Il piacere/XIII
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XIII
― Io vidi: indovinai... Ero dietro i vetri, da tanto tempo. Non sapevo risolvermi ad andarmene. Tutto quel bianco m’attirava... Vidi la carrozza passare lentamente, nella neve. Sentii che eravate voi, prima di vedervi gittar le rose. Nessuna parola mai potrà dirvi la tenerezza delle mie lacrime. Piansi per voi, d’amore; e piansi per le rose, di pietà. Povere rose! Mi pareva che dovessero vivere e soffrire e agonizzare, su la neve. Mi pareva, non so, che mi chiamassero, che si lamentassero, come creature abbandonate. Quando la vostra carrozza si allontanò, io mi affacciai per guardarle. Fui sul punto di scendere, giù nella strada, a prenderle. Ma qualcuno era ancora fuori di casa; e il domestico era di là, nell’anticamera, che aspettava. Pensai mille modi, ma non riuscii a trovarne uno attuabile. Mi disperai... Sorridete? Proprio, io non so che follia mi prese. Stavo tutta attenta a spiare i passanti, con gli occhi pieni di lacrime. Se avessero calpestato le rose, mi avrebbero calpestato il cuore. Ed ero felice in quel supplizio; ero felice del vostro amore, del vostro atto delicato e appassionato, della vostra gentilezza, della vostra bontà... Ero triste e felice, quando mi addormentai; e le rose dovevan esser già moribonde. Dopo qualche ora di sonno, mi svegliò il rumore delle pale sul lastrico. Spazzavano la neve, proprio d’innanzi alla nostra porta. Io rimasi in ascolto; e il rumore e le voci continuarono fin oltre l’alba, e mi facevano tanta malinconia... Povere rose! Ma saranno sempre vive nella mia memoria. Certi ricordi bastano a profumare un’anima per sempre... Mi amate molto, Andrea?
E, dopo un’esitazione:
― Amate me sola? Avete dimenticato il resto, interamente? Sono miei tutti i vostri pensieri?
Ella palpitava e tremava.
― Io soffro... della vostra vita anteriore, di quella ch’io non conosco; soffro dei vostri ricordi, di tutte le tracce che forse vi rimangono ancora nello spirito, di tutto ciò che in voi non potrò mai comprendere e mai possedere. Oh, s’io potessi darvi l’oblio d’ogni cosa! Odo continuamente le vostre parole, Andrea, le prime prime parole. Credo che le udrò nell’istante della morte...
Ella palpitava e tremava, sotto l’urto della passione soverchiatrice.
― Io vi amo ogni giorno più, ogni giorno più!
Andrea la inebriò di parole soavi e profonde, la vinse d’ardore, le narrò il sogno della notte nivale e il suo desiderio disperato e tutta la utile favola delle rose e molte altre imaginazioni liriche. Gli pareva ch’ella fosse prossima ad abbandonarsi; vedeva gli occhi di lei nuotare in qualche onda di languore più lunga; vedeva su la bocca dolente apparire quella inesprimibile contrattura che è come la dissimulazione d’una tendenza fisica istintiva al bacio; e vedeva le mani, quelle mani gracili e forti, mani d’arcangelo, fremere come le corde d’uno strumento, esprimere tutto l’orgasmo interno. ― Se oggi potrò rapirle anche un solo bacio fuggevole ― pensava ― avrò di molto affrettato il termine ch’io sospiro.
Ma ella, consapevole del pericolo, si levò d’improvviso, chiedendo licenza; sonò il campanello, ordinò al domestico il tè e che pregasse Miss Dorothy di condur Delfina nel salone. Poi, volgendosi ad Andrea, un po’ convulsa:
― È meglio così. Perdonatemi.
E da quel giorno evitò di riceverlo in giorni che non fossero, come il martedì e il sabato, di ricevimento comune.
Ella però si lasciò guidare da lui in varie peregrinazioni a traverso la Roma degli Imperatori e la Roma dei Papi. Il vergiliato quaresimale si svolse nelle ville, nelle gallerie, nelle chiese, nelle ruine. Dov’era passata Elena Muti passò Maria Ferres. Non di rado, le cose suggerivano al poeta le medesime effusioni di parole che Elena aveva già udite. Non di rado, un ricordo lo allontanava dalla realtà presente, lo turbava d’improvviso. ― A che pensate, ora? ― gli chiedeva Maria, guardandolo in fondo alle pupille, con un’ombra di sospetto.
