle sciabole giapponesi, copriva le due facce e il dorso; i fermagli e le borchie erano d’un bronzo assai ricco d’argento, opere di cesello elegantissime, che ricordavano i più bei lavori in ferro del secolo XVI.
― L’autore, Francis Redgrave, è morto in un manicomio. Era un giovine di genio. Io posseggo tutti i suoi studii. Ve li mostrerò.
Il collezionista s’accendeva. Egli uscì per andare a prendere l’albo dei disegni di Francis Redgrave, nella stanza contigua. Il suo passo era un po’ saltellante e malsicuro, come d’un uomo che abbia in sè un principio di paralisi, una malattia spinale incipiente; il suo busto rimaneva rigido, non assecondando il moto delle gambe, simile al busto d’un automa.
Andrea Sperelli lo seguì con lo sguardo, fin su la soglia, inquieto. Rimasto solo, fu preso da una terribile angoscia. La stanza, tappezzata di damasco rosso cupo, come la stanza dove Elena due anni innanzi erasi data a lui, gli parve allora tragica e lugubre. Forse quelle erano le tappezzerie medesime che avevano udite le parole di Elena: ― Mi piaci! ― L’armario aperto lasciava vedere le file dei libri osceni, le rilegature bizzarre impresse di simboli fallici. Alla parete pendeva il ritratto di Lady Heathfield accanto a una copia della Nelly O’Brien di Joshua Reynolds. Ambedue le creature, dal fondo della tela, guardavano con la stessa intensità penetrante, con lo stesso ardor di passione, con la stessa fiamma di desiderio sensuale, con la stessa prodigiosa eloquenza; ambedue avevano la bocca ambigua, enigmatica, sibillina, la bocca delle infaticabili ed inesorabili bevitrici d’anime; e avevano ambedue la fronte marmorea, immacolata, lucente d’una perpetua purità.
― Povero Redgrave! ― disse Lord Heathfield, rientrando con la custodia dei disegni tra le mani. ― Senza dubbio, egli era un genio. Nessuna fantasia erotica supera la sua. Guardate!... Guardate!... Che stile! Nessuno artista, io penso, nello studio della fisionomia umana si avvicina alla profondità e all’acutezza a cui è giunto questo Redgrave nello studio del phallus. Guardate!
Egli si allontanò un istante per andare a richiudere l’uscio. Poi tornò verso il tavolo, presso la finestra; e si mise a sfogliare la raccolta, sotto li occhi dello Sperelli, parlando di continuo, indicando con l’unghia scimiesca, affilata come un’arma, le particolarità di ciascuna figura. Egli parlava nella sua lingua, dando ad ogni principio di frase una intonazione interrogativa e ad ogni fine una cadenza eguale, stucchevole. Certe parole laceravano l’orecchio di Andrea come un suono aspro di ferri raschiati, come lo stridore d’una lama d’acciajo a contrasto d’una lastra di cristallo.
E i disegni del defunto Francis Redgrave passavano.
Erano spaventevoli; parevano il sogno d’un becchino torturato dalla satiriasi; si svolgevano come una paurosa danza macabra e priapica; rappresentavano cento variazioni d’un sol motivo, cento episodii d’un solo dramma. E le dramatis personae erano due: un priapo e uno scheletro, un phallus e un rictus.
― Questa è la pagina “superiore„ ― esclamò il marchese di Mount Edgcumbe, indicando l’ultimo disegno, su cui in quel punto scendeva a traverso i vetri della finestra un sorriso tenue di sole.
Era, infatti, una composizione di straordinaria potenza fantastica: una danza di scheletri muliebri, in un ciel notturno, guidata da una Morte flagellatrice. Su la faccia impudica della luna correva una nuvola nera, mostruosa, disegnata con un vigore e un’abilità degni della matita d’O-Kou-sai; l’attitudine della tetra corifea, l’espression del suo teschio dalle orbite vacue erano improntate d’una vitalità mirabile, d’una spirante realità non mai raggiunta da alcun altro artefice nella figurazione della Morte; e tutta quella sicinnide grottesca di scheletri slogati in gonne discinte, sotto le minacce della sferza, rivelava la tremenda febbre che aveva preso la mano del disegnatore, la tremenda follia che aveva preso il suo cervello.
