Il piacere/XV
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XV
La mattina del 20 maggio, Andrea Sperelli risaliva il Corso inondato dal sole, quando si sentì chiamare, innanzi al portone del Circolo.
Stava sul marciapiede un crocchio di gentiluomini amici, godendo il passaggio delle signore e malignando. C’era Giulio Muséllaro, con Ludovico Barbarisi, con il duca di Grimiti, con Galeazzo Secìnaro; c’era Gino Bommìnaco; c’era qualche altro.
― Non sai il fatto di stanotte? ― gli domandò il Barbarisi.
― No. Quale fatto?
― Don Manuel Ferres, il ministro del Guatemala...
― Ebbene?
― È stato sorpreso, in pieno giuoco, mentre barava.
Lo Sperelli si dominò, quantunque alcuno de’ gentiluomini lo guardasse con una certa curiosità maliziosa.
― E come?
― Galeazzo era presente, anzi giocava allo stesso tavolo.
Il principe Secínaro si mise a raccontare le particolarità.
Andrea Sperelli non affettò l’indifferenza. Ascoltava anzi con un’aria attenta e grave. Disse, infine:
― Mi dispiace molto.
Rimase pochi altri minuti nel crocchio; salutò quindi gli amici, per andarsene.
― Che via fai? ― gli domandò il Secínaro.
― Torno a casa.
― Ti accompagno per un tratto.
S’incamminarono in giù, verso la via de’ Condotti. Il Corso era un lietissimo fiume di sole, dalla piazza di Venezia alla piazza del Popolo. Le signore, in chiari abbigliamenti primaverili, passavano lungo le vetrine scintillanti. Passò la principessa di Ferentino con Barbarella Viti, sotto una cupola di merletto. Passò Bianca Dolcebuono. Passò la giovine sposa di Leonetto Lanza.
― Lo conoscevi tu, quel Ferres? ― domandò Galeazzo allo Sperelli ch’era taciturno.
― Sì; lo conobbi l’anno scorso, di settembre, a Schifanoja, da mia cugina Ateleta. La moglie è una grande amica di Francesca. Perciò il fatto mi dispiace molto. Bisognerebbe cercare di dargli la minor possibile publicità. Tu mi renderesti un servigio, ajutandomi...
Galeazzo si profferse con premura cordiale. ― Credo ― egli disse ― che lo scandalo in parte sarebbe evitato se il ministro presentasse le dimissioni al suo Governo, ma senza indugio, come gli è stato ingiunto dal presidente del Circolo. Il ministro invece si rifiuta. Stanotte aveva un’attitudine di persona offesa; alzava la voce. E le prove erano là! Bisognerebbe persuaderlo...
Seguitarono a parlare del fatto, camminando. Lo Sperelli era grato al Secínaro, della premura cordiale. Il Secínaro era predisposto, da quella intimità, alle confidenze amichevoli.
Su l’angolo della via de’ Condotti, scorsero la signora di Mount Edgcumbe che seguiva il marciapiede sinistro, lungo le vetrine giapponesi, con quella sua andatura molle e ritmica e affascinante.
― Donna Elena ― disse Galeazzo.
Ambedue la guardarono; ambedue sentirono il fascino di quell’incesso. Ma lo sguardo di Andrea penetrò le vesti, vide le forme note, il dorso divino.
Quando la raggiunsero, la salutarono insieme; e passarono oltre. Ora essi non potevano guardarla ed erano guardati. E fu per Andrea un supplizio nuovissimo quel camminare a fianco d’un rivale, sotto gli occhi della donna agognata, pensando che i terribili occhi si dilettavano forse d’un confronto. Egli medesimo si paragonò, mentalmente, al Secínaro.
Costui aveva il tipo bovino d’un Lucio Vero biondo e cerulo; e gli rosseggiava tra la copia magnifica dell’oro una bocca di nessuna significazione spirituale, ma bella. Era alto, quadrato, vigoroso, d’una eleganza non fine ma disinvolta.