Ed egli rispondeva:
― A voi, sempre a voi. Mi prende come una curiosità di guardarmi dentro per vedere se ancora mi rimanga qualche minima parte dell’anima che non sia in possesso dell’anima vostra, qualche minima piega che non sia penetrata dalla vostra luce. È come una esplorazione interiore, che io faccio per voi, già che voi non potete farla. Ebbene, Maria, non ho più nulla omai da offerirvi. Siete nell’assoluto dominio di tutto il mio essere. Non mai, penso, una creatura umana è stata più intimamente posseduta da una creatura umana, in ispirito. Se la mia bocca si congiungesse alla vostra, avverrebbe la transfusione della mia vita nella vostra vita. Penso che morirei.
Ella gli credeva, poichè la voce di lui dava alle parole la fiamma della verità.
Un giorno erano sul Belvedere della Villa Medici: guardavano ne’ larghi e cupi tetti di busso l’orlo del sole morire a poco a poco e la Villa Borghese ancor nuda sommergersi a poco a poco in un vapore violaceo. Maria disse, invasa da una subitanea tristezza:
― Chi sa quante volte siete venuto qui, a sentirvi amare!
Andrea rispose, con l’accento d’un uom trasognato:
― Non so; non ricordo. Che dite mai?
Ella tacque. Poi si levò, per leggere le inscrizioni su i pilastri del tempietto. Erano, per lo più, inscrizioni d’amanti, di novelli sposi, di contemplatori solitarii.
Una portava, sotto una data e un nome di donna, un frammento del Pausias:
sie.
Immer allein sind Liebende sich in der grössten Versammlung;
Aber sind sie zu Zweien, stellt auch der Dritte sich ein.
er.
Amor, ja!
Un’altra era la glorificazione di un nome alato:
A solis ortu usque ad occasum laudabile nomen Helles.
Un’altra era una sospirevole quartina del Petrarca:
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Un’altra pareva essere una leal dichiarazione, firmata da due leali amanti:
Ahora y no siempre.
Tutte esprimevano un sentimento erotico, o triste o giocondo; cantavano le lodi d’una bella o rimpiangevano un bene remoto; narravano d’un bacio ardente o d’una estasi languida; ringraziavano i vecchi bussi cortesi, indicavano ai felici venturi una latebra, notavano la singolarità d’un tramonto contemplato. Chiunque, sposo o amante, sotto il fascino feminino, era stato preso da un entusiasmo lirico sul piccolo Belvedere solitario a cui conduce una scala di pietra coperta di velluto. Le mura parlavano. Una indefinibile malinconia emanava da quelle voci ignote d’amori morti, una malinconia quasi sepolcrale, come dagli epitaffi d’una cappella.
D’un tratto, Maria si volse ad Andrea, dicendo:
― Ci siete anche voi.
Egli rispose, guardandola, con l’accento medesimo di dianzi:
― Non so; non ricordo. Non ricordo più nulla. Vi amo.
Ella lesse. Ed era, scritto di mano d’Andrea, un epigramma del Goethe, un distico, quello che incomincia: “Sage, wie lebst du?„ ― Rispondi, come vivi tu? ― “Ich lebe!„ ― Io vivo! E, se pur cento e cento secoli mi fosser dati, io m’augurerei soltanto che domani fosse come oggi. ― Sotto era una data: Die ultima februarii 1885; e un nome: Helena Amyclaea.
Ella disse:
― Andiamo.
Il tetto di busso pioveva tenebre su la scala di pietra coperta di velluto. Egli chiese:
― Volete appoggiarvi?
Ella rispose:
― No; grazie.
Discesero in silenzio, pianamente. Ad ambedue pesava il cuore.
Dopo un intervallo, ella disse:
Eravate felice, due anni fa.
Ed egli, con una ostinazione meditata: ― Non so; non ricordo.
Il bosco era misterioso, in un crepuscolo verde. I tronchi e i rami sorgevano con intrichi e viluppi serpentini. Qualche foglia luccicava come un occhio di smeraldo, nell’ombra.
Dopo un intervallo, ella soggiunse:
― Chi era quella Elena?