― Ecco il libro che ha inspirato questo capolavoro a Francis Redgrave. Un gran libro!... Il più raro tra i rarissimi... Non conoscete voi Daniel Maclisius?
Lord Heathfield porse allo Sperelli il trattato De verberatione amatoria. Si accendeva sempre più, ragionando di piaceri crudeli. Le tempie calve gli s’invermigliavano e le vene della fronte gli si gonfiavano e la bocca gli s’increspava, un po’ convulsa, ad ogni tratto. E le mani, le mani odiose, gestivano con gesti brevi ma concitati, mentre i gomiti rimanevano rigidi, d’una rigidezza paralitica. La bestia immonda, laida, feroce appariva in lui, senza più veli. Nell’imaginazione dello Sperelli sorgevano tutti gli orrori del libertinaggio inglese: le gesta dell’Armata Nera, della black army, su pe’ marciapiedi di Londra; la caccia implacabile alle “vergini verdi„; i lupanari di West-End, della Halfousn Street; le case eleganti di Anna Rosemberg, della Jefferies; le camere segrete, ermetiche, imbottite dal pavimento al soffitto, ove si smorzano i gridi acuti che la tortura strappa alle vittime....
― Mumps! Mumps! Siete solo?
Era la voce di Elena. Ella batteva piano a un degli usci.
― Mumps!
Andrea trasalì: tutto il sangue gli fece velo alli occhi, gli accese la fronte, gli mise nelli orecchi un rombo, come se una vertigine improvvisa stesse per coglierlo. Un’insurrezione di brutalità lo sconvolse; gli attraversò lo spirito, nella luce d’un lampo, una visione oscena; gli passò nel cervello oscuramente un pensier criminoso; l’agitò per un attimo non so che smania sanguinaria. In mezzo al turbamento portato in lui da quei libri, da quelle figure, dalle parole di quell’uomo, risaliva su dalle cieche profondità dell’essere lo stesso impeto istintivo che già egli aveva provato un giorno, sul campo delle corse, dopo la vittoria contro il Rútolo, tra le esalazioni acri del cavallo fumante. Il fantasma d’un delitto d’amore lo tentò e si dileguò, rapidissimo, nella luce d’un lampo: uccidere quell’uomo, prendere quella donna per violenza, appagare così la terribile cupidigia carnale, poi uccidersi.
― Non sono solo ― disse il marito, senza aprire l’uscio. ― Fra qualche minuto potrò condurvi nel salone il conte Sperelli che è qui con me.
Egli ripose nell’armario il trattato di Daniel Maclisius; chiuse la custodia dei disegni di Francis Redgrave e la portò nella stanza contigua. Andrea avrebbe dato qualunque prezzo per sottrarsi al supplizio che l’aspettava ed era attratto da quel supplizio, nel tempo medesimo. Il suo sguardo, anche una volta, si levò alla parete rossa, verso il cupo quadro ove brillava la faccia esangue di Elena dagli occhi seguaci, dalla bocca di sibilla. Un fascino acuto e continuo emanava da quella immobilità imperiosa. Quel pallore unico dominava tragicamente tutta la rossa ombra della stanza. Ed egli sentì, anche una volta, che la sua trista passione era immedicabile.
Un’angoscia disperata l’assalse. ― Non avrebbe egli dunque mai più posseduta quella carne? Era ella dunque risoluta a non concedergli? Ed egli avrebbe per sempre nutrita in sè la fiamma del desiderio insoddisfatto? ― L’eccitazion prodotta in lui dai libri di Lord Heathfield inaspriva la sofferenza, rinfocolava la febbre. Era nel suo spirito un confuso tumulto d’imagini erotiche; la nudità di Elena entrava nei gruppi infami delle vignette incise dal Coiny, prendeva attitudini di piacere già note al passato amore, si piegava ad attitudini nuove, si offeriva alla lascivia bestiale del marito. Orrore! Orrore!
― Volete che andiamo di là? ― chiese il marito, ricomparendo su la soglia, ben ricomposto e tranquillo. ― Mi disegnerete dunque i fermagli pel mio Gervetius?
Andrea rispose:
― Mi proverò.
Egli non poteva reprimere il tremito interno. Nel salone, Elena lo guardò curiosamente, con un sorriso irritante. ― Che facevate, di là? ― ella gli chiese, pur sempre sorridendo al modo medesimo.