― Ebbene? ― gli domandò Andrea, spinto all’audacia da una invincibile smania. ― È a buon punto l’avventura?
Egli sapeva di poter parlare in quel modo a quell’uomo.
Galeazzo gli si volse con un’aria tra attonita e indagatrice; poichè non s’aspettava da lui una simile domanda e tanto meno in un tono così frivolo, così perfettamente calmo. Andrea sorrideva.
― Ah, da quanto tempo dura il mio assedio! ― rispose il principe barbato. ― Da tempo immemorabile, a varie riprese, e sempre senza fortuna. Arrivavo sempre troppo tardi: qualcuno m’aveva già preceduto nell’espugnazione. Ma non mi son mai perduto d’animo. Ero convinto che, o prima o poi, sarebbe venuto il mio turno. Attendre pour atteindre. Infatti...
― Dunque?
― Lady Heathfield m’è più benigna della duchessa di Scerni. Avrò, io spero, l’ambitissimo onore d’essere inscritto dopo te, nella lista...
Egli ruppe in un riso un po’ grosso, mostrando la dentatura candida.
― Credo che le mie gesta indiane, divulgate da Giulio Muséllaro, abbiano aggiunto alla mia barba qualche filo eroico d’irresistibile virtù.
― Oh, ma la tua barba in questi giorni deve fremere di ricordi...
― Di quali ricordi?
― Di ricordi bacchici.
― Non capisco. ― Come! Tu dimentichi la famosa fiera di maggio dell’ottantaquattro?
― Oh, guarda! Mi ci fai pensare. Cadrebbe in questi giorni il terzo anniversario... Tu però non c’eri. E chi t’ha raccontato?...
― Vuoi saper troppo, mio caro.
― Dimmelo; ti prego.
― Pensa piuttosto a valerti dell’anniversario con abilità; e dammi presto notizie.
― Quando ci vedremo?
― Quando ti piace.
― Pranza con me stasera, al Circolo, verso le otto. Così potremo poi occuparci insieme dell’altra faccenda.
― Va bene. Addio, Barbadoro. Corri!
Si separarono nella piazza di Spagna, a piè della scala; e, come Elena attraversava la piazza dirigendosi verso la via de’ Due Macelli per salire alle Quattro Fontane, il Secínaro la raggiunse e l’accompagnò.
Andrea, dopo lo sforzo della dissimulazione, si sentiva pesare il cuore su per la scala, orribilmente. Credeva di non poterlo trascinare alla sommità. Ma egli era sicuro omai che, in séguito, il Secínaro gli avrebbe tutto confidato; e quasi gli pareva d’aver ottenuto un vantaggio! Per una specie di ubriachezza, per una specie di follia datagli dall’eccesso della sofferenza, egli andava ciecamente incontro a torture nuove e sempre più crudeli e sempre più insensate, aggravando e complicando in mille modi le condizioni del suo spirito, passando di pervertimento in pervertimento, di aberrazione in aberrazione, di atrocità in atrocità, senza potersi più arrestare, senza avere un attimo di sosta nella caduta vertiginosa. Egli era divorato come da una febbre inestinguibile che facesse schiudere col suo calore negli oscuri abissi dell’essere tutti i germi delle abiezioni umane. Ogni pensiero, ogni sentimento portava la macchia. Egli era tutto una piaga.
E pure, l’inganno medesimo lo legava forte alla donna ingannata. Il suo spirito erasi così stranamente adattato alla mostruosa comedia, che quasi non concepiva più altro modo di piacere, altro modo di dolore. Quella incarnazione di una donna in un’altra non era più un atto di passione esasperata ma era un’abitudine di vizio e quindi un bisogno imperioso, una necessità. E l’istrumento inconsapevole di quel vizio era divenuto quindi per lui necessario come il vizio medesimo. Per un fenomeno di depravazion sensuale, egli era quasi giunto a credere che il real possesso di Elena non gli avrebbe dato il godimento acuto e raro datogli da quel possesso imaginario. Egli era quasi giunto a non poter più separare, nell’idea di voluttà, le due donne. E come pensava diminuita la voluttà nel possesso reale dell’una, così anche sentiva tutti i suoi nervi ottusi quando, per una stanchezza dell’imaginazione, egli trovavasi innanzi alla forma reale immediata dell’altra.
