Il libro dei morti/Capitolo VI
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CAPITOLO VI.
L’estate era passato e Don Leonzio si stava più a lungo del consueto fuori de la canonica a bighellonare per i campi in cerca di sole. Poi era venuto il novembre e tutto il dì era una pioggerella fine fine, continua continua senza vento, che entrava dentro la terra e ne rammolliva le zolle riarse da la caldura estiva.
Annotta presto in novembre: i villani si raccolgono dentro le stalle: le donne a filare, gli uomini a raccontarsi novelle e a fumare la pipa.
Ma ohimè! il prete ed il medico, uomini solitari, dove mai si sarebbero eglino ricoverati in quelle sere accidiose e lunghe?
A dir preghiere il prete?
È vero che ne le chiese vi si serba un po’ di tepore anche nel verno.
Forse sono i sospiri e le lagrime de le genti dolorose che vengono al vespero a supplicare i grandi santi neri; forse sono i fiori che muoiono su l’altare maggiore e lasciano sfuggire il calore che hanno bevuto nei campi; o forse è il lumicino esile de la Madonna, che il sagrestano rifornisce d’olio ogni sera e brilla per tutta la notte.
Forse è quel lumicino che diffonde un po’ di tepore ne la chiesa buia e deserta.
Ma il prete ne ha dette assai ne la sua vita di preghiere e gli hanno giovato ben poco. Allora passerà la lunga veglia ne la casa parrocchiale. Ma, ohimè, essa è triste; la sua stanza è desolata ed il letto nero, stretto, freddo richiama a mente la bara.
Il vespero vi muore su le pareti scialbe; e il sole, nascosto dietro le nubi, non vi stende neppure un fuggitivo raggio di porpora. Alcuni grandi quadri, con le cornici tarlate e grevi: monache idropiche, santi smunti, martiri che sembrano avere a tedio il sacrificio e la fede, aumentano lo squallore di quelle stanze per cui freme un brivido di freddo e di noia.
E poi vi passa tutto l’esercito disperato de le memorie di una vita trascorsa inutilmente operosa; passano e precipitano giù nel sepolcro de l’oblio.
E il dottore dove passerà la sera?
L’angolo più tepido de la sua casa è la stalla, dove il ronzino rumina in pace la sua razione di gramigna. Una vecchia fante che ha conservato ancora tanto d’intelligenza quanto basta a rifare il letto e mettere al fuoco la pentola, ha sparecchiata la cena.
Egli fa cadere da la bottiglia l’ultima goccia di vino; ma il buon liquore non suscita che fantasmi dolorosi: la moglie in un cimitero lontano, lontano; il figliuolo laggiù a Torino in collegio. La madre nel suo sogno immoto, giù nel soggiorno freddo dei morti, ed il figlio forse pensano al povero vecchio; però il grappolo invano maturerà sul colle, che il suo succo più non rallegrerà la famigliuola riunita ad un solo desco.
Fu in una di quelle sere che Don Leonzio si recò in casa di G. Giacomo ed il medico fece il simigliante: ambedue bisognosi di riscaldarsi, più che a la viva fiamma del focolare, a l’affetto di quella gente buona e semplice; e l’uno presentiva che vi avrebbe trovato l’altro: ma v’è qualche cosa di più forte che non le passioni di parte, ed è questo grande dolore umano in cui i buoni si riconoscono fratelli come ne la morte.
La prima sera che si trovarono a veglia da G. Giacomo fu così.
Il dottore e Don Leonzio venendo da due opposte stradicciuole, s’incontrarono proprio davanti a la villetta che da pochi istanti era suonata l’avemaria e le ultime vibrazioni ancora tremavano ne l’aria ferma ed umida de la sera. Le due finestre de la cucina a pianterreno lucevano, e la luce pareva più viva al confronto de le ombre nascenti.
Come il dottore fu vicino sì da essere ravvisato da l’occhio fioco del prete, disse a voce alta:
— Suonate presto eh l’avemaria adesso? —
— Oh siete voi, dottore? Sicuro suona presto ora: gli è che le giornate si sono fatte corte; eppoi la sera fa freddo. Venite anche voi a fare due chiacchiere da G. Giacomo? —
— Tanto da far l’ora di notte. —
Così salutandosi e parlando, avevano attraversato l’aia e picchiarono a la porta socchiusa.
Venne ad aprire il reggitore del fondo, il quale come ebbe visto nel quadro de la porta rizzarsi la figura del prete, — Oh — disse forte — è lei signor curato? — e poi ravvisando dietro lui il dottore — Toh, anche il signor dottore! che bella pensata di venire stasera! — e chiamò di dentro il padrone.
