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labbra palpitare rapidamente i lunghi cigli di lei, a similitudine di un’ala irrequieta. Era una carezza strana che dava un piacere insostenibile; era una carezza che Elena un tempo soleva fare ridendo, più volte di séguito, costringendo l’amante al piccolo spasimo nervoso della vellicazione; e Maria l’aveva appresa da lui, e spesso egli sotto una tal carezza aveva potuto evocare l’imagine dell'altra.

Al sussulto, Maria sorrise. E, come le indugiava ancóra una lacrima lucida tra i cigli, ella disse:

― Bevi anche questa!

E, come egli bevve, ella rise, inconsapevole.

Ella esciva dal pianto quasi lieta, rassicurata, piena di grazie.

― Ti farò il tè ― disse.

― No; rimani qui, seduta.

Egli s’accendeva, vedendola sul divano, tra i cuscini. Avvenne, nel suo spirito, una subita sovrapposizione dell’imagine d’Elena.

― Lasciami alzare! ― pregò Maria, liberando il busto da un stretta. ― Voglio che tu beva il mio tè. Sentirai. Il profumo t’arriverà all’anima.

Parlava d’un tè prezioso, giuntole da Calcutta, ch’ella aveva donato ad Andrea il giorno innanzi.

Si alzò e andò a sedersi su la seggiola di cuoio dalle Chimere, dove ancora moriva squisitamente il color “rosa di gruogo„ dell’antica dalmatica. Su la piccola tavola ancóra brillavano le majoliche fini di Castel Durante.

Nel compier l’opera, ella diceva tante cose