Perciò egli non resse al pensiero che Maria dalla ruina di Don Manuel Ferres gli fosse tolta.
Quando verso sera Maria venne, egli sùbito s’accorse che la povera creatura ignorava ancóra la sua disgrazia. Ma, il giorno dopo, ella venne ansante, sconvolta, pallida come una morta; e gli singhiozzò tra le braccia, nascondendo il viso:
― Tu sai?...
La notizia s’era sparsa. Lo scandalo era inevitabile; la ruina era irrimediabile. Seguirono giorni di supplizio disperati; in cui Maria, rimasta sola dopo la partenza precipitosa del baro, abbandonata dalle poche amiche, assaltata dai creditori innumerevoli di suo marito, perduta in mezzo alle formalità legali dei sequestri, in mezzo agli uscieri e agli usurai e ad altra gente vile, diede prova di una eroica fierezza, ma senza riuscire a salvarsi dal crollo finale che schiacciò ogni speranza.
Ed ella non volle dall’amante alcun aiuto, ella non parlò mai del suo martirio all’amante che le rimproverava la brevità delle visite d’amore; non si lamentò mai; seppe ancóra trovare per lui un sorriso men triste; seppe ancóra obedire ai capricci, concedere appassionatamente il suo corpo alle contaminazioni, effondere sul capo del carnefice le più calde tenerezze dell’anima sua. Tutto, intorno a lei, cadeva. Il castigo era piombato improvviso. I presentimenti dicevano il vero!
Ed ella non si rammaricò di aver ceduto all’amante, non si pentì d’essersi data a lui con tanto abbandono, non rimpianse la sua purità perduta. Ella ebbe un solo dolore, più forte d’ogni rimorso e d’ogni paura, più forte d’ogni altro dolore; e fu al pensiero di doversi allontanare, di dover partire, di doversi dividere dall’uomo ch’era per lei la vita della vita.
― Io morirò, amico mio. Vado a morire lontana da te, sola sola. Tu non mi chiuderai gli occhi...
Ella gli parlava della sua fine con un sorriso profondo, pieno di certezza rassegnata. Andrea le faceva balenare ancora un’illusion di speranza, le gettava nel cuore il seme d’un sogno, il seme d’una sofferenza futura!
― Io non ti lascerò morire. Tu sarai ancora mia, per lungo tempo. Il nostro amore avrà ancora giorni felici...
Egli le parlava d’un prossimo avvenire. ― Si sarebbe stabilito a Firenze; di là sarebbe andato spesso a Siena, sotto pretesto di studii; si sarebbe trattenuto a Siena mesi intieri, copiando qualche antica pittura, ricercando qualche antica cronaca. Il loro amore misterioso avrebbe avuto un nido nascosto, in una via deserta, o fuori delle mura, nella campagna, in una villa ornata di majoliche robbiesche, circondata d’un verziere. Ella avrebbe saputo trovare un’ora per lui. Qualche volta anche sarebbe venuta a Firenze per una settimana, per una gran settimana di felicità. Avrebbero portato il loro idillio su la collina di Fiesole, in un settembre mite come un aprile; e i cipressi di Montughi sarebbero stati clementi come i cipressi di Schifanoja.
― Fosse vero! Fosse vero! ― sospirava Maria.
― Non mi credi?
― Sì, ti credo; ma il cuore mi dice che tutte queste cose, troppo dolci, non esciranno dal sogno.
