Il nemico (Oriani)/Parte prima/III

III

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III.

Avevano già percorso un lungo tratto di strada senza barattare una parola, quando Loris, fermandosi bruscamente, disse:

— Ora separiamoci; Ogareff ti aspetta sulla piazza del teatro. Ti permetto di raccontargli tutto, lo credi sicuro anche tu?

— Ogareff! esclamò Kriloff: preferirei dubitare di me stesso. La sua condotta verso Rodion, che nemmeno conosceva, mi pare argomento che basti.

Loris rimase pensieroso.

— Domani alle due vi aspetto da me: tu ci verrai prima; digli che venga colla carrozza; è bene che la carrozza attenda alla mia porta. [p. 83 modifica]

E gli strinse la mano.

Kriloff era agitato. Malgrado il suo noto coraggio dopo gli avvenimenti di quella sera stentava a rimettersi; ogni tanto si gittava occhiate dinanzi e di dietro, stringendo colla mano sinistra nella tasca della pelliccia il calcio di un piccolo revolver.

— Credi che non accadrà nulla? domandò inquieto.

— Che cosa potrebbe accadere?

— Quel....

— A quest’ora lo avranno già raccolto: passerò io per quella strada.

Ma, appena rimasto solo, il suo viso si offuscò: involontariamente si mise a camminare più adagio.

La notte era serena e frizzante, passavano poche persone e molte pattuglie. Loris si respinse il cappello dalla fronte, sbottonandosi la pelliccia: aveva caldo. Una violenta tempesta si era scatenata nel suo spirito, sferzandogli il sangue e mettendogli sotto il lividore del viso una rigidezza, che avrebbe destato molti sospetti in un osservatore intelligente. Un orologio di chiesa, che suonò le undici, lo fece sostare; contò mentalmente quei suoni. Il colloquio era dunque durato due ore.

Un momento pensò di tornare addietro per incontrare qualcuno del Comitato, che non poteva tardare molto a sciogliersi, ma riflettè che probabilmente avevano un’altra uscita, e che egli stesso era forse sorvegliato da qualche nichilista. [p. 84 modifica]Un rapido esame della gente, che passava, non bastò a convincerlo del contrario: quindi dominandosi con uno sforzo violento si riabbottonò la pelliccia e proseguì coll’andatura di un elegante, il quale vada al circolo o ne venga. Aveva detto di passare per quella strada. Il cadavere doveva esservi stato raccolto, e tutti gli agenti della polizia già in moto. Certamente ne incontrerebbe qualcuno.

Con meravigliosa prontezza ripassò nella mente tutte le congetture, che la polizia potrebbe fare su quell’assassinio. Solo i fiaccheristi, che avevano servito a quella caccia, avrebbero potuto raccontandola mettere la polizia sull’avviso, ma l’infelice era disceso egli stesso in un’altra strada per far perdere le proprie traccie. Il loro fiaccherista aveva forse sospettato di qualche cosa, ma essi pure erano smontati troppo presto, e quell’altro fiacre li aveva troppo oltrepassati per farlo insistere sopra un vero sospetto: d’altronde non poteva aver distinto il signore che li inseguiva. Nessun fiaccherista chiamato in polizia confesserebbe mai, per la paura di mescolarsi ad un qualunque processo, di ravvisare in quell’ucciso un signore da lui servito. La polizia come indovinerebbe quella caccia interrotta con una tale morte? Certo la puntura al collo di un ago intinto nell’acido prussico doveva far credere ad un colpo nichilista, ma appunto per questo diventava più difficile scoprirne l’autore. Certamente il morto aveva a [p. 85 modifica]Pietroburgo qualche missione speciale, quindi i sospetti cadrebbero in falso. A quest’ora le spie dovevano aggirarsi fra quella strada e le altre vicine per sorprendere una mossa imprudente fra coloro, che sapendo dell’assassinio vi passassero per la sinistra curiosità, onde i delinquenti sono attirati sul luogo del delitto.

Un sorriso brillò negli occhi di Loris scorgendo da lungi l’angolo della via, ove aveva commessa quella prima uccisione di guerra. Traversò la strada, e lungheggiando lo stesso muro cercò indarno sulla neve l’impronta dei propri piedi fra quella di tutti gli altri: forse nell’altra, meno frequentata, una sua orma poteva essere rimasta indizio intelligibile solamente a lui, nullameno indizio.

All’imboccatura della strada un signore, che sembrava andare troppo adagio, lo squadrò; Loris passò oltre, rivide il gomito dove colui era caduto: sulla neve sparnazzata fra molte orme si distingueva come il solco di qualche cosa, che vi avesse strisciato, ma non sapendo nulla dell’accaduto doveva essere impossibile badarvi; e Loris non vi badò. Nullameno il cuore gli batteva più forte: il rumore di un passo, che gli veniva incontro, gli diede una più intensa emozione.

— Come sarà andata la cosa dopo?

Una violenta curiosità mista di superbia s’impadronì siffattamente di lui, che dovette lottare seco stesso per proseguire senza voltarsi addietro, collo stesso passo, infilando l’altra strada. [p. 86 modifica]

— Era una spia, si disse pensando al morto: egli non m’avrebbe certo risparmiato.

Questa terribile verità non bastava nullameno a tranquillizzarlo. Una spia è sempre in istato di guerra? La ragione gli rispondeva di sì, ma non pertanto sentiva che un soldato uccidendo un nemico in agguato proverebbe una sensazione assolutamente diversa dalla sua. Era differenza di morale o di educazione? Il soldato, che uccide in guerra, è senza rimorsi perchè sa di ubbidire ad una forza superiore: non egli volle la guerra; bisogna che vi uccida per non essere ucciso. Il generale che la dirige, l’uomo di Stato che la dichiarò, sono egualmente senza rimorsi, perchè non essi vi uccidono: che cosa è dunque il rimorso per la uccisione di un uomo? Fra rivoluzione e governo la guerra non era dichiarata? Le spie non erano così l’esercito del governo, come i congiurati quello della rivoluzione? Ammazzare una spia, che vi pedina, era anche meglio che sorprendere in guerra un manipolo agli avamposti; bisognava ammazzare quella spia, senza paura e senza pietà, per salvare sè stessi; sentirne rimorso dopo era mettere in dubbio la sincerità della propria posizione di ribelle contro il governo. Vita per vita.

Loris scosse il capo, quasi per scrollarne un ultimo dubbio, tastandosi nella tasca l’astuccio del pugnaletto. Che una delle tante pattuglie lo fermassero, e tutto era perduto. Loris pensò al come [p. 87 modifica]nascondere quella piccola terribile arma senza riuscirvi. Il meglio ancora sarebbe stato, nel caso di un incontro, lasciarla cadere e sprofondarsi nella neve: difficilmente però a Pietroburgo avrebbe potuto procurarsene un’altra. Era un’arma perfetta.