― Vostro marito mi mostrava cimelii.
― Ah!
Ella aveva la bocca sardonica, una cert’aria beffarda, un’irrision palese nella voce. Si adagiò, sopra un largo divano coperto d’un tappeto di Bouckara amaranto su cui languivano i cuscini pallidi e su’ cuscini le palme d’oro smorto. Si adagiò in un’attitudine molle, guardando Andrea di tra i lusinghevoli cigli, con quegli occhi che parevano come suffusi d’un qualche olio purissimo e sottilissimo. E si mise a parlare di cose mondane, ma con una voce che penetrava fin nell’intime vene del giovine, come un fuoco invisibile.
Due o tre volte Andrea sorprese lo sguardo scintillante di Lord Heathfield fisso su la moglie: uno sguardo che gli parve carico di tutte le impurità e le infamie dianzi rimescolate. Quasi ad ogni frase, Elena rideva, d’un riso irridente, con una strana facilità, non turbata dalla brama di que’ due uomini che s’erano accesi insieme su le figure dei libri osceni. Ancora, il pensier criminoso attraversò lo spirito di Andrea, nella luce d’un lampo. Tutte le fibre gli tremarono.
Quando Lord Heathfield si levò ed uscì, egli proruppe, con la voce roca, afferrandole un polso, avvicinandosi a lei così da sfiorarla con l’alito veemente:
― Io perdo la ragione... Io divento folle... Ho bisogno di te, Elena... Ti voglio...
Ella liberò il polso, con un gesto superbo. Poi disse, con una terribile freddezza: ― Vi farò dare da mio marito venti franchi. Uscendo di qui, potrete sodisfarvi.
Lo Sperelli balzò in piedi, livido.
Lord Heathfield rientrando chiese:
― Ve ne andate già? Che avete mai?
E sorrise del giovine amico, poichè egli conosceva gli effetti de’ suoi libri.
Lo Sperelli s’inchinò. Elena gli offerse la mano, senza scomporsi. Il marchese lo accompagno fin su la soglia, dicendogli piano:
― Vi raccomando il mio Gervetius.
Come fu sotto il portico, Andrea vide avanzarsi pel viale una carrozza. Un signore dalla gran barba bionda s’affacciò allo sportello, salutando. Era Galeazzo Secínaro.
Subitamente, gli sorse nello spirito il ricordo della Fiera di maggio con l’episodio della somma offerta da Galeazzo per ottenere che Elena Muti asciugasse alla barba le belle dita bagnate di Sciampagna. Affrettò il passo, uscì nella strada: aveva la sensazione ottusa e confusa come d’un romore assordante che sfuggisse dall’intimo del suo cervello.
Era un pomeriggio della fine d’aprile, caldo e umido. Il sole appariva e spariva tra i nuvoli fioccosi e pigri. L’accidia dello scirocco teneva Roma.
Sul marciapiede della via Sistina, egli scorse d’innanzi a sè una signora che camminava lentamente verso la Trinità. Riconobbe Donna Maria Ferres. Guardò l’orologio: erano, infatti, circa le cinque; mancavano pochi minuti all’ora abituale del ritrovo. Maria, certo, andava al palazzo Zuccari. Egli affrettò il passo per raggiungerla. Quando fu da presso la chiamò per nome:
― Maria!
Ella ebbe un sussulto:
― Come qui? Io salivo da te. Sono le cinque.
― Manca qualche minuto. Io correvo ad aspettarti. Perdonami.
― Che hai? Sei molto pallido, tutto alterato... Di dove vieni? Ella corrugò i sopraccigli, fissandolo, a traverso il velo.
― Dalla scuderia ― rispose Andrea, sostenendo lo sguardo, senza arrossire, come s’egli non avesse più sangue. ― Un cavallo, che m’era assai caro, s’è rovinato un ginocchio per colpa del jockey. Domenica non potrà quindi prender parte al Derby. La cosa mi fa pena ed ira. Perdonami. Ho indugiato senza accorgermene. Ma alle cinque manca qualche minuto...
― Bene. Addio. Me ne vado.
Erano su la piazza della Trinità. Ella si soffermò per congedarsi, tendendogli la mano. Le durava ancora tra i sopraccigli una piega. In mezzo alla sua gran dolcezza, talvolta ella aveva insofferenze quasi aspre e movimenti altieri che la trasfiguravano.