Ella voleva che Andrea la reggesse a lungo su le braccia; e rimaneva appoggiata contro il petto di lui, senza parlare, raccogliendosi tutta, come per nascondersi, col movimento e col brivido d’una persona malata o d’una persona minacciata che abbia bisogno di protezione. Chiedeva ad Andrea carezze spirituali, quelle che nel suo linguaggio intimo ella chiamava “carezze buone„, quelle che la intenerivano e le davano lacrime di struggimento più soavi di qualunque piacere. Non sapeva comprendere come in quei momenti di suprema spiritualità, in quelle ultime ore dolorose della passione, in quelle ore di addio, l’amante non fosse pago di baciarle le mani.
Ella pregava, quasi ferita dal crudo desiderio di Andrea:
― No, amore! Mi sembra che tu sia più vicino a me, più stretto a me, più confuso con il mio essere, quando mi ti siedi accanto, quando mi prendi le mani, quando mi guardi in fondo agli occhi, quando mi dici le cose che tu solo sai dire. Mi sembra che le altre carezze ci allontanino, che mettano tra me e te non so quale ombra... Non so veramente rendere il mio pensiero... Le altre carezze mi lasciano poi tanto triste, tanto tanto triste... non so... e stanca, d’una stanchezza tanto cattiva!
Ella pregava, umile, sommessa, temendo di dispiacergli. Ella non faceva che evocare memorie, memorie, memorie, passate, recenti, con le particolarità più minute, ricordandosi dei gesti più lievi, delle parole più fuggevoli, di tutti i piccoli fatti più insignificanti, che per lei avevano avuto un significato. Il suo cuore tornava con maggior frequenza ai primissimi giorni di Schifanoja.
― Ti ricordi? Ti ricordi?
E le lacrime d’improvviso le empivano gli occhi abbattuti.
Una sera, Andrea le domandò, pensando al marito:
― Da che io ti conosco, tu sei stata sempre tutta mia?
― Sempre.
― Non ti chiedo dell’anima...
― Taci! Sempre tutta tua.
Ed egli, che in questo non aveva creduto a nessuna delle sue amanti adultere, le credette; non ebbe né pur l’ombra d’un dubbio su la verità ch’ella affermava.
Le credette; perchè, pur contaminandola e ingannandola senza ritegno, egli sapeva d’essere amato da un alto e nobile spirito, egli sapeva ormai di trovarsi innanzi a una grande e terribile passione, egli aveva ormai coscienza di quella grandezza come della propria viltà. Egli sapeva, egli sapeva d’essere immensamente amato; e talvolta, nelle furie delle sue imaginazioni, giungeva perfino a mordere la bocca della dolce creatura per non gridare un nome che gli risaliva con invincibile impeto alla gola; e la buona e dolente bocca sanguinava in un sorriso inconscio, dicendo:
― Anche così, tu non mi fai male.
Mancavano all’addio pochissimi giorni. Miss Dorothy aveva condotto Delfina a Siena ed era tornata per aiutare la signora negli ultimi più gravi fastidii e per accompagnarla nel viaggio. A Siena, in casa della madre, la verità non era nota. Anche Delfina non conosceva nulla. Maria s’era limitata a mandar la notizia d’un richiamo improvviso che Manuel aveva avuto dal suo Governo. E s’apparecchiava a partire; s’apparecchiava a lasciare le stanze, piene di cose dilette, in mano dei periti publici che già avevano scritto l’inventario e avevano stabilita la data dell’incanto: ― 20 giugno, lunedì, alle dieci del mattino.
La sera del 9 giugno, sul punto di separarsi da Andrea, ella cercava un suo guanto smarrito. Nel cercare, ella vide sopra un tavolo il libro di Percy Bysshe Shelley, il medesimo volume che Andrea le aveva prestato al tempo di Schifanoja, il volume in cui ella aveva letto la Recollection prima della gita a Vicomìle, il caro e triste volume in cui ella aveva segnato con l’unghia i due versi:
“And forget me, for J can never |
Ella lo prese, con una commozione visibile; lo sfogliò; trovò la pagina, i segni dell’unghia, i due versi.
