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— Loris....

Il disordine della tavola e delle faccie non lasciava dubbio sulla condizione degli invitati: la cena finiva al solito in una ubbriacatura. La tovaglia, insudiciata di tutto, spariva quasi sotto piatti, le tazze, i bacili pieni di frutta e di dolci, di sigari e di pipe, delle quali la cenere rimaneva in fanghiglia entro le sottocoppe e nel fondo dei bicchieri. Molte bottiglie, sturate e non sturate, circondavano un immenso samovar d’argento fumante nel mezzo. Dal soffitto pendeva un grosso lampadario di bronzo dorato: la sala tappezzata di una stoffa grigia, coi mobili in quercia scolpita di un disegno severo, non sembrava convenire a quella orgia. Tutti i commensali avevano la faccia convulsa e gli abiti sbottonati: solo Ogareff restava ancora gran signore. La sua bella testa bionda sfolgorava; era seduto presso Olga, che quel chiasso aveva già affaticato.

Ogareff andò incontro a Loris.

— Carlo Moor! gridò il poeta Fedor dal fondo della tavola, tendendogli con mano tremula un bicchiere di grog.

Loris si era arrestato presso la porta: era la stessa assemblea di poche sere prima, non mancava che Lemm, il piccolo ebreo.

— Carlo Moor, il romantico masnadiero di Schiller! ripetè Fedor.

— È questa la vostra risposta a quanto Ogareff e Kriloff debbono avervi comunicato?