Ma questi aveva già inteso a le voci chi fossero i due visitatori, e si fece loro incontro sorridendo, e con liete parole li invitava ad entrare.
La cucina era grande e luminosa. Sul focolare due grossi tronchi mantenevano a mezzo bollore una caldaia sospesa a la catena pendente da la cappa del camino e diffondevano un lieve tepore. In mezzo era una tavola grande di pulita rovere e da un canto la madia capace e fumida. La signora Paola ed una fanticella, con le maniche rimboccate sino al cubito, facevano un gran rimestare la pasta per il pane entro la detta madia al lume di due lucernette appese in alto.
La farina, intrisa con l’acqua bollente, levava un tepido nembo di fumo e di polvere, sì che le due donne, sospendendo alquanto il lavoro, apparvero a gli ospiti come ravvolte e confuse in quella nebbia.
— Ah, ah, fate il pane, donna Paola? — disse il prete — ne ho inteso l’odore sino da la porta. —
— E mi dispiace di non poterle stringere la mano, Don Leonzio; e così a lei, dottore, perchè guardino un po’! — e sorridendo levava in alto le mani intrise di pasta.
— E tu fermo, marmocchino! — riprese mutando voce e volgendosi ad un bimbo di pochi anni, solo e adorato figliuolo, nato dopo molti anni di matrimonio. Voleva fare il pane anche lui, e mentre la mamma volgeva l’occhio altrove, stava affondando le sue manine ne la madia.
G. Giacomo porse a i due amici le seggiole accanto al fuoco, poi posò su la tavola quattro bicchieri di cristallo e sturata a fatica una bottiglia, ne versava un bel filo pallido e odoroso di malvasia.
E, come interviene, si ragionò alquanto de le cose del luogo e del tempo; poi il prete, domandato da la signora Paola, benedisse la pasta per il pane; e infine quando parve ora, tolsero commiato promettendo che sarebbero ritornati la sera veniente.
⁂
Ritornarono; tanto che una certa dimestichezza cominciò a nascere fra il medico ed il prete: ragionavano di varie cose e, spesso, la discussione s’accendeva vivace come accade fra persone di contrario pensare. Una sera, per esempio, il prete vedendo che il dottor Lorenzo si era fatto muto e guardava con occhio intento e pensoso il figliuolo di G. Giacomo, addormentato in braccio del padre, disse:
— Io indovino la vostra mente: voi adesso pensate al vostro figliuolo. —
— Sì proprio — rispose scotendosi, — penso al mio figliuolo. A quest’ora il poverino studia ancora! —
— A quest’ora? e dimmi: è molto che non lo vedi? — dimandò G. Giacomo.
— Sono andato a trovarlo questa Pasqua, se ve ne ricordate, che rimasi assente più di due settimane. Non ne potevo più di rivederlo e farlo un po’ divertire. Tutti i suoi compagni escono la festa con i loro parenti, e allora lui rimane sempre in collegio solo. —
— E non si è lamentato, non ti ha detto che vuole venire con te? che non vuol più stare in collegio?
— No, perchè egli capisce che tutto è per il suo bene. Però mi ha fatto pena quando l’ho visto! Figurati un gran stanzone da studio con dentro più di cinquanta ragazzini, tutti zitti e curvi su i loro libri che si sentirebbe volare una mosca. L’hanno chiamato, ed ho visto quella sua povera testolina bionda levarsi dal banco come meravigliata: guardò attorno, mi riconobbe, mandò un piccolo grido e corse ad abbracciarmi e poi si mise a piangere.
Dopo diventò tutt’allegro, e mi ha fatto vedere il suo letticciuolo, piccino, freddo, nel dormitorio, mi ha detto tutto quello che studiava, i punti che otteneva dai suoi professori e che era uno dei primi.
— Insomma è contento — concluse il prete.
— Lui sì, perchè ha un gran puntiglio e vuole riuscire; ma io l’ho sempre in mente quella povera creaturina, senza l’amore di nessuno in quel grande collegio e mi si stringe il cuore a pensarci. E poi state a sentire che orario (e così dicendo levò dal taccuino un foglietto e seguitò): la mattina levata a le cinque: due ore di studio, colazione, quindi tre ore di scuola. Seconda colazione, mezz’ora di svago in cortile, poi ancora scuola sino a le due. Da le due a le quattro, alcuni giorni esercizi fisici ed igenici, come ballo, scherma, ginnastica; altri giorni invece insegnamento di lingue straniere, nozioni di diritti e doveri del buon cittadino, calligrafia, stenografia, etc. Dopo, un’altr’ora di studio, poi pranzo, un’ora di ricreazione, due ore di studio, infine riposo. —
— E così tutt’i giorni? — domandò G. Giacomo con meraviglia mista a sgomento.