― Never! ― mormorò, scotendo il capo. ― Ti ricordi? E son passati otto mesi appena!
Restò un poco pensosa; sfogliò ancóra il libro; lesse qualche altro verso.
― È il nostro poeta ― soggiunse. ― Quante volte m’hai promesso di condurmi al cimitero inglese! Ti ricordi? Dovevamo portare i fiori al sepolcro... Vuoi che andiamo? Conducimi prima ch’io parta. Sarà l’ultima passeggiata.
Egli disse: ― Andiamo domani.
Andarono, quando il sole era già sul declinare. Nella carrozza coperta, ella teneva su le ginocchia un fascio di rose. Passarono di sotto all’Aventino arborato. Intravidero i navigli carichi di vin siciliano ancorati nel porto di Ripa grande.
In vicinanza del cimitero, discesero; percorsero un tratto a piedi, fino al cancello, taciturni. Maria sentiva in fondo all’anima ch’ella non andava soltanto a portar fiori sul sepolcro d’un poeta ma che andava a piangere, in quel luogo di morte, qualche cosa di sè, irreparabilmente perduta. Il frammento di Percy, letto nella notte, nell’insonnio, le risonava in fondo all’anima, mentre guardava i cipressi alti nel cielo, oltre la muraglia imbiancata.
“La Morte è qui, e la Morte è là; da per tutto la Morte è all’opera; intorno a noi, in noi, sopra di noi, sotto di noi è la Morte; e noi non siamo che Morte.
“La Morte ha messo la sua impronta e il suo suggello su tutto ciò che noi siamo, e su tutto ciò che sentiamo e su tutto ciò che conosciamo e temiamo.
“Da prima muojono i nostri piaceri, e quindi le nostre speranze, e quindi i nostri timori; e quando tutto ciò è morto, la polvere chiama la polvere e noi anche moriamo.
“Tutte le cose che noi amiamo ed abbiam care come noi stessi devono dileguarsi e perire. Tale è il nostro crudele destino. L’amore, l’amore medesimo morirebbe, se tutto il resto non morisse...„
Varcando la soglia, ella mise il suo braccio sotto quello di Andrea, presa da un piccolo brivido.
Il cimitero era solitario. Alcuni giardinieri davano acqua alle piante, lungo la muraglia, facendo oscillare l’inaffiatoio con un movimento continuo ed eguale, in silenzio. I cipressi funebri s’inalzavano diritti ed immobili nell’aria: soltanto le loro cime, fatte d’oro dal sole, avevano un leggero tremito. Tra i fusti rigidi e verdastri, come di pietra tiburtina, sorgevano le tombe bianche, le lapidi quadrate, le colonne spezzate, le urne, le arche. Dalla cupa mole dei cipressi scendevano un’ombra misteriosa e una pace religiosa e quasi una dolcezza umana, come dal duro sasso scende un’acqua limpida e benefica. Quella regolarità costante delle forme arboree e quel candor modesto del marmo sepolcrale davano all’anima un senso di riposo grave e soave. Ma in mezzo ai tronchi allineati come le canne sonore d’un organo e in mezzo alle lapidi, gli oleandri ondeggiavano con grazia, tutti invermigliati di fresche ciocche fiorite; i rosai si sfogliavano ad ogni fiato di vento, spargendo su l’erba la loro neve odorante; gli eucalipti inchinavano le pallide capellature che or sì or no parevano argentee; i salici versavano su le croci e su le corone il loro pianto molle; i cacti qua e là mostravano i magnifici grappoli bianchi simili a sciami dormienti di farfalle o a manipoli di rare piume. E il silenzio era interrotto a quando a quando dal grido di qualche uccello disperso.
Andrea disse, indicando il sommo dell’altura:
― Il sepolcro del poeta è lassù, in vicinanza di quella rovina, a sinistra, sotto l’ultimo torrione.