― No, Maria. Vieni. Sii dolce. Io vado su, ad aspettarti. Tu arriva fino ai cancelli del Pincio e torna indietro. Vuoi?
L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le cinque.
― Senti? ― soggiunse Andrea.
Ella disse, dopo una leggera esitazione:
― Verrò. ― Grazie. Ti amo.
― Ti amo.
Si separarono.
Donna Maria seguitò il suo cammino; traversò la piazza, entrò nel viale arborato. Sul suo capo, a intervalli, lungo la muraglia, il soffio languido dello scirocco suscitava negli alberi verdi un murmure. Nel tepore umido dell’aria fluivano rare onde di profumo e svanivano. Le nuvole parevano più basse; certi stormi di rondini quasi radevano il suolo. Eppure, in quella snervante gravezza era qualche cosa di molle che ammolliva il cuor passionato della senese.
Da che ella aveva ceduto al desiderio di Andrea, il suo cuore si agitava in una felicità solcata d’inquietudini profonde; tutto il suo sangue cristiano s’accendeva alle voluttà della passione non mai provate e s’agghiacciava agli sbigottimenti della colpa. La sua passione era altissima, soverchiante, immensa; così fiera che spesso per lunghe ore le toglieva la memoria della figlia. Ella giungeva ad obliare Delfina, talvolta; a trascurarla! Ed aveva poi subitanei ritorni di rimorso, di pentimento, di tenerezza, in cui ella copriva di baci e di lacrime la testa della figlia attonita, singhiozzando con un dolor disperato, come sopra la testa d’una morta.
Tutto il suo essere s’affinava alla fiamma, si assottigliava, si acuiva, acquistava una sensibilità prodigiosa, una specie di lucidità oltraveggente, una facoltà divinatoria che le dava strane torture. Quasi ad ogni inganno di Andrea, ella si sentiva passare un’ombra su l’anima, provava una inquietudine indefinita che talvolta addensandosi prendeva forma d’un sospetto. E il sospetto la mordeva, le rendeva amari i baci, acre ogni carezza, finchè non si dileguava sotto gli impeti e gli ardori dell’incomprensibile amante.
Ella era gelosa. La gelosia era il suo spasimo implacabile, la gelosia, non pur del presente, ma del passato. Per quella crudeltà che le persone gelose hanno contro sè stesse, ella avrebbe voluto leggere nella memoria di Andrea, scoprirne tutti i ricordi, vedere tutte le tracce segnate dalle antiche amanti, sapere, sapere. La domanda che più spesso le correva alle labbra, quando Andrea taceva, era questa: ― A che pensi? ― E mentre ella profferiva le tre parole, inevitabilmente l’ombra le passava negli occhi e su l’anima, inevitabilmente un flutto di tristezza le si levava dal cuore.
Anche quel giorno, all’improvviso sopraggiungere di Andrea, non aveva ella avuto in fondo a sè un istintivo moto di sospetto? Anzi un pensier lucido erale balenato nello spirito: il pensiero che Andrea venisse dalla casa di Lady Heathfield, dal palazzo Barberini.
Ella sapeva che Andrea era stato l’amante di quella donna, sapeva che quella donna si chiamava Elena, sapeva infine che quella era la Elena dell’inscrizione. “Ich lebe!...„ Il distico del Goethe le squillava forte sul cuore. Quel grido lirico le dava la misura dell’amor d’Andrea per la bellissima donna. Egli doveva averla immensamente amata!
Camminando sotto gli alberi, ella ricordava l’apparizione di Elena nella sala del concerto, al Palazzo de’ Sabini, e il turbamento mal dissimulato dell’antico amante. Ricordava la terribile commozione che l’aveva presa una sera, a una festa dell’Ambasciata d’Austria, quando la contessa Starnina le aveva detto, al passaggio di Elena: ― Ti piace la Heathfield? È stata una gran fiamma del nostro amico Sperelli, e credo che sia ancora.