— Press’a poco. —
— E per quanto tempo? —
— Per otto o dieci anni, finchè durano gli studi secondari e sia giunto il tempo di andare a l’Università. —
— Oh senti — disse G. Giacomo, — se anche dovesse diventare un Pico de la Mirandola, un Aristotele o che so altro di più grande ancora, io non ci resisterei a vedere il mio figliuolo tormentato a quel barbaro modo per tutta la sua prima giovanezza; ma lo andrei a pigliare e lo vorrei con me, con i suoi genitori e ne la sua casa. —
— E studiare? come vuoi tu che possa studiare in queste campagne? —
— Eh! se proprio dovesse studiare, la città non è poi molto lontana. Gli comprerei un asinello con un piccolo baroccino e lo manderei tutte le mattine al seminario. Lui poi ritornerebbe al tocco per l’ora del pranzo........
— Sì bravo, G. Giacomo — interruppe Don Leonzio — e ci pensi tu che il dottore voglia mandare un suo figliuolo a la scuola dei preti? —
Rispose il dottore pacatamente: — No! non è per questo o per odio che io oramai abbia verso qualcuno; la ragione vera è questa che voi non volete intendere: cioè che da tanto tempo gli studi hanno fatto dei progressi immensi e queste nostre scuole dei seminari oramai non rispondono più ai bisogni de la vita moderna; di quella vita che circolerà anche qui, quando queste barriere del governo teocratico saranno abbattute, come ne ho fede. Ma ci pensate proprio che io senza un grave motivo mi sarei indotto a separarmi dal mio Giorgio? È perchè vedo bene ne l’avvenire che ho voluto mandarlo in quel collegio Nazionale di Torino, ove tutto l’insegnamento è informato ad un alto e severo concetto de la scienza, cioè de la verità; la quale folgora con tanta luce che bisogna essere ciechi per non vedere. Queste qui sono scuole di morti; ma là si studia per educare e temprare le nuove generazioni ai futuri destini di questa patria, quando ella sarà tutta unita, tutta forte; ricca di opere magnanime e virtuose. —
— Voi — rispose ironicamente il prete — vi addentrate troppo a cuor leggero in questioni difficili. Lasciate stare la scienza, i futuri destini ed anche la verità, che può darsi sia tuttora in fondo al pozzo e vi debba rimanere per chi sa quanto tempo. Ritorniamo semplicemente al vostro figliuolo, ai suoi compagni ed a la loro educazione: ci credete proprio che sia ben fatto con tanta copia di insegnamenti costringere l’intelligenza dei giovanetti ad uno sviluppo immaturo, e ad una ponderatezza superiore a la loro età?
Quante cose essi debbono apprendere! La mente viene quasi divisa in un gran numero di parti, de le quali ciascuna deve assorbire una determinata disciplina, non altrimenti che si dispongono gli oggetti nei vari scompartimenti di uno scrittoio. E non vi pare che in tal modo, voi che volete seguire la verità, vi opponiate a quelle che sono la prima verità, cioè le leggi serene e buone de la natura? Tenetelo per certo che la natura si ribellerà a questo sforzo; e tutto quel complesso di studì, ancora che fossero impartiti con metodo e con ordine (de la qual cosa ho gran dubbio) finirà con l’oscillare, confondersi, poi svanire da la mente de gli scolari.
E supponete pure che sia possibile di eccitare in essi un precoce sviluppo di intelligenza ed una anormale ponderatezza; credete che queste si manterranno e progrediranno armonicamente col progredire de gli anni? Io penso che, quando sia giunto il tempo di cogliere il frutto, questo non abbia a corrispondere a così lungo ed aspro tormento di studi, se pure non si manifesti una reazione di regresso e di accasciamento tanto intellettuale che fisico, e non solo in essi, ma quel che è peggio, ne le generazioni future.