A mano a mano che si avvicinava alla piazza Isaac, l’inquietudine gli cresceva: gli pareva di rivedere quell’uomo alto, elegante, colle fedine rosse, d’aspetto e di modi signorili, tendergli ingenuamente la scattolina dei fiammiferi. Poi si rammentava le confidenze sovra esso del colonnello Lavrof, l’illustre pubblicista emigrato, già direttore del Zemlia e Volia: rivedeva la scena del gabinetto da pranzo ripensando con orgoglio sinistro le parole imprudenti, colle quali era riuscito ad impaniarlo. Imbecille! mormorava nel pensiero, mentre dalla neve si sentiva un freddo sottile salire per le gambe, qualche cosa di terrifico che gli arrivava alla coscienza. Il cappello a cilindro di quella spia era sbalzato a molta distanza restando ritto, si ricordava questo particolare: l’infelice si era arrovesciato aprendo le braccia, colla testa indietro. Era stato un istante, ma nullameno Loris aveva visto la morte entrare in quella spia, e schiacciarla. Rivedeva la contrazione spaventosamente rapida della sua faccia, una contorsione della bocca, che non aveva potuto parlare, con uno sguardo feroce, poi supplichevole quasi nel medesimo attimo.... ma il veleno arrivato al cervello ne aveva cacciato tutto l’os[p. 88 modifica]sigeno arrestandovi ogni moto. La spia era morta barcollando, prima ancora di toccare la neve.

— Imbecille! ripeteva con crescente amarezza: forse neppure lo pagavano bene. Che gl’importava della nostra battaglia? Egli non aveva nemmeno abbastanza ingegno per intenderla, mentre per pochi rubli al giorno era pronto a farci arrestare ed uccidere tutti. Un antropofago era dunque spiritualmente più alto di lui; quegli non mangia se non colui, che potè far prigioniero, e non lo mangia che avendo fame. La Terza Sezione non lo rimpiangerà.

— Che dovessi rimpiangerlo io!... esclamò a bassa voce, come per frustare la codardia del proprio sentimento, che non giungeva a calmarsi.

Era arrivato.

Il dwornik lo salutò più che rispettosamente nel ricevere un rublo di mancia, ed insistè per fargli lume lungo le scale: Loris temeva di essere pallido, ma il portinaio non se ne avvide. Appena nell’appartamento accese una candela e, senza trarsi la pelliccia, cercò vivamente intorno come nascondere il pugnale. Rapidissimamente imaginò molti modi senza appagarsi di alcuno. Gli accadeva come sempre che cercando un nascondiglio non si può per logica fatale esserne soddisfatti: perchè altri non potrebbe avere la stessa idea per scoprirlo? Il pensiero ha naturalmente per rivale il pensiero.

Improvvisamente colto da un senso di vergo[p. 89 modifica]gna depose il pugnale sul tavolo come a sfida, così che il primo entrando dovesse per forza vederlo e provare la tentazione di esaminarlo: quindi si gettò sul divano. Era stanco, si sentiva la testa pesante. Gli parve che la camera fosse fredda malgrado la stufa piena di carbone, che bruciava nell’angolo presso la finestra; la candela agitava sulle pareti subite masse d’ombra, che dileguavano nel vuoto. Ascoltò il silenzio, tese l’orecchio per le vie di Pietroburgo, ancora ignara della sua presenza, ma che si sarebbe presto sottomessa alla sua volontà.

La città immensa sonnecchiava sotto quel leggero velo di neve, nel caldo delle proprie stanze affollate di gente immemore di sè stessa a quell’ora. La notte isola gl’individui nel sonno: la società non esiste più mentre ognuno rientra nel proprio mondo. Egli stesso ricominciava il solito sogno di rivoluzione e di vittoria. Tornato dopo quattro anni a Pietroburgo per accendervi la guerra, in quella notte aveva già atterrato una sentinella nemica, e tenuto il primo consiglio collo stato maggiore dei propri alleati. Naturalmente era riuscito ad una scissura con una affermazione però anche più grande. Egli, solo, senza autorità di precedenti, colle uniche forze dell’ingegno e della volontà, aveva potuto ottenere un abboccamento da quel terribile Comitato esecutivo, contro il quale da tanti anni falliva tutta la potenza dello Czar. Chi erano quei cinque masche[p. 90 modifica]rati, di cui la sola presenza sospettata sarebbe bastata a sconvolgere istantaneamente tutti gli uffici della Terza Sezione, la grande guardia politica dell’impero? Riandava sottilmente tutta la scena trovando strano egli stesso di essere stato ricevuto. Certo il Comitato aveva sul conto suo informazioni anche più rassicuranti di quelle che Kriloff aveva potuto fornire. Pensò al colonnello Lavrof, che gli aveva testimoniato a Zurigo una fuggevole amicizia, a Plachenov il celebre critico della rivoluzione francese, emigrato anch’egli a Ginevra, ad Eliseo Reclus il grande geografo, a Krapotkine il principe esiliato, a tutti gl’illustri nichilisti conosciuti all’estero, coi quali aveva sempre trattato alteramente; pensò agli antichi compagni d’università, cui si era mostrato sempre nella infrangibile unità del proprio sistema rivoluzionario, pensò all’immenso potere, al portentoso servizio d’informazioni, di cui il Comitato doveva essere provvisto nella sua lotta titanica contro lo czarismo, e non pertanto la facile prontezza di quel colloquio gli rimaneva inesplicabile. Nessuna difficoltà, nessuna goffagine teatrale: le piccole maschere di quei cinque non erano nemmeno abbastanza grandi per coprire loro tutto il volto; ad uno aveva notato le fedine grigie, di un altro ricordava una fine cicatrice bianca sulla fronte, di un terzo aveva osservato la forma troppo allungata del cranio. Nessuno di loro portava guanti. [p. 91 modifica]

Si fidavano dunque di lui? Sapevano già del suo disegno? Avevano valutato l’energia del suo carattere incapace di tradire in qualunque più tragica circostanza? Subitamente questa loro superiorità lo avvilì. Aveva creduto far pompa di molto ingegno presentandosi solo e come alleato, mentre invece sapevano già tutto, e lo avevano ricevuto.... perchè? Perchè? se conoscendo le sue idee le disprezzavano? Era da parte loro una superbia maggiore, o una lunga esperienza li aveva finalmente persuasi di mutare la lotta di setta in guerra di partito? Le ultime parole del presidente gli sferzavano ancora le orecchie come una corda di hnut. «Voi non siete che un mezzo letterato, uno di quei tanti artisti costretti di creare a sè medesimi la parte di un personaggio, che non sanno obbiettivare nell’arte.» Perchè chiedere quel colloquio? Egli pure aveva fatto dell’accademia drappeggiandosi nelle frasi; per uno scatto della vanità ferita aveva persino confessato di aver barato al giuoco, attirandosi da quel vecchio un freddo rabbuffo.