“Credo che sia ancora.„ Quante torture per quella frase! Ella aveva seguita con gli occhi la gran rivale, di continuo, in mezzo alla folla elegante; e più d’una volta il suo sguardo erasi incontrato con quel di lei, ed ella ne aveva avuto un brivido indefinibile. Poi, nella sera medesima, presentate l’una all’altra dalla baronessa di Boeckhorst, in mezzo alla folla, avevano scambiato un semplice inchino della testa. E il tacito inchino erasi ripetuto in seguito, nelle assai rare volte che Donna Maria Ferres y Capdevila aveva attraversato un salone mondano.
Perchè i dubbii, sopiti o spenti sotto l’onda delle ebrezze, risorgevano con tanta veemenza? Perchè ella non riusciva a reprimerli, ad allontanarli? Perchè in fondo a lei si agitavano, ad ogni piccolo urto dell’imaginazione, tutte quelle sconosciute inquietudini?
Camminando sotto gli alberi, ella sentiva crescere l’affanno. Il suo cuore non era pago; il sogno levatosi dal suo cuore ― nella mattina mistica, sotto gli alberi floridi, in conspetto del mare ― non s’era avverato. La parte più pura e più bella di quell’amore era rimasta là, nel bosco solitario, nella selva simbolica che fiorisce e fruttifica perpetuamente contemplando l’Infinito.
Ella si soffermò, d’innanzi al parapetto che guarda San Sebastianello. I vecchissimi elci, d’una verdura così cupa che quasi pareva nera, protendevano su la fontana un tetto arteficiato, senza vita. I tronchi portavano ampie ferite, ricolmate con la calce e col mattone, come le aperture d’una muraglia. ― Oh giovini álbatri raggianti e spiranti nella luce! ― L’acqua grondando dalla superior tazza di granito nel bacino sottoposto metteva uno scoppio di gemiti, a intervalli, come un cuore che si riempia d’angoscia e poi trabocchi in pianto. ― Oh melodìa delle Cento Fontane, pel viale de’ lauri! ― La città giaceva estinta, come sepolta dalla cenere d’un vulcano invisibile, silenziosa e funerea come una città disfatta da una pestilenza, enorme, informe, dominata dalla Cupola che le sorgeva dal grembo come una nube. ― Oh mare! Oh mare sereno!
Ella sentiva crescere l’affanno. Un’oscura minaccia veniva a lei dalle cose. La occupò quel medesimo senso di timore che già ella aveva provato più d’una volta. Sul suo spirito cristiano balenò il pensiero del castigo.
E tuttavia ella rabbrividì nel più profondo del suo essere al pensiero che l’amante l’aspettava; al pensiero dei baci, delle carezze, delle folli parole, ella sentì il suo sangue infiammarsi, la sua anima languire. Il brivido della passione vinse il brivido del timor divino. Ed ella si mosse verso la casa dell’amante, trepida, sconvolta, come se andasse a un primo ritrovo.
― Oh, finalmente! ― esclamò Andrea, accogliendola fra le sue braccia, bevendole l’alito dalla bocca affannata.
Poi, prendendole una mano e premendosela al petto:
― Sentimi il cuore. Se tu indugiavi ancor un minuto, mi si rompeva.
Ella mise la guancia nel luogo della mano. Egli le baciò la nuca.
― Senti?
― Sì; mi parla.
― Che ti dice?
― Che non mi ami.
― Che ti dice? ― ripetè il giovine, mordendola alla nuca, impedendole di sollevarsi.
Ella rise.
― Che mi ami.
Ella si tolse il mantello, il cappello, i guanti. Andò a odorare i fiori di lilla bianchi che empivano le alte coppe fiorentine, quelle del tondo borghesiano. Aveva su i tappeti un passo di straordinaria leggerezza; e nulla era più soave dell’atto con cui ella affondava il viso tra le ciocche delicate.
― Prendi ― ella disse, recidendo coi denti una cima e tenendola in bocca, fuor delle labbra.
― No; io prenderò dalla tua bocca un altro fiore, men bianco ma più saporoso...
Si baciarono, a lungo, a lungo, in mezzo al profumo.
Egli disse, con la voce un po’ mutata, traendola:
― Vieni, di là.
― No, Andrea; è tardi. Oggi, no. Restiamo qui. Io ti farò il tè; tu mi farai tante carezze buone.
Ella gli prese le mani, intrecciò le sue dita a quelle di lui.
― Non so che ho. Mi sento il cuore così gonfio di tenerezza che quasi piangerei.