― Non so; non ricordo. Non ricordo più nulla. Vi amo. Amo voi sola. Penso per voi sola. Vivo per voi sola. Non so più nulla; non ricordo più nulla; non desidero più nulla, oltre il vostro amore. Nessun filo più mi lega alla vita d’un tempo. Sono ora fuor del mondo, interamente perduto nel vostro essere. Io sono nel vostro sangue e nella vostra anima; io mi sento in ogni palpito delle vostre arterie; io non vi tocco eppure mi mescolo con voi come se vi tenessi di continuo tra le mie braccia, su la mia bocca, sul mio cuore. Io vi amo e voi mi amate; e questo dura da secoli, durerà nei secoli, per sempre. Accanto a voi, pensando a voi, vivendo di voi, ho il sentimento dell’infinito, il sentimento dell’eterno. Io vi amo e voi mi amate. Non so altro; non ricordo altro...
Egli le versava su la tristezza e sul sospetto un’onda di eloquenza infiammata e dolce. Ella ascoltava, diritta innanzi ai balaustri dell’ampia terrazza che si apre sul limite del bosco.
― Ed è vero? Ed è vero? ― ripeteva ella con una voce spenta ch’era come l’eco affievolita d’un grido dell’anima interno. ― Ed è vero?
― È vero, Maria; e questo soltanto è vero. Tutto il resto è un sogno. Io vi amo e voi mi amate. E voi mi possedete come io vi posseggo. Io vi so così profondamente mia che non vi chiedo carezze, non vi chiedo alcuna prova d’amore. Aspetto. Mi è caro, sopra ogni cosa, obedirvi. Io non vi chiedo carezze; ma le sento nella vostra voce, nel vostro sguardo, nelle vostre attitudini, ne’ vostri minimi gesti. Tutto ciò che parte da voi è per me inebriante come un bacio; e io non so, sfiorandovi la mano, se sia più forte la voluttà de’ miei sensi o la sollevazione del mio spirito.
Egli posò la sua mano su la mano di lei, lievemente. Ella tremò, sedotta, provando un desiderio folle di piegarsi verso di lui, di offrirgli infine le labbra, il bacio, tutta sè stessa. Le parve (poichè ella dava fede alle parole di Andrea) le parve che per tale atto ella lo avrebbe legato a sè con l’ultimo nodo, con un nodo indissolubile. Ella credeva di venir meno, di struggersi, di morire. Era come se tutti i tumulti della passione già sofferta le gonfiassero il cuore, aumentassero il tumulto della passione presente. Era come se rivivessero in quell’attimo tutte le commozioni trascorse da che ella aveva conosciuto quell’uomo. Le rose di Schifanoja rifiorivano tra i lauri e i bussi della Villa Medici.
― Io aspetto, Maria. Non vi chiedo nulla. Mantengo le mie promesse. Io aspetto l’ora suprema. Sento che verrà, poichè la forza dell’amore è invincibile. E sparirà in voi ogni timore, ogni terrore; e la comunione dei corpi vi sembrerà pura come la comunione delle anime, poichè sono egualmente pure tutte le fiamme...
Egli le premeva, con la mano senza guanto, la mano inguantata. Il giardino pareva deserto. Dal palazzo dell’Academia non giungeva alcun romore, alcuna voce. Si udiva chiaro nel silenzio il chioccolío della fontana a mezzo dello spiazzo; i viali si prolungavano verso il Pincio diritti, come chiusi fra due pareti di bronzo su cui non anche moriva la doratura del vespro; l’immobilità di tutte le forme dava imagine d’un labirinto impietrato: le cime delle canne acquatiche intorno la vasca erano immobili nell’aria come le statue.
― Mi sembra ― disse la senese, socchiudendo i cigli ― di trovarmi su una terrazza di Schifanoja, lontana lontana da Roma, sola... con te. Chiudo gli occhi, veggo il mare.
Ella vedeva dal suo amore e dal silenzio nascere un gran sogno e dilatarsi nel tramonto. Ella tacque, sotto lo sguardo di Andrea; e un poco sorrise. Ella aveva detto: con te! Pronunziando quelle due sillabe, ella aveva chiuso gli occhi: e la bocca era parsa più luminosa, quasi che vi si fosse raccolto anche lo splendor celato dalle palpebre e dai cigli.
― Mi sembra che tutte queste cose non sieno fuori di me, ma che tu le abbia create nell’anima mia, per la mia gioia. Ho questa illusione in me, profonda, ogni volta che io sono innanzi a uno spettacolo di bellezza e che tu mi sei vicino.
Ella parlava lentamente, con qualche pausa, come se la sua voce fosse l’eco tarda di un’altra voce inaudibile. Perciò le sue parole avevano un singolare accento, acquistavano un suono misterioso, parevano venire dalle più segrete profondità dell’essere; non erano il comun simbolo imperfetto, erano un’espressione intensa più viva, trascendente, d’un significato più vasto.