Maria si sciolse da lui, per salire su pei sentieri angusti, tra le siepi basse di mirto. Ella andava innanzi, e l’amante la seguiva. Ella aveva il passo un poco stanco; si soffermava ad ogni tratto; ad ogni tratto si volgeva indietro per sorridere all’amante. Era vestita di nero; portava un velo nero sul viso, che le giungeva fino al labbro superiore; e il suo sorriso tenue tremolava sotto l’orlo nero, si ombrava come d’un’ombra di lutto. Il suo mento ovale era più bianco e più puro delle rose ch’ella portava in mano.
Accadde che, mentre ella si volgeva, una rosa si sfogliò. Andrea si chinò a raccogliere le foglie sul sentiero, innanzi a’ piedi di lei. Ella lo guardava. Egli posò i ginocchi a terra, dicendo:
― Adorata!
Un ricordo sorse a lei nello spirito, evidente come una visione.
― Ti ricordi ― ella disse ― quella mattina, a Schifanoja, quando io ti gettai un pugno di foglie, dalla penultima terrazza? Tu t’inginocchiasti sul gradino, mentre io discendevo... Quei giorni, non so, mi pajono tanto vicini e tanto lontani! Mi pare d’averli vissuti ieri, d’averli vissuti un secolo fa. Ma forse li ho sognati?
Giunsero, tra le siepi basse di mirto, fino all’ultimo torrione a sinistra dov’è il sepolcro del poeta e del Trelawny. Il gelsomino, che s’arrampica per l’antica rovina, era fiorito; ma delle viole non rimaneva che la folta verdura. Le cime dei cipressi giungevano alla linea dello sguardo e tremolavano illuminate più vivamente dall’estremo rossor del sole che tramontava dietro la nera croce del Monte Testaccio. Una nuvola violacea, orlata d’oro ardente, navigava in alto verso l’Aventino.
“Qui sono due amici, le cui vite furono legate. Che anche la loro memoria viva insieme, ora ch’essi giacciono sotto la tomba; e che l’ossa loro non sieno divise, poichè i loro due cuori nella vita facevano un cuor solo: for their two hearts in life were single hearted!„
Maria ripetè l’ultimo verso. Poi disse ad Andrea, mossa da un pènsier delicato:
― Scioglimi il velo.
E gli si appressò arrovesciando un poco il capo perchè egli le sciogliesse il nodo su la nuca. Le dita di lui le toccavano i capelli, i meravigliosi capelli che, quando erano sparsi, parevano vivere come una foresta, di una vita profonda e dolce; all’ombra de’ quali egli aveva tante volte assaporata la voluttà de’ suoi inganni e tante volte evocata un’imagine perfida. Ella disse:
― Grazie.
E si tolse il velo di su la faccia, guardando Andrea con occhi un poco abbagliati. Ella appariva molto bella. Il cerchio intorno le occhiaje era più cupo e più cavo, ma le pupille brillavano d’un fuoco più penetrante. Le ciocche dense de’ capelli aderivano alle tempie, come ciocche di giacinti bruni, un po’ violetti. Il mezzo della fronte, scoperto, libero, splendeva nel contrasto, d’un candor quasi lunare. Tutti i lineamenti s’erano affinati, avevano perduto qualche parte della loro materialità, alla fiamma assidua dell’amore e del dolore.
Ella avvolse al velo nero gli steli delle rose, annodò le estremità con molta cura; poi aspirò il profumo, quasi affondando il viso nel fascio. E poi depose il fascio su la semplice pietra ov’era inciso il nome del poeta. E il suo gesto ebbe una indefinibile espressione, che Andrea non potè comprendere.
Seguitarono innanzi per cercare la tomba di John Keats, del poeta d'Endymion.
Andrea le domandò, soffermandosi a riguardare indietro, verso il torrione:
― Come le hai avute, quelle rose?
Ella gli sorrise ancora, ma con gli occhi umidi.
― Sono le tue, quelle della notte di neve, rifiorite stanotte. Non ci credi?