Le sue parole tremavano; i suoi occhi s’inumidivano.
― Se potessi non lasciarti, restare qui tutta la sera!
Un’accorazione profonda le suggeriva accenti d’indefinibile malinconia.
― Pensare che tu non saprai mai tutto tutto il mio amore! Pensare che io non saprò mai il tuo! Mi ami tu? Dimmelo, dimmelo sempre, cento volte, mille volte, senza stancarti. Mi ami?
― Non lo sai forse?
― Non lo so.
Ella profferì queste parole con una voce tanto sommessa che Andrea le udì appena.
― Maria!
Ella piegò il capo sul petto di lui, in silenzio; appoggiò la fronte, quasi aspettando ch’egli parlasse, per ascoltarlo.
Egli guardò quel povero capo reclinato sotto il peso del presentimento; sentì il premer leggero di quella fronte nobile e triste sul suo petto indurito dalla menzogna, fasciato di falsità. Una commozione angosciosa lo strinse; una misericordia umana di quella sofferenza umana gli chiuse la gola. E quel buon moto dell’anima si risolse in parole che mentivano, diede il tremito della sincerità a parole che mentivano.
― Tu non lo sai!... Hai parlato piano; il soffio ti si è spento su le labbra; qualche cosa in fondo a te s’è levata contro quel che dicevi; tutti tutti i ricordi del nostro amore si son levati contro quel che dicevi. Tu non sai che io ti amo!...
Ella rimaneva china, ascoltando, palpitando forte, riconoscendo, credendo riconoscere nella voce commossa del giovine il suono vero della passione, l’inebriante suono ch’ella credeva inimitabile. Ed egli le parlava quasi all’orecchio, nel silenzio della stanza, mettendole sul collo un soffio caldo, con pause più dolci delle parole.
― Avere un pensiero unico, assiduo, di tutte l’ore, di tutti gli attimi;... non concepire altra felicità che quella, sovrumana, irraggiata dalla sola tua presenza su l’esser mio;... vivere tutto il giorno nell’aspettazione inquieta, furiosa, terribile, del momento in cui ti rivedrò;... nutrire l’imagine delle tue carezze, quando sei partita, e di nuovo possederti in un’ombra quasi creata;... sentirti, quando io dormo, sentirti, sul mio cuore, viva, reale, palpabile, mescolata al mio sangue, mescolata alla mia vita;... e credere in te soltanto, giurare in te soltanto, riporre in te soltanto la mia fede, la mia forza, il mio orgoglio, tutto il mio mondo, tutto quel che sogno, e tutto quel che spero...
Ella alzò la faccia rigata di lacrime. Egli tacque, arrestandole con le labbra le stille tiepide su le gote. Ella lacrimava e sorrideva, mettendogli le dita tremule ne’ capelli, smarritamente, singhiozzando:
― Anima, anima mia!
Egli la fece sedere; le si inginocchiò ai piedi, non lasciando di baciarla su le palpebre. A un tratto, ebbe un sussulto. Aveva sentito su le labbra palpitare rapidamente i lunghi cigli di lei, a similitudine di un’ala irrequieta. Era una carezza strana che dava un piacere insostenibile; era una carezza che Elena un tempo soleva fare ridendo, più volte di séguito, costringendo l’amante al piccolo spasimo nervoso della vellicazione; e Maria l’aveva appresa da lui, e spesso egli sotto una tal carezza aveva potuto evocare l’imagine dell'altra.
Al sussulto, Maria sorrise. E, come le indugiava ancóra una lacrima lucida tra i cigli, ella disse:
― Bevi anche questa!
E, come egli bevve, ella rise, inconsapevole.
Ella esciva dal pianto quasi lieta, rassicurata, piena di grazie.
― Ti farò il tè ― disse.
― No; rimani qui, seduta.
Egli s’accendeva, vedendola sul divano, tra i cuscini. Avvenne, nel suo spirito, una subita sovrapposizione dell’imagine d’Elena.
― Lasciami alzare! ― pregò Maria, liberando il busto da un stretta. ― Voglio che tu beva il mio tè. Sentirai. Il profumo t’arriverà all’anima.
Parlava d’un tè prezioso, giuntole da Calcutta, ch’ella aveva donato ad Andrea il giorno innanzi.