Infine, imaginando che a furia di abitudine e di metodo possano anche i giovani di mezzana intelligenza (che sono i più) progredire e compiere bene il loro corso, ci credete proprio che sia cosa utile e buona il chiamare universalmente i giovani a questo grande dolore del conoscere? Oh! ritenete per certo che essi, senza nemmeno volerlo, ma per l’impedimento e l’incompatibilità inerenti a la loro mediocrità, sfuggiranno di salire a le sublimi e dolorose solitudini de la scienza e, o la costringeranno ad abbassarsi sino al livello de le loro intelligenze, ovvero non cercheranno di sfruttare da lo studio se non quella parte che torna a loro di immediata e pratica utilità. —
— D’altra parte — rispose il dottore — la civiltà si avanza così universalmente e con tanta forza, che si può paragonare a quella de la marea, la quale rigonfia tutto il mare e monta e trascina in alto chi di buon grado la segue, mentre uccide ed affoga chi vi si oppone: il sapere progredisce e si moltiplica in nuovi rami che si impongono di necessità, ed a le scuole prima di tutto. Voi poi, Don Leonzio, che volete essere uomo savio, non avete bisogno che io vi insegni come sia da stolto il volere andare contro il fatto o il fato storico, che è la realtà. —
— La realtà non è sempre la verità — ribattè il prete, — ed io pur conoscendo come sia cosa vana o stolta l’opporsi all’impeto de la corrente, pur vi assicuro che mai non sento tanto tutta la libertà e la divinità de la mia anima come quando io solo mi ribello contro la forza de la moltitudine. Quanto poi a l’essere schiacciato ed ucciso, ciò non riguarda me, ma solo la brutalità di quella forza. —
— Sia come più vi piace — conchiuse sorridendo il dottore, — ma pensate anche che gli stati retti a libero governo, come fra non molto sarà l’Italia, hanno bisogno che le nuove generazioni siano in grado di esercitare questa libertà, e ciò non si ottiene che mediante un’istruzione diffusa. Quanto poi a me, io vi dirò che non sto a pensare tanto in là: io, come padre, voglio che il mio figliuolo studi e vada avanti; e non ho altra paura che il suo povero corpicino non resista a lo sforzo de la mente, e non ho oramai più altra speranza o desiderio che la sua riuscita. Io lo voglio vedere il mio Giorgio, bello, forte, armato di sapere e d’ingegno come i cavalieri di una volta erano armati di ferro! —
— E tutto questo, di grazia, perchè? — domandò il prete.
— Perchè? e me lo chiedete? perchè trionfi, cioè ottenga un alto e degno posto ne la società. —
— Ecco cosa di cui non vedo il bisogno — disse freddamente Don Leonzio.
— Già, perchè voi non avete fede e negate il fatale svolgersi progressivo de l’umanità e sopratutto perchè non siete padre, ma un vecchio prete solo e misantropo. —
— Il vostro amore di padre può scusarne l’ orgoglio; ma, persuadetevi che non è cosa naturale, e, se anche fosse, non sarebbe cosa buona. —
— Non è naturale il volere che i figli propri trionfino? Domandatene a G. Giacomo che è padre come me. —
Questi che fin’allora si era rimasto ad ascoltare quella strana disputa, interrogato, rispose bonariamente: — Oh io, dottor Lorenzo, non ci arrivo tanto in là ne le vostre discussioni: io lascio il mio figliuolo ruzzare al sole fin quando vuole...
— Ma che cosa ne vorrai fare? un ignorantello, un ozioso... —
— Come me, volevi dire? — interruppe sorridendo G. Giacomo.
— No, perchè tu sei un uomo buono. —
— Bravo! Se io ti sembro un uomo buono, come vorrei essere con l’aiuto di Dio, così desidero che il mio figliuolo diventi un uomo buono e nient’altro. —
— E non vorrai tu istruirlo? lo lascierai crescere così, come vien viene, in queste campagne? —
— Io?... io, quando sarà grandicello, gli insegnerò a leggere, a scrivere e a fare un po’ i conti; Don Leonzio gli insegnerà un po’ di religione e di morale; poi se vedrò che abbia testa, andrà anche lui al seminario a imparare qualcosa di latino e la storia romana, che è per così dire la storia de la nostra gente. Infine vivrà come vivo io o come vuol lui, piglierà moglie, se gli piace, o lavorerà secondo il suo genio. —
— Tu dici questo — ripigliò il medico — perchè sei vissuto sempre qui e non hai idea di ciò che vuol dire scienza e progresso. —
— Sarà come dici; ma io sono proprio convinto che, se gli uomini cominciassero a conoscersi un po’ meglio e a volersi bene l’un l’altro, la scienza e il progresso non potrebbero andare più in là: questa non è un’idea nuova, ma siccome non la si mette mai in pratica, così può passare per nuova. Ora per far questo, con i ragazzi, non ci vogliono tanti collegi, tanti maestri e tanti studi, ma basta il buon esempio e l’ammaestramento dei genitori. —
— Ma dimmi un po’: e se il tuo figliuolo avesse de l’ingegno per riuscire qualche cosa nel mondo, che so io, un musico, uno scienziato, un poeta, non avresti tu rimorso di avergli chiusa la via? Come vuoi che, vivendo questa vita zotica e materiale, si possa in lui sviluppare l’ingegno se ne ha? Mio figliuolo (non dico per vanto ma per fartene persuaso) a undici anni studia l’italiano, la storia, il latino, l’aritmetica, la geografia, il francese, il disegno, gli elementi di storia naturale, la ginnastica... —
— Recipe per cuocere il pesce: s’infarina e si frigge — borbottò il prete.