In queste meditazioni Loris diventava sempre più scontento di sè accorgendosi di non conoscere ancora abbastanza gli uomini per saperli maneggiare. Per un generale e per un uomo di stato non vi poteva essere difetto maggiore; la sua era dialettica di libro, visione di sistema, abilità scenica, che si perdeva nell’ammirazione dei propri effetti. [p. 92 modifica]

Non potè star sdraiato: si alzò, passeggiò nervosamente per la stanza. Era solo, non aveva nessuno al mondo. Dopo un quarto d’ora si trovò appoggiato ai vetri della finestra, guardando giù nella strada senza vederla. Gli era sembrato di essere in una solitudine senza confine e senza forma, solo colla propria idea, come un naufrago aggrappato ad una tavola sul mare inerte e sotto il cielo vuoto. Pensò ai grandi abbandonati, a Cristo sul Golgota, a Prometeo sul Caucaso, a Napoleone a Sant’Elena, a coloro periti sconosciuti nei deserti del pensiero e ritrovati poi dalla critica tanti secoli dopo; ai viaggiatori morti ignorati dalla patria, che avevano abbandonato e dai popoli che avevano scoperto; pensò alla morte di Bazaroff, improvvisa, accidentale, assurda, e alla sprezzante, quasi muta, protesta del suo spirito dinanzi ad essa: pensò all’isolamento di Raskolnikoff in Siberia, e al suo rammollimento d’amore per Sonia, la nuova Maddalena; idillio grottesco spuntato da un ignobile dramma come un fungo da un corpo fradicio. Si sentiva solo, dimenticato, dimentico egli pure. Per lottare bisognava essere fuso con altri, perchè solamente così si poteva dominare la loro volontà. Egli invece era vissuto sempre solo, non si era mosso, non aveva agito che nel proprio pensiero.

Una smania gli esasperava tutti i muscoli: avrebbe gridato per riempire colla propria voce quella camera, della quale il silenzio era senza [p. 93 modifica]misura. Ah! Almeno aveva ucciso quella spia: era un fatto, lo aveva ucciso tosto, bene, senza che nessuno lo sapesse ancora, e nessuno potesse mai saperlo. Ma così ricadeva nel difetto della vecchia scuola nichilista. Invece bisognava uccidere all’aperto, colla rivolta, fuggire magari, ma per ripresentarsi domani perchè tutto il mondo lo sapesse e potesse interessarsene. Solo in tal modo si compiono le rivoluzioni; il resto era letteratura, quella letteratura, che il presidente gli aveva rinfacciato, e per la quale sentiva da tanti anni un odio pieno di disprezzo.

Però la sua volontà si ostinava. Dalla vita passata gli tornava nella coscienza un orgoglio caldo perchè il suo pensiero appena divenuto abbastanza forte per ripiegarsi sopra sè medesimo aveva giurato guerra mortale alla società. Di questo sentimento e di questa idea era vissuto sino allora. L’abitudine di decomporre uomini ed avvenimenti gli rendeva ora più facile l’esame di quel colloquio col Comitato Esecutivo. Se lo avevano ricevuto da pari a pari, credevano dunque alla sua potenzialità se non alla sua potenza, altrimenti perchè lo avrebbero ricevuto? Loris si ricordava l’involontario rispetto e la prudente riserva, che aveva sempre ispirato a quanti aveva conosciuto. Nessuno lo aveva mai preso per un giovane come gli altri, ebbro della giovinezza della vita. Era vissuto solitario come il Mady, l’ultimo profeta maomettano d’Africa, preparandosi nel deserto a domare la [p. 94 modifica]società con un’idea. Inconsciamente i giovani lo avevano sempre accettato per capo, quantunque non dividesse alcuna delle loro passioni; le donne invece lo guardavano curiosamente evitandolo. Sebbene bello, non era mai stato simpatico, e il suo orgoglio se ne compiaceva.

Loris non amava abbastanza la vita per amare l’amore, che moltiplica i bambini senza un pensiero di quanto dovranno soffrire in una società, ove i pochi posti buoni sono già presi. Egli era vissuto altrove, più alto. Gli uomini gl’ispiravano un disprezzo inesauribile, giacchè per vivere si rassegnavano a tutte le bassezze divertendosi quasi egualmente in ogni condizione. A questi uomini egli era apparso sempre come un essere diverso, mentre i pochi, che l’avevano seguito qualche tempo collo spirito, si erano convinti anche maggiormente della sua eccezionalità. Da questo egli deduceva la propria predestinazione poichè, come tutti coloro che vivono di una sola idea, era arrivato a fondervi tutta la vita.

Ora lo scisma coi capi nichilisti lo rendeva capo al pari di loro; un qualunque atto di rivolta li avrebbe costretti a sottomettersi nelle file del suo nuovo partito. Quel primo gruppo di studenti, ritrovato a Pietroburgo era di buon augurio.

Slotkin e Kriloff, antichi compagni d’università, si erano mantenuti pari alle promesse politiche di allora; quella piccola assemblea in casa di Andrea Petrovich, raccolta a discutere sul come [p. 95 modifica]salvare Rodion abbandonato dal Comitato Esecutivo, sarebbe il primo nocciuolo della rivoluzione: nessuno di essi credeva più al vecchio nichilismo, pure ostinandosi nella necessità della lotta contro lo Czar. Era bastato a Loris presentarsi in mezzo a loro per dominarli; con essi ne troverebbe altri per iniziare presto una campagna. Agire, agire sempre, magari male, ma agire.

Loris passeggiò a lungo per la stanza: il suo volto era tornato rigido nell’imperiosità del comando, così che passando dinanzi allo specchio si ammirò.

Poi si gettò sul divano.

Poco dopo dormiva. La candela ardeva sul tavolo presso l’astuccio nero del pugnaletto, dal quale l’oscillazione della fiamma traeva ogni tanto qualche bagliore.

La mattina si svegliò calmo: uscì presto ed entrò in un caffè per leggere nei giornali il racconto del cadavere trovato in quella strada. Con sua grande meraviglia i giornali non ne parlavano. La polizia era dunque abbastanza abile per tacere l’accaduto, cercando di venirne così a capo più facilmente. L’aspetto mattinale della città lo impressionò vivamente: tutti i negozi si aprivano, la gente scendeva nelle strade frettolosa, ognuno preoccupato del proprio problema segreto; pochi fiaccheri giravano, mentre un vento tiepido fondeva la poca neve mutandola in fanghiglia. La città non aveva ancora la propria fisonomia di [p. 96 modifica]lusso, persino la vigilanza delle guardie vi sembrava rilassata. Loris ne esaminò parecchie: girellavano oziando, come incaricate di facilitare il viavai della gente, che si disponeva a lavorare allegramente; si vedevano pochi poveri e meno accattoni. L’immenso dolore russo, che egli sentiva nell’animo, non sembrava noto ad alcuno. La vita ricominciava colla solita tranquilla operosità.