Si levava il vento della sera; e il cielo, dietro la collina, era tutto d’un color diffuso d’oro in mezzo a cui la nuvola discioglievasi come consunta da un rogo. I cipressi in ordine, su quel campo di luce, erano più grandiosi e più mistici, tutti penetrati di raggi e vibranti nei culmini acuti. La statua di Psiche in cima al viale medio aveva assunto un pallore di carne. Gli oleandri sorgevano in fondo come mobili cupole di porpora. Su la piramide di Cestio saliva la luna crescente, per un ciel glauco e profondo come l’acqua d’un golfo in quiete.
Essi discesero, lungo il viale medio, fino al cancello. I giardinieri ancora davan acqua alle piante, sotto la muraglia, facendo oscillare l’inaffiatoio con un movimento continuo ed eguale, in silenzio. Due altri uomini, tenendo per i lembi una coltre mortuaria di velluto e d’argento, la sbattevano forte; e la polvere metteva un luccichio spandendosi. Giungeva dall’Aventino un suono di campane.
Maria si strinse al braccio dell’amante, non reggendo più all’angoscia, sentendosi ad ogni passo mancare il suolo, credendo di lasciare su la via tutto il suo sangue. E, appena fu nella carrozza, ruppe in lacrime disperate, singhiozzando su la spalla dell’amante:
― Io muoio.
Ma ella non moriva. E sarebbe stato meglio, per lei, s’ella fosse morta.
Due giorni dopo, Andrea faceva colazione in compagnia di Galeazzo Secìnaro, a un tavolo del Caffè di Roma. Era una mattinata calda. Il Caffè era quasi deserto, immerso nell’ombra e nel tedio. I servi sonnecchiavano, tra il ronzio delle mosche.
― Dunque ― raccontava il principe barbatoio, ― sapendo che a lei piace di darsi in circostanze straordinarie e bizzarre, osai...
Raccontava, crudamente, il modo audacissimo con cui aveva potuto prendere Lady Heathfield; raccontava senza scrupoli e senza reticenze, non tralasciando alcuna particolarità, lodando la bontà dell’acquisto al conoscitore. Egli s’interrompeva, di tratto in tratto, per mettere il coltello in un pezzo di carne succulenta e sanguinante, che fumigava, o per vuotare un bicchiere di vin rosso. La sanità e la forza emanavano da ogni sua attitudine.
Andrea Sperelli accese una sigaretta. Ad onta de’ conati, egli non riesciva a inghiottire il cibo, a vincere la ripugnanza dello stomaco agitato in sommo da un orribile tremolio. Quando il Secìnaro gli versava il vino, egli beveva insieme il vino e il tossico.
A un certo punto, il principe, sebbene fosse assai poco sottile, ebbe un dubbio; guardò l’antico amante di Elena. Questi non dava, oltre la disappetenza, altro segno esteriore di turbamento; gittava all’aria, con pacatezza, i nuvoli di fumo e sorrideva del solito suo sorriso un po’ ironico al narratore giocondo.
Il principe disse:
― Oggi ella verrà da me, per la prima volta.
― Oggi? A casa tua?
― Sì.
― È un mese eccellente questo, a Roma, per l’amore. Dalle tre alle sei pomeridiane ogni buen retiro nasconde una coppia...
― Infatti ― interruppe Galeazzo ― ella verrà alle tre.
Ambedue guardaron l’orologio. Andrea chiese:
― Vogliamo andarcene?
― Andiamo ― rispose Galeazzo, levandosi.
― Faremo la via Condotti insieme. Io vado per fiori al Babuino. Dimmi tu, che sai: quali fiori preferisce?
Andrea si mise a ridere; e gli venne alle labbra un motto atroce. Ma disse, incurantemente:
― Le rose, una volta.
D’innanzi alla Barcaccia, si separarono.
La piazza di Spagna, in quell’ora, aveva già una deserta apparenza estiva. Alcuni operai restauravano un condotto; e un cumulo di terra, disseccato dal sole, levavasi in turbini di polvere ai soffii caldi del vento. La scala della Trinità splendeva bianca e deserta.