Si alzò e andò a sedersi su la seggiola di cuoio dalle Chimere, dove ancora moriva squisitamente il color “rosa di gruogo„ dell’antica dalmatica. Su la piccola tavola ancóra brillavano le majoliche fini di Castel Durante.
Nel compier l’opera, ella diceva tante cose gentili; espandeva la sua bontà e la sua tenerezza con un pieno abbandono; godeva ingenuamente di quella cara intimità segreta, in quella stanza tranquilla, in mezzo a quel lusso raffinato. Dietro di lei, come dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli, sorgevano le coppe di cristallo coronate dalle ciocche di lilla bianche; e le sue mani d’arcangelo si movevano tra le istoriette mitologiche di Luzio Dolci e gli esametri d’Ovidio.
― A che pensi? ― chiese ella ad Andrea che le stava vicino, seduto sul tappeto, con la testa appoggiata contro un bracciuolo della seggiola.
― Ti ascolto. Parla ancora!
― Non più.
― Parla! Dimmi tante cose, tante cose...
― Quali cose?
― Quelle che sai tu sola.
Egli faceva cullare dalla voce di lei l’angoscia che gli veniva dall’altra; faceva animare dalla voce di lei la figura dell’altra.
― Senti? ― esclamò Maria, versando su le foglie aromatiche l’acqua bollente.
Un profumo acuto si spandeva nell’aria, col vapore. Andrea l’aspirò. Poi disse, chiudendo gli occhi, rovesciando indietro il capo:
― Baciami.
E, appena ebbe il contatto delle labbra, trasalì tanto forte che Maria ne fu sorpresa.
Ella versò, in una tazza la bevanda e glie la offerse, con un sorriso misterioso.
― Bada. C’è un filtro.
Egli rifiutò l’offerta.
― Non voglio bere a quella tazza. ― Perchè?
― Dammi tu... da bere.
― Ma come?
― Così. Prendi un sorso e non inghiottire.
― Scotta troppo ancora.
Ella rideva, a quel capriccio dell’amante. Egli era un po’ convulso, pallidissimo, con lo sguardo alterato. Aspettarono che il tè si freddasse. Ad ogni momento, Maria accostava le labbra all’orlo della tazza per provare; poi rideva, d’un piccolo riso fresco che non pareva suo.
― Ora, si può bere ― annunziò.
― Ora, prendi un bel sorso. Così.
Ella teneva le labbra serrate, per contenere il sorso; ma le ridevano i grandi occhi a cui le lacrime recenti avevan dato maggior fulgore.
― Ora, versa, a poco a poco.
Egli trasse nel bacio, suggendo, tutto il sorso. Come sentiva mancarsi il respiro, ella sollecitava il lento bevitore stringendogli le tempie.
― Dio mio! Tu mi volevi soffocare.
S’abbandonò sul cuscino, quasi per riposarsi, languida, felice.
― Che sapore aveva? Tu m’hai bevuta anche l’anima. Sono tutta vuota.
Egli era rimasto pensoso, con lo sguardo fisso.
― A che pensi? ― gli chiese Maria, di nuovo, sollevandosi a un tratto, posandogli un dito nel mezzo della fronte, quasi per fermare il pensiero invisibile.
― A nulla ― rispose. ― Non pensavo. Seguivo dentro di me gli effetti del filtro...
Allora ella anche volle provare. Bevve da lui con delizia. Poi esclamò, premendosi una mano sul cuore e mettendo un lungo respiro:
― Quanto mi piace!
Andrea tremò. Non era quello lo stesso accento di Elena nella sera della dedizione? Non erano le stesse parole? Egli le guardava la bocca.
― Ripeti.
― Che cosa?
― Quello che hai detto.
― Perchè?
― E una parola tanto dolce, quando tu la pronunzii... Tu non puoi intendere... Ripeti.
Ella sorrideva, inconsapevole, un po’ turbata dallo sguardo singolare dell’amante, quasi timida.
― Ebbene... mi piace!
― Ed io?
― Come?
― Ed io... a te...?
Ella, perplessa, guardava l’amante che le si torceva ai piedi, convulso, nell’aspettazione della parola ch’egli voleva strapparle.
― Ed io?
― Ah! Tu... mi piaci.
― Così, così... Ripeti. Ancora!