Gli avvenimenti della notte gli ritornarono alla mente, quasi inintelligibili. Dove era la rivoluzione? Con chi fare una rivoluzione? Si vide dinanzi la giornata vuota; era senza impiego, senza parenti, senza amici. Gli mancava l’occupazione quotidiana, l’esercizio normale dell’esistenza. Tornò a casa, ma non seppe rimanervi: quindi andò in cerca di Kriloff; questi, gli disse il dwornik, era uscito.

Allora prese un fiacre, ripassò per la strada, ove aveva ucciso quella spia, nell’altra, ove era la casa misteriosa del Comitato; percorse due o tre volte l’immenso stradone lungo la Newa. Il fiume era torbido ma calmo, pieno di barche, brulicante di uomini che lavoravano. Le finestre e i balconi signorili si schiudevano; la giornata sarebbe splendida, col sole scintillante.

Si fece condurre al porto: v’erano molti legni da guerra, enormi, onnipotenti.

Il malessere gli cresceva. Discese per stancarsi a piedi, poi credendo di aver fame, malgrado l’e[p. 97 modifica]leganza dei propri abiti entrò in una bettola per far colazione. Molti popolani vi bevevano dell’acquavite e mangiavano del pesce. La vista di un signore li mise in curiosità, fors’anco in sospetto. Dovette uscire dopo avere inghiottito un bicchiere di pessimo kvass. Egli non sapeva dunque affratellarsi col popolo? Questo pensiero lo ferì richiamandogli alla memoria le ultime terribili parole del presidente.

Poi s’imbattè in Lemm. Il piccolo ebreo era sempre così mal vestito, annegato entro la giacca troppo larga, dalla quale il suo viso da faina sorgeva con sinistra comicità. Camminava così frettolosamente che Loris non osò fermarlo.

Dovette ritornar solo a casa per attendervi Kriloff e Ogareff.

Si presentarono gravi: Ogareff dopo le confidenze di Kriloff si manteneva in sussiego; nullameno, quando Loris gli espose tutto l’accaduto, il suo sangue giovane rifermentò.

— Ora tocca a noi agire, concluse Loris.

Ogareff approvò col capo; il difficile stava nel trovarne il modo. Per una rivolta occorreva un centro ed un nucleo, ma l’ostilità dei vecchi nichilisti, combinata colle persecuzioni della polizia, raddoppiava pericoli e difficoltà. Ogareff accettava con entusiasmo l’idea di una rivoluzione per capitanare una banda: parlò delle proprie terre, ma non credeva nè ai propri mugiks nè a quelli dei comuni, ove le sue terre erano incastrate. Il suo di[p. 98 modifica]sprezzo per i mugiks era assoluto: avrebbe preferito reclutare gente fra gli operai di città, meglio capaci d’intendere la rivoluzione. Loris invece insisteva nel disegno di una rivolta campagnuola: solamente questa in Russia poteva essere vera. Il problema era d’aiutarla con armi e danaro, facendola trascendere così che nessuno, entratovi, potesse più uscirne.

La prima necessità era dunque di abbandonare Pietroburgo, e percorrere gli altri governi per trovarvi un focolare, sul quale soffiare. Loris domandò quanti giovani si raccozzerebbero a Pietroburgo, abbastanza forti per mettersi a questa impresa: bisognava fonderli in una nuova società, non averne molti, ma sicuri. Di quelli, che Loris aveva trovato in casa di Andrea Petrovich, non uno era da scartare: si poteva riposare tranquilli sulla loro fede, se non che erano poveri. A questo avrebbero parato i primi 150,000 rubli di Loris.

Udendo questa cifra, Ogareff ebbe un sorriso stentato.

Loris, che se ne accorse, gli tese la mano.

L’altro non comprese.

— Ogareff, disse Loris con calma severa ma senza minaccia, se i pregiudizi della vostra nascita vi fanno credere che io sia un ladro, siamo ancora in tempo per separarci. Noi siamo per tentare una rivoluzione unica nella storia russa: tutto è permesso, perchè tutto deve essere rinno[p. 99 modifica]vato. Io ho già rubato al giuoco ed uccisa una spia; sono pronto a tutto.

Ogareff gli strinse la mano.

— Scusate, Loris; vi ammiro, ma confesso francamente che non lo avrei fatto. Comprendo che abbiate uccisa quella spia, guai se non l’aveste fatto! era vita per vita. Quanto al giuoco... e si fermò.

— L’onore convenzionale del gentiluomo vi toglie di comprendere questa suprema necessità del furto; eppure la società, che noi vogliamo rovesciare, non ha altra base.

— Ve lo accordo: non parliamone più, aggiunse con sorriso simpatico. Mi perdonerete la mia debolezza, ne abbiamo tutti.

Proseguirono a discutere.