“Dalle sue labbra, come da un giacinto pieno d’una rugiada di miele, cade a goccia a goccia un murmure liquido, che fa morir di passione i sensi, dolce come le pause della musica planetaria udita nell’estasi.„ Il poeta ricordava i versi di Percy Shelley. Egli li ripetè a Maria, sentendosi conquistare dalla commozione di lei, penetrare dal fascino dell’ora, esaltare dall’apparenza delle cose. Un tremito lo prese, quando egli era per rivolgerle il tu mistico.
― Io non era mai giunto, in nessun più alto sogno del mio spirito, a ideare quest’altezza. Tu ti levi sopra tutte le mie idealità, tu splendi sopra tutti gli splendori del mio pensiero, tu m’illumini d’una luce che è quasi per me insostenibile...
Ella stava diritta, innanzi ai balaustri, con le mani posate su la pietra, con la testa alzata, più pallida di quando, nella mattina memorabile, camminava sotto i fiori. Le lacrime le empivano gli occhi socchiusi, le rilucevano tra i cigli; e sogguardando innanzi a sè, ella vedeva il cielo farsi roseo, a traverso il velo del pianto.
Era, nel cielo, una pioggia di rose, come quando nella sera d’ottobre il sole moriva dietro il colle di Rovigliano accendendo gli stagni per la pineta di Vicomile. “Rose rose rose piovevano da per tutto, lente, spesse, molli, a simiglianza d’una nevata in un’aurora.„ La Villa Medici, eternamente verde e senza fiori, riceveva su le cime delle sue rigide mura arboree i molli petali innumerevoli caduti dai giardini celesti. Ella si volse, per discendere. Andrea la seguì. Camminarono in silenzio verso la scala; guardarono il bosco che si stendeva fra la terrazza e il Belvedere. Pareva che il chiarore si fermasse sul limite, dove sorgono le due erme custodi, e non potesse rompere la tenebra; pareva che quegli alberi rameggiassero in un’altra atmosfera o in un’acqua cupa, in un fondo marino, simili a vegetazioni oceaniche.
Ella fu invasa da una súbita paura; si affrettò verso la scala, discese cinque o sei gradini; si arrestò, smarrita, palpitante, udendo nel silenzio il battito delle sue arterie dilatarsi come uno strepito enorme. La villa era scomparsa; la scala era serrata fra due pareti, umida, grigia, rotta dall’erbe, triste come quella d’una carcere sotterranea. Ella vide Andrea piegarsi verso di lei, con un atto improvviso, per baciarla in bocca.
― No, no, Andrea... No!
Egli tendeva le mani per trattenerla, per costringerla.
― No!
Perdutamente, ella gli prese una mano, se la trasse alle labbra; la baciò due, tre volte, perdutamente. Poi si mise a correre giù per la scala, verso la porta, come folle.
― Maria! Maria! fermatevi!
Si ritrovarono l’una di fronte all’altro, innanzi alla porta chiusa, pallidi, ansanti, scossi da un terribile tremito, guardandosi negli occhi mutati, avendo negli orecchi il rombo del loro sangue, credendo di soffocare. E nel tempo medesimo, con un impeto concorde, si strinsero, si baciarono. Ella disse, temendo di venir meno, appoggiandosi alla porta, con un gesto di suprema preghiera:
― Non più... Io muoio.
Rimasero un minuto, l’una di fronte all’altro, senza toccarsi. Pareva che tutto il silenzio della villa gravasse su loro, in quel luogo angusto cinto d’alti muri, simile a una tomba scoperta. Si udiva distinto il gracchiare basso e interrotto dei corvi che si raccoglievano su i tetti del palazzo o traversavano il cielo. Di nuovo, un senso strano di paura occupò il cuore della donna. Ella gittò in alto, alla sommità dei muri, uno sguardo sbigottito. Facendosi forza, disse:
― Ora, possiamo uscire... Potete aprire.
E la sua mano s’incontrò con quella di Andrea sul saliscendi, nella furia incalzante.
E, come ella passò rasente le due colonne di granito, sotto il gelsomino senza fiori, Andrea disse:
― Guarda! Il gelsomino fiorisce.
Ella non si volse, ma sorrise; e il sorriso era assai triste, pieno dell’ombre che metteva in quell’anima il riapparir subitaneo del nome inscritto sul Belvedere. E, mentre ella camminava per il viale misterioso sentendo tutto il suo sangue alterato dal bacio, un’implacabile angoscia le incideva nel cuore quel nome, quel nome!