Ella consentiva, inconsapevole. Egli provava uno spasimo ed una voluttà indefinibili.
― Perchè chiudi gli occhi? ― chiese ella, non in sospetto, ma affinchè egli le esprimesse la sua sensazione.
― Per morire.
Egli posò la testa su le ginocchia di lei, rimanendo qualche minuto in quell’attitudine, silenzioso, oscuro. Ella gli accarezzava piano i capelli, le tempie, la fronte ove, sotto la carezza, si moveva un pensiero infame. D’in torno a loro, la stanza immergevasi nell’ombra, a poco a poco; fluttuava il profumo commisto dei fiori e della bevanda; le forme si confondevano in una sola apparenza armonica e ricca, senza realità.
Dopo un intervallo, Maria disse:
― Lévati, amore. Bisogna che io ti lasci. È tardi.
Egli si levò, pregando:
― Resta con me un altro momento, fino all’Ave Maria.
E la trasse di nuovo a sedere sul divano, dove i cuscini luccicavano nell’ombra. Nell’ombra egli la distese con un moto repentino, le strinse il capo, coprendole di baci la faccia. Il suo ardore era quasi iroso. Egli imaginava di stringere il capo dell’altra, e imaginava quel capo macchiato dalle labbra del marito; e non ne aveva ribrezzo ma ne aveva anzi un desiderio più selvaggio. Dai fondi più bassi dell’istinto gli risalivano nella conscienza tutte le torbide sensazioni avute in cospetto di quell’uomo; gli risalivano al cuore tutte le oscenità e le brutture, come un’onda di fango rimescolata; e tutte quelle vili cose passavano nei baci su le guance, su la fronte, su i capelli, sul collo, su la bocca di Maria.
― No; lasciami! ― ella gridò liberandosi dalla stretta con uno sforzo.
E corse, verso la tavola del tè, ad accendere le candele. ― Siate savio ― ella soggiunse, un poco affannata, ravviandosi, con una gentile aria di cruccio.
Egli era rimasto sul divano e la guardava, muto.
Ella andò verso la parete, a fianco del caminetto, ove pendeva il piccolo specchio di Mona Amorrosisca. Si mise il cappello e il velo, innanzi a quella lastra offuscata che aveva apparenza d’un’acqua torba, un poco verdastra.
― Come mi dispiace di lasciarti, stasera!... Stasera più delle altre volte... ― mormorò, oppressa dalla malinconia dell’ora.
Nella stanza il lume violaceo del crepuscolo pugnava col lume delle candele. La tazza di tè era su l’orlo della tavola, fredda, diminuita dei due sorsi. In sommo delle alte coppe di cristallo i fiori di lilla parevano più bianchi. Il cuscino della poltrona conservava ancora l’impronta del corpo ch’eravisi affondato.
La campana della Trinità de’ Monti cominciò a sonare.
― Dio mio, com’è tardi! Aiutami a mettermi il mantello ― fece la povera creatura, tornando verso Andrea.
Egli la strinse di nuovo fra le braccia, la stese, la coprì di baci furiosi, ciecamente, perdutamente, con un divorante ardore, senza parlare, soffocandole il gemito su la bocca, soffocando su la bocca di lei un impeto che gli veniva, quasi invincibile, di gridare il nome di Elena. E sul corpo della inconsapevole consumò l’orribile sacrilegio.
Rimasero qualche minuto avvinti. Ella disse, con la voce spenta ed ebra: ― Tu ti prendi la mia vita!
Ella era felice di quell’appassionata veemenza.
Ella disse:
― Anima, anima mia, tutta tutta mia!
Disse, felice:
― Ti sento battere il cuore... tanto forte, tanto forte!
Poi disse, con un sospiro:
― Lasciami alzare. Bisogna ch’io vada.
Andrea era bianco e stravolto come un omicida.
― Che hai? ― gli chiese ella teneramente.
Egli volle sorriderle. Rispose:
― Non avevo mai provata una commozione così profonda. Credevo di morire.
Si volse a una delle coppe, tolse il fascio dei fiori, e l’offerse a Maria, accompagnandola verso la porta, quasi sollecitandola a partirsi, poichè ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola di lei gli dava uno strazio insostenibile.
― Addio, amore. Sognami! ― disse la povera creatura, dalla soglia, con la sua tenerezza suprema.