Il disegno di Loris era di un’abbagliante semplicità. I contadini russi sono da cinquantaquattro milioni sopra una popolazione di cento, ma in quest’ultima cifra sono comprese tutte le nazionalità non russe, che compongono l’impero: la popolazione russa è dunque agricola per tre quarti. Le città sono scarse, ad immense distanze, con pochissima vita industriale e meno importanza civile: mancano le classi medie. Il mugik e lo Czar, il mir e l’autocrazia, ecco la Russia. Sino a ieri tutti i nichilisti avevano agito nel nome e collo spirito della nuova borghesia, educata all’università, per ribellarsi contro la burocrazia dell’impero; se il programma nichilista era tutto pieno [p. 100 modifica]di idee socialistiche, la sua passione segreta ed inconfessabile era la bramosia del potere nell’impero, altrimenti il nichilismo non avrebbe fatto falsa strada. Il vero nemico non era dunque lo Czar, emblema religioso e politico assolutamente vuoto, dentro il quale comandava l’antica aristocrazia dei Boiari e quella nuova dello tckin. Poichè la necessità delle riforme si era così rivelata ad Alessandro II, il migliore di tutti gli Czar, da persuadergli colla emancipazione dei servi l’istituto dei giurati e molti altri tentativi di riorganizzazione dei comuni e delle provincie, bisognava spingere la sua opera agli ultimi confini della logica rendendo ai contadini le terre rimaste dei signori, abrogando il riscatto dovuto a questi e compiendo con un atto solo l’emancipazione, che non sarebbe ultimata se non nella seconda metà del secolo venturo. Invece di attaccare lo Czar, nella fede del quale l’anima dei mugiks era incrollabile, si doveva dipingerlo come vittima dell’aristocrazia per scatenare contro di essa l’odio della plebe: anzitutto giovarsi dei mir suggerendo loro di non pagare le quote di riscatto per le terre ricevute, e persuadendo ai contadini delle altre di cedere ai mir i ricolti dei padroni. Questi per esigere le rendite scenderebbero a tutte le angherie, ma i poveri sarebbero allora anche più vessati e più facilmente insorgerebbero. In ogni comune l’unico letterato era lo scrivano, il pisar, sempre uno spostato e quindi un rivoluzionario, succe[p. 101 modifica]duto nell’importanza all’antico signore: il pope, non mai ben trattato dall’aristocrazia, per lo stesso sentimento di odio e di avarizia sarebbe colla rivoluzione. Quindi servirsi di tutte le rivalità nazionali aiutando qualunque moto d’indipendenza, non pubblicare nè programmi nè proclami socialisti, agire sui maggiori punti possibili, con tutti i mezzi, sotto ogni nome. Le prime armi sarebbero da caccia, poi l’Inghilterra ne fornirebbe altre. Che il gallo rosso dell’incendio, come lo chiamano i mugiks, si alzasse svolazzando su tutti i castelli dei signori, e le campagne diverrebbero presto libere; impossibile al governo difendere la scarsa aristocrazia disseminata a grandi distanze, mentre tutto lo sforzo della polizia si condenserebbe alla capitale per salvaguardare lo Czar dai nichilisti. Laonde bisognava lasciare costoro alla vanità dei loro attentati, mentre si purgherebbero le campagne dai signori. Appena i mugiks credessero alla possibilità d’impossessarsi delle altre terre, la rivoluzione diverrebbe irresistibile. Il solo proclama necessario era un falso uchase dello Czar, che cedesse loro il resto dei terreni: molti credevano già ingenuamente che lo Czar lo avesse spedito ai governatori, ma che questi nel proprio interesse lo tenessero segreto. Bisognava insorgere al grido di viva il mir e lo Czar: patriziato e borghesia, presi fra due fuochi, non saprebbero resistere. I reggimenti, composti di mugiks e comandati da una uffizialità di signori, non sareb[p. 102 modifica]bero efficaci nella repressione: basterebbe l’esempio di un battaglione, che uccidesse il proprio colonnello, per rendere pensosi tutti gli altri.

Il volto di Loris era diventato livido.

— Ci batteremo per bande: è facile; le campagne sono piene di vagabondi e di ladri, che aspettano un segnale. Essi cominceranno l’incendio dei castelli; i contadini sulle prime non oserebbero, ma, scomparso il padrone, disubbidiranno subito all’intendente, che si associerà loro per dipingere al signore come impossibile ogni ritorno. Tutti i popoli simpatizzarono sempre coi masnadieri: bastò a questi avere qualche volta preso la difesa di un povero per accapararsi tutte le simpatie e diventare leggendari. Quando tutte le terre apparteranno ai mir, il comunismo in Russia avrà trionfato: quindi cogli artel, queste vecchie confraternite di arti e di mestieri, applicheremo il collettivismo. Lasciate all’Occidente, disceso da altre civiltà, studiare un’altra riforma e un altro socialismo. Il nemico è nelle alte classi; bisogna usare verso di esse come gl’inglesi trattano ancora gl’indigeni d’America. Se gli storici borghesi vantano oggi il modo col quale Ivano il Terribile trattò i Boiari, i futuri storici popolani esalteranno la maniera colla quale noi avremo soppresso i borghesi. Sarà una guerra fratricida come quella che Cristo annunziò senza ardire di accenderle, e che Giuda avrebbe voluto. Giuda, ecco il nostro eroe, il traditore di Dio. Bisogna sve[p. 103 modifica]stirsi di ogni scrupolo; non vi è più nè furto nè assassinio contro il nemico. Ah l’onore del gentiluomo e del soldato! Ammazzare un signore, che schiaccia un villaggio, è assassinio, mentre distruggere un popolo è eroismo....

— Bisognerà dunque rubare ed assassinare? esclamò Ogareff.

— La rivoluzione è inesorabile. Da principio ci divideremo: i più abili fra noi si spargeranno fra i comuni per sobillare i contadini; i più coraggiosi raccozzeranno le bande. Tutti i nemici della società attuale saranno i nostri amici. Ogni mugik possiede un cavallo ed un fucile, ecco una cavalleria pronta a riunirsi e a disperdersi; abbiamo la steppa e la foresta, due immensità: la neve è per noi contro i soldati, l’inverno dura tre quarti dell’anno. Avventare il popolo sulle alte classi, ubbriacarlo, avvelenarlo perchè si vendichi e distrugga, ecco tutto. Accettate Dio e lo Czar, tutte le maschere divine ed umane, rispettate tutte le superstizioni, di cui il popolo ha bisogno per credere di aver ragione. L’assurdo è sempre stato il processo della storia.

Una collera demente dava al suo sguardo verde una fissazione spaventosa, mentre agli angoli della bocca sottile due rughe profonde gli disegnavano un sogghigno marmoreo di sfinge. Ogareff e Kriloff lo guardavano stupiti meno ancora per le formule selvaggie della sua rivoluzione, oramai volgari nei discorsi e nei libri, che per l’accento col [p. 104 modifica]quale dava ad esse la verità di un fatto già compiuto. Il poeta Fedor non aveva che la fantasia dell’odio, Loris ne era più che la passione.

— Uccidere uno Czar! Non hanno ancora compreso che ogni signore è Czar.

E si gettò sopra una sedia.

— Voi non mi credete, esclamò dopo una pausa.

Kriloff stava per rispondere, ma Ogareff lo prevenne.

— Debbo stasera radunare a casa mia gli amici? Lo volete? e la sua voce, benchè risoluta, aveva un tremito.

— Verranno?

— So dove trovarli. Il pretesto sarà ancora l’opera di Andrea Petrovich.

Loris sentiva una difficoltà segreta in quella adesione così pronta di Ogareff.

— Tu pure Kriloff?

— Lo sai bene, credo poco al socialismo; il tuo disegno....

— È il solo.

Kriloff non finì la risposta.

Allora Ogareff, alzandosi, nervosamente disse:

— Vi attenderemo a casa mia sulle nove.

— Spiegate loro tutto, voi m’avete compreso: questa notte getteremo le basi del partito. Ah! non mi credete dunque? ripetè leggendogli il dubbio negli occhi.

— Sentirete gli altri.

Quando furono in strada, si guardarono simultaneamente. [p. 105 modifica]

— Eppure non è pazzo, rispose Kriloff alla muta interrogazione dell’amico.

— Allora: viva Tutceff! esclamò Ogareff già tornato, in quell’aria tiepida, di buon umore; e ne declamò i due versi famosi:

Non si capisce la Russia colla ragione
Non si può che credere alla Russia.