Andrea salì, piano piano, soffermandosi ad ogni due o tre gradini, come se trascinasse un peso enorme. Rientrò nella sua casa; restò nella sua stanza, sul letto, fino alle due e tre quarti. Alle due e tre quarti uscì. Prese la via Sistina, seguitò per le Quattro Fontane, oltrepassò il palazzo Barberini; si arrestò poco discosto, innanzi agli scaffali d’un venditore di libri vecchi, aspettando le tre. Il venditore, un omuncolo tutto rugoso e pelloso come una testuggine decrepita, gli offerse i libri. Sceglieva i suoi migliori volumi, a uno a uno, e glie li metteva sotto gli occhi, parlando con una voce nasale d’insopportabile monotonia. Mancavano pochi minuti alle tre. Andrea guardava i titoli dei libri e vigilava i cancelli del palazzo e udiva la voce del librajo confusamente, in mezzo al fragore delle sue vene.
Una donna uscì dai cancelli, discese pel marciapiede verso la piazza, montò in una vettura publica, si allontanò per la via del Tritone.
Andrea discese dietro di lei; prese di nuovo la via Sistina; rientrò nella sua casa. Aspettò che venisse Maria. Gittato sul letto, si mantenne così immobile che pareva non soffrisse più.
Alle cinque, giunse Maria.
Ella disse, ansante:
― Sai? Io posso rimanere con te, tutta la sera, tutta la notte, fino a domattina.
Ella disse: ― Questa sarà la prima e l’ultima notte d’amore! Io parto martedì.
Ella gli singhiozzò su la bocca, tremando forte, stringendoglisi forte contro la persona:
― Fa che io non veda domani! Fammi morire!
Guardandolo nella faccia disfatta, gli domandò:
― Tu soffri? Anche tu... pensi che non ci rivedremo più mai?
Egli provava una difficoltà immensa a parlarle, a risponderle. Aveva la lingua torpida, gli mancavano le parole. Provava un bisogno istintivo di nascondere la faccia, di sottrarsi allo sguardo, di sfuggire alle domande. Non seppe consolarla, non seppe illuderla. Rispose, con una voce soffocata, irriconoscibile:
― Taci.
Le si raccolse ai piedi; restò lungo tempo con la testa sul grembo di lei, senza parlare. Ella gli teneva le mani su le tempie, sentendogli la pulsazione delle arterie ineguale e veemente, sentendolo soffrire. Ed ella stessa non soffriva più del suo proprio dolore, ma soffriva ora del dolore di lui, soltanto del dolore di lui.
Egli si levò; le prese le mani; la trasse nell’altra stanza. Ella obedì.
Nel letto, smarrita, sbigottita, innanzi al cupo ardore del forsennato, ella gridava:
― Ma Che hai? Ma che hai?
Ella voleva guardarlo negli occhi, conoscere quella follia; ed egli nascondeva il viso, perdutamente, nel seno, nel collo, ne’ capelli di lei, ne’ guanciali.
A un tratto, ella gli si svincolò dalle braccia, con una terribile espressione d’orrore in tutte quante le membra, più bianca de’ guanciali, sfigurata più che s’ella fosse allora allora balzata di tra le braccia della Morte.
Quel nome! Quel nome! Ella aveva udito quel nome!
Un gran silenzio le vuotò l’anima. Le si aprì, dentro, un di quegli abissi in cui tutto il mondo sembra scomparire all’urto d’un pensiero unico. Ella non udiva più altro; ella non udiva più nulla. Andrea gridava, supplicava, si disperava invano.
Ella non udiva. Una specie d’istinto la guidò negli atti. Ella trovò gli abiti; si vestì.
Andrea singhiozzava sul letto, demente. S’accorse ch’ella usciva dalla stanza.
― Maria! Maria!
Ascoltò.
― Maria!
Gli giunse il romore della porta che si richiuse.