Quindi si divisero per andare entrambi alla ricerca degli amici, ma l’impressione di quel colloquio cresceva in loro. Come tutti i giovani abituati a galvanizzarsi colla rettorica, provavano ora un malessere improvviso al contatto di quella realtà, sulla quale si erano divertiti a disegnare tante forme fantastiche. Loris era la logica nuda e gelida del loro sistema rivoluzionario, ma una logica viva che accettava tutte le conseguenze: rubare ed assassinare i signori, come questi da secoli rubavano ed assassinavano il popolo. O colla rivoluzione o contro di essa: nessun mezzo termine possibile, nessuna verità in un mezzo termine. Il loro orgoglio recalcitrava davanti alla rivelazione di questa necessità, mentre andando in traccia degli amici per convocarli capivano di compiere un atto ben più importante dell’ultima volta, quando si erano riuniti per aiutare Rodion colla convinzione anticipata che sarebbe stato impossibile.

Loris era rimasto nella propria camera. Il suo spirito, più vivamente illuminato dai lampi delle [p. 106 modifica]proprie visioni, aveva già letto nella coscienza dei giovani la risoluzione di ritirarsi dall’impresa: il resto del loro gruppo non sarebbe certamente diverso. Egli non ignorava la grande contraddizione del carattere russo, così prudente e positivo nell’opera come temerario ed assoluto nel pensiero, giacchè senza di essa gli sarebbe stato impossibile comprendere l’importanza e al tempo stesso l’inanità del moto nichilista.

Uno scoramento freddo e buio lo invadeva. Il suo ritorno a Pietroburgo non approderebbe quindi a nulla; lo giudicherebbero un pazzo, fors’anco un fanfarone, per giustificare a sè medesimi la vigliaccheria di non volerlo seguire. Allora si rimise a studiare la rivoluzione. Era il suo grande rimedio quando i dubbi lo assalivano, ma tale analisi rapida e minuta di tutte le necessità della guerra e di tutte le previsioni, che il suo ingegno aveva saputo accumulare contro i casi contrari, non bastò a rendergli la fede limpida di altre volte. Pensò di schizzare in alcune norme il profilo della società, che proporrebbe nella riunione di quei giovani, poi la ripugnanza per tutte le vecchie forme settarie glielo impedì. Si spiegherebbe meglio a voce; quando si opera davvero, non è possibile intendersi che parlando. Ma l’angoscia del dubbio gli scoppiava nuovamente nell’anima. Egli fare la rivoluzione da solo, in Russia, in un impero di oltre cento milioni, così vasto e remoto a sè stesso che molti villaggi vi [p. 107 modifica]ignoravano forse ancora l’uccisione di Alessandro II e non potrebbero comprenderla se non dopo chi sa quante generazioni!

Per resistere a questo flusso di pensieri si affrettò a mutar di abiti per la passeggiata. Siccome non aveva cameriere, suonò il campanello, che dava nell’appartamento della padrona, e andò ad aprire l’uscio sulla scala. Il suo piccolo quartiere non aveva altre comunicazioni coll’altro, ove abitava la numerosa famiglia della mercantessa, che glie lo aveva affittato.

Si presentò la solita giovinetta, piccola, tozza, dai capelli rossi e gli occhi così chiari che parevano di porcellana; Loris le ordinò di fare il the, e si pose a scrivere una lettera.

La ragazza contenta di poter stare nell’appartamento col bel forestiero, del quale parlava tutto il giorno colle figlie della padrona, dispose premurosamente sul tavolo la bottiglia del rhum presso il barattolo dello zucchero: prese due o tre pezzi di carbone dalla stufa accesa e versò l’acqua. Nella stanza la luce entrava allegramente. Ogni tanto ella si guardava nello specchio di contro accomodandosi i ricci ed impettendosi.

— Vuole che resti finchè il the sia fatto?

La sua voce era così dolce che Loris sollevò gli occhi dallo scrittoio e, dopo averla esaminata, le chiese di che paese fosse e da quanto tempo abitasse a Pietroburgo. La ragazza si era fatta istantaneamente triste. [p. 108 modifica]

— Sei disgraziata anche tu, piccola Marfa? Che fanno i tuoi?

Ella scosse il capo.

— Tuo padre è morto?

— In Siberia.

— Perchè?

— Uccise il signore che lo aveva frustato, disse Marfa precipitosamente.

— E tua madre?

— Si gettò nello stagno delle sanguisughe.

Loris si rimise a scrivere: quando ebbe finito la lettera, vide Marfa immobile nello stesso atteggiamento, che lo contemplava.

— Eccoti un rublo, piccina. Ti farò tornare, se vuoi, al tuo villaggio; qui la padrona ti batterà senza dubbio.

Marfa abbassò la testa.

— Se ti duole di essere battuta, vendicati; i bambini della padrona sono più deboli di te.

E le volse le spalle per mettersi la pelliccia, mentre a questa orribile osservazione Marfa sgranava tanto di occhi, atterrita che egli potesse avere indovinato questa rivincita, alla quale aveva qualche volta pensato.

Il grande corso della città in quell’ora rigurgitava di equipaggi eleganti, cui la mitezza del tramonto sembrava dare nel loro nuovo lusso invernale una freddolosità raffinata: ma soldati, dame e signori, vestiti all’occidentale, avevano talmente l’aria di stranieri fra i caffettani e le [p. 109 modifica]burche del popolo, che la differenza di costume diventava quasi differenza di razza. Loris, abbigliato egli pure all’ultima moda, lo sentiva dolorosamente ad ogni incontro di un popolano cercando di leggergli negli sguardi, che nemmeno gli badavano; poi vessato da tutta quella ricchezza deviò verso i quartieri poveri. Infilava a caso i vicoli cupi, dove la gente era più squallida: il fango vi si accumulava colla poltiglia della neve, le case erano tetre; dalle finestre pendevano cenci e dalle porte sboccavano fetori nauseanti. In quelle case vivevano coloro, che davvero componevano la società. Che cosa era in faccia ad essi la minoranza fastosa, ingombrante colle proprie carrozze la grande passeggiata? Tutto era pagato da quei poveri, immondi ed ignari, che vivevano con cavoli fermentati e pesce salato, intorno alla stufa o sopra la stufa. Eppure non ne sembravano tanto infelici!

Loris li osservava con pietà mescolata di sdegno. Dalle bettole prorompevano clamori e canzoni, i ragazzi sgattaiolavano sghignazzando fra le donne, sedotte dall’improvvisa dolcezza dell’aria, che passeggiavano e ciarlavano lentamente; alcune coppie amorose rasentavano i muri facendosi quasi più piccole per passare inosservate. Si vedevano faccie bestiali, malate, truci, stupide, pochissime improntate di dolore, quasi nessuna minacciosa d’ira. Il popolo non soffriva. La miseria era dunque troppo lungi dalla ricchezza per poterla odiare davvero? [p. 110 modifica]

Qualche vecchio e qualche bambino domandavano l’elemosina, ma la ricevevano così lieti, pur restando umili, che diventava impossibile compiangerli.

Si era quasi perduto nel dedalo di quelle viuzze, entro le quali l’ombra della sera s’ingolfava come un vento. In molte botteghe s’accendevano già i lumi, cominciava l’altra vita della notte. La gente cresceva, formicolava, ed erano operai che rincasavano, donne che giravano per le ultime provviste, o uscivano dalle chiese o vi entravano per un’ultima preghiera. Già la moltitudine dei ragazzi era ormai scomparsa, mentre le bettole si riempivano di un’altra folla vomitando ubbriachi rissosi e traballanti. Ne vide uno abbracciare una donna che passava, e che lo respinse violentemente con un pugno: l’ubbriaco cadde vociando nella fanghiglia; era un marinaio. Più avanti due uomini altercavano. Improvvisamente si accorse che la sua eleganza attirava occhiate sinistre; fermò il primo fiacchero, e si fece condurre al porto.

Là, molto avanti sulla spiaggia, in faccia al mare nero, che rantolava nell’ombra lasciando una bava biancastra sopra le ultime piccole onde, ricadde nelle meditazioni di prima. Quindi la notte discese su quella bruna immensità e ne soffocò quasi l’uniforme brontolìo delle acque.

Egli si era avanzato lungo il lido per allontanarsi dalle navi gremite nel porto e dalla città, che le fiamme dei fanali punteggiavano lumino[p. 111 modifica]samente. Vista dall’alto così immersa nell’oscurità, avrebbe dovuto sembrare un immenso fornello, nel quale ardessero qua e là dei pezzi di carbone. Poi il suo pensiero perdendosi in quella buia immensità fluttuò stancamente sul flusso del mare.

Passarono molte ore.

La sua ultima decisione era stata di non andare all’appuntamento che verso le undici: così avrebbero avuto tutto il tempo per discutere le sue proposte, e quel ritardo li avrebbe meglio disposti a subire il suo ascendente.

Quando si mosse, le undici erano già suonate: si affrettò non volendo però ripensare a ciò che starebbe per accadergli. Quel buio solenne della notte si era fatto anche sul suo spirito, nel quale le passioni non si muovevano più che in fondo, come le acque del mare, senza accento. Il palazzo di Ogareff non era molto lungi; a piedi gli sarebbe occorso mezz’ora per giungervi. Ma improvvisamente gli parve tardi, tornò ad aver fretta. Prese il fiacre.

Suonarono le undici e tre quarti, quando si arrestò al portone.

— Se ne saranno andati, si disse mentalmente senza osare di chiederlo al portinaio.

Invece erano là nella grande sala da pranzo, a tavola, fra le fiamme dei bicchieri e dei discorsi.

Quando il servo venne ad avvisarne Ogareff, questi si alzò esclamando: [p. 112 modifica]

— Loris....

Il disordine della tavola e delle faccie non lasciava dubbio sulla condizione degli invitati: la cena finiva al solito in una ubbriacatura. La tovaglia, insudiciata di tutto, spariva quasi sotto piatti, le tazze, i bacili pieni di frutta e di dolci, di sigari e di pipe, delle quali la cenere rimaneva in fanghiglia entro le sottocoppe e nel fondo dei bicchieri. Molte bottiglie, sturate e non sturate, circondavano un immenso samovar d’argento fumante nel mezzo. Dal soffitto pendeva un grosso lampadario di bronzo dorato: la sala tappezzata di una stoffa grigia, coi mobili in quercia scolpita di un disegno severo, non sembrava convenire a quella orgia. Tutti i commensali avevano la faccia convulsa e gli abiti sbottonati: solo Ogareff restava ancora gran signore. La sua bella testa bionda sfolgorava; era seduto presso Olga, che quel chiasso aveva già affaticato.

Ogareff andò incontro a Loris.

— Carlo Moor! gridò il poeta Fedor dal fondo della tavola, tendendogli con mano tremula un bicchiere di grog.

Loris si era arrestato presso la porta: era la stessa assemblea di poche sere prima, non mancava che Lemm, il piccolo ebreo.

— Carlo Moor, il romantico masnadiero di Schiller! ripetè Fedor.

— È questa la vostra risposta a quanto Ogareff e Kriloff debbono avervi comunicato? [p. 113 modifica]

— Siamo dunque a rapporto col generale? gridò Ossinskj, cui l’imperiosità di quell’accento offendeva malgrado il primo imbambolimento dell’ebbrezza.

— Non vi è generale dove è impossibile riunire soldati. Voi Ogareff, tu Kriloff, avete esposto tutto il disegno?

Kriloff si alzò per venirgli incontro: non sembrava aver troppo bevuto, eppure barcollava. Ogareff si manteneva in atteggiamento rispettoso.

— Non nascondeste nulla?

— No, risposero simultaneamente.

— Sapevo che avrebbero ricusato.

E fece un passo addietro. Olga lo guardava incantata, Fedor era ricaduto colla testa fra le mani dopo lanciato quel frizzo: Slotkin col viso troppo rosso mormorava fra i denti frasi inintelligibili, Kepskj ancora eccitato dalla violenta discussione con Fedor, che per passionata abitudine di contradizione aveva difeso teoricamente il disegno di Loris, guardava verso la porta al gruppo di Ogareff, di Kriloff e di Loris con un fremito d’impazienza.

Ogareff, persuaso che Loris volesse già ritirarsi, lo invitò colla sua elegante disinvoltura ad appressarsi alla tavola per bere un bicchiere di champagne.

Loris si avanzò: non si leggeva nessuna emozione sulla sua faccia; la sua fronte alta e ripida non aveva una ruga, ma stava troppo eretta, quasi [p. 114 modifica]sfidando la tempesta. Un imbarazzo s’aggravò su tutta la sala. Kriloff, a fianco di Loris, aspettava che questi gli si rivolgesse per scusarsi e dir tutto in due parole; Ogareff, che aveva già riempito un bicchiere di champagne, glielo tese:

— Bevete.

— A che cosa? domandò Loris senza sorridere.

— Alla vostra guerra, ribattè Ogareff piccato.

— O alla vostra; una guerra, nella quale si berrebbe sempre champagne, e depose il calice sulla tavola senza averlo appressato alle labbra.

— Ah! disse Ossinskj: voi vorreste dunque rubare e assassinare!

— Sì.

— Bruciare tutti i castelli senza riguardo nè a vecchi nè a bambini! gridò Kepsky.

— Sì.

— Spingere i villaggi alla rivolta, perchè i reggimenti li massacrassero!

— Sì.

Fedor, sollevandosi con uno sforzo, gridò:

— Voi non siete nemmeno Carlo Moor, il nobile masnadiere di Schiller.

Vi fu una sosta: ognuno di questi sì era stato pronunziato colla stessa intonazione.

— E voi, Andrea Petrovich? chiese improvvisamente Loris, rivolgendosi al musicista, che seduto colla fronte appoggiata ad una mano contemplava intontito la scena, e non rispose. Tu Kriloff? Voi Ogareff? [p. 115 modifica]

— Se la guerra scoppierà, questi rispose guardandolo fieramente, verrò a servire sotto i vostri ordini, ma al campo.

— Sareste un bel capitano; dovrò ricordarmi di spedirvi prima il modello dell’uniforme, che sarà adottato. In una guerra tutto deve essere regolare.

Poi arretrando di un passo:

— E ora ho l’onore di salutarvi. Voi conoscete il mio segreto: potreste tradirlo, io non ho il vostro.... Ossinskj diede un balzo sulla sedia, ma Loris lo fermò con un gesto. Non so se la vostra morale vi permetta di serbare il segreto sui disegni di un uomo che, disponendosi ad assalire la società con tutte le armi, durante la guerra ignorerà sempre che cosa possano significare furto ed assassinio contro il nemico. Non lo so, non ve lo domando, seguitò alteramente. La rivoluzione vi costringerà presto a decidervi; sarete con essa o contro di essa. In ogni caso siamo ancora in tempo per dividerci coi saluti cavallereschi degli antichi tornei.

— Signorina.... si rivolse ad Olga, cui non avea ancora guardato durante quella scena, e le fece un inchino di commiato.

Ella si sentì un groppo di pianto alla gola, e non seppe rispondergli nemmeno accennando del capo.

— Signori, ripetè salutandoli in giro.

Tutti si sentirono sul volto la sua ironia come un vento glaciale. [p. 116 modifica]

— Dove andate? gridò Fedor, che non aveva capito il significato delle ultime parole.

— Nel popolo.

— L’idea di Cristo e di Tolstoi, balbettò il poeta.

— Sì, potè finalmente esclamare Olga Petrovna: verrò con voi nel popolo, se mi accettate.

Loris le si volse.

— Io vi credo, ella proseguì come colpita da subita luce.

— Tu, Olga...! la interruppe brutalmente Ossinskj con un gesto da avvinazzato: ti piace Loris? È il solo di noi che tu non abbia avuto. Va, Maddalena.

Le guancie di Olga divennero di porpora, poi di marmo: parve che vacillasse. Infatti le sue piccole mani si raggricchiarono sulla tovaglia.

— L’amore è libero, borbottò Ossinskj; hai ragione, Maddalena.

Olga lo fissò con un corruccio di donna, che non perdonerà più; poi guardò Ogareff, gli altri, e si scostò risoluta dalla tavola.

Ogareff le si appressò.

— Me ne vado: qui s’insultano le donne.

— Non ci sono più donne: tutti uguali, insistè Ossinskj; l’amore libero ha pareggiato i sessi. Avete ragione, Olga, e voi, Loris,... Buona notte a tutti e due.

E ricadde sulla seggiola rovesciandosi sui calzoni il bicchiere di grog, che teneva brandito nella sinistra. [p. 117 modifica]

Olga era già alla porta; Ogareff si slanciò per fermarla.

— Lasciatemi uscire, ella gli disse fieramente.

L’altro rimase interdetto.

Loris, che quella scena aveva meravigliato, lo consultò con un’occhiata.

— Capricci di donna! forse ritornerà, gli rispose Ogareff.

Loris salutò tutti con un ultimo inchino, ed uscì chiudendosi dietro la porta.

Raggiunse Olga nella strada deserta.

— Volete il mio braccio per ritornare a casa? le disse con perfetta cortesia.

Ella lo guardò incantata. Tanta padronanza di sè dopo quella scena, della quale conosceva tutta l’importanza avendo assistito alle comunicazioni di Kriloff e alla tempesta che n’era seguita, finì di soggiogarla: chinò modestamente la testa, ed arrossendo sotto il velo del berretto, che si era già abbassato sul volto per schernirsi dal freddo della notte, rispose volgarmente:

— Sarebbe troppo incomodo, signore.

— Se non è che questo, accettate dunque il mio braccio.

Proseguirono qualche tempo in silenzio, poi Loris le chiese coll’accento più tranquillo come il suo disegno fosse stato discusso. Olga tremava; gli raccontò tutta la scena: prima Kriloff, poi Ogareff avevano svolto il suo disegno di rivoluzione. Era stato un tolle generale. Ossinskj aveva [p. 118 modifica]chiesto improvvisamente chi fosse Loris: dicevano tutti di averlo conosciuto solamente quella sera in casa di Andrea Petrovich; Slotkin e Kriloff avevano dichiarato la loro amicizia con lui, accusandolo di stravaganza nei concetti rivoluzionari. Fedor aveva cercato, al solito, di aizzare la discussione dandosi l’aria di sostenere quella nuova guerra, ma si conoscevano Fedor e le sue declamazioni. Kepsky era scattato; solo Andrea Petrovich era rimasto meditabondo in silenzio, forse approvando nel proprio segreto; egli era un mistico dell’arte.

— Se ci fosse stato Lemm, proruppe Olga sollevandogli gli occhi in viso, vi avrebbe sostenuto.

— Lo conoscete bene?

— È un uomo senza sentimento.

Loris sorrise all’accento, col quale Olga aveva pronunciato questa definizione esprimendo tutta la propria antipatia per Lemm, e nullameno vantandolo ora perchè avrebbe convenuto nel disegno di Loris.

Questi le fece allora qualche complimento, poi suo malgrado ritornò sul discorso. Olga gli narrò quanto sapeva sul conto di tutti, senza rancore, con un abbandono di sincerità, nella quale si sentiva tutto il rispetto incondizionato, che le inspirava Loris. Quel gruppo era una delle mille arcadie, che pullulavano in ogni centro intellettuale russo; tutti gli studenti erano fanatici di rivoluzione o d’imperialismo. Kriloff e Slotkin solo [p. 119 modifica]avevano contatto coi veri nichilisti; gli altri passavano il tempo a teorizzare ogni qual volta si trovavano riuniti.

Il più generoso di tutti, il più capace di qualche risoluzione rivoluzionaria, era Ogareff.

— Un gentiluomo! le sfuggì.

— Ebbene, voi mi avete difeso, io vi accompagno: due piccoli servigi, che non ci frutteranno reciprocamente gran cosa. Ma, scusate, mi pare che allunghiamo la strada, disse Loris che, dandole il braccio, si lasciava guidare da lei.

Olga tremò e voltò a sinistra. Quando furono dinanzi alla sua porta, Loris ritrasse il braccio per lasciarla suonare il campanello. La strada era deserta: il rumore di una porta all’interno li avvertì che il dwornik aveva inteso la chiamata.

— Abitate al secondo piano?

Olga non potè rispondere; d’un tratto colla voce grossa:

— Partirete subito? domandò.

— Forse!

— Non vedrete più alcuno qui, prima?

Il dwornik aveva aperto.

— A che pro? Buona notte, bella Olga, le disse amabilmente, mentre ella entrava tenendo la testa rivolta verso di lui.