— Oh povero bimbo mio — interruppe G. Giacomo con una lieve ombra d’ironia ne la voce, ma intensa per amore, e lambiva piano piano la testa bruna e grossa del fanciullo addormentato, — digli al dottore che la conosci anche tu la ginnastica quando la mattina balli la monferrina sul letto... —
— Non badargli a quello che dice — riprese il prete, — perchè se Dio ha dato del vero ingegno al tuo figliuolo, anche andando al seminario a studiare con i vecchi sistemi, l’ingegno verrà fuori lo stesso, e la natura gli fornirà la forza di compiere in un anno quello che nel suo collegio non fanno in dieci con tutte le loro pedanterie liberali: e lascia pur dire, che l’Italia non è mai stata la terra dei beati ancora che ci abbiano dominato e ci dominino i preti.
La verità è che molti sono i giovanetti che, specie ai genitori, danno apparenza di essere forniti di vero ingegno, ma pochi sono quelli che ne hanno di così buon seme che cresca di pari passo con gli anni e produca opere grandi. — E perciò seguitava dicendo che non era ragione di allevare tutti i giovani in eguale maniera e con tale intensa e forzata coltura, e che per lo meno era cosa strana vedere tutti quei cervelli, quasi germi di piante ancora ignote, essere tirati su come fossero tanti cedri del Libano.
Allora, come sovente interveniva in quei loro ragionari, il dottore tirava in questione l’odio dei preti contro il sapere e la patria; poi saliva con infiammata parola a descrivere l’Italia quale sarebbe stata nel tempo avvenire.
Era nel suo pensiero tutto un mirabile consenso di energie e di virtù che aspiravano con lavoro incessante a formare de l’Italia una nazione libera, grande ancora, rinovellata e battezzata ne la modernità, ancora maestra di vita civile in questi nuovi tempi.
Leggeva i giorni numerati, ricongiungeva il passato al presente sì che gli avvenimenti acquistavano l’impronta di cosa fatale.
Gli eroi de le età trascorse, i martiri, i poeti combattevano, grandi spiriti, davanti ai nuovi eserciti de la gioventù italica; perchè non era solo la generazione presente che si moveva in campo; erano tutte le generazioni morte con tutta la loro gloria immortale che sospingevano avanti e insegnavano la via!
Le parole del vecchio liberale, mentre così parlava, si accendevano di grande affetto, e talvolta sotto l’impeto de le memorie e de l’entusiasmo la voce gli tremava come di pianto. Solo si doleva di quella che chiamava la sua viltà, quando fece domanda d’essere richiamato da l’esiglio; ma, come scusa di una colpa che nessuno dei presenti gli apponeva, ricordava la moglie inferma e bisognosa di più mite cielo, la miseria, la pietà per il figlio.
G. Giacomo, ancora che abituato ai discorsi del medico, si lasciava tuttavia vincere da quelle calde parole a cui ben poca fede prestava, ma pur lo commovevano e ne intendeva l’affetto: perchè anche lui la amava questa vecchia Italia, solo che la sua missione storica o la credeva compiuta o piuttosto gli pareva che tutto quel fremito di rivoluzione non tanto si partisse e si originasse da le viscere stesse de la nazione, già esausta di troppa gloria e di troppe opere, ma fosse soltanto il consenso di un grande, oscuro mutamento sociale e morale che si irradiava da altri centri oltre alpe ed oltre mare; e ne aveva paura.
— Quello che noi facemmo per la patria — finiva a mo’ di clausola il dottore — è ben poca cosa. Voi vedrete i nostri figli! Come l’ameranno, con quante e quali opere le faranno onore! —
Ma Don Leonzio rideva d’un suo riso fine e triste; e, quando quegli ebbe finito, pianamente proseguì:
— E continuando al primo detto, non vi pare, dottore, che tutta quella gente dotta che uscirà da le vostre scuole, sarà di troppo? —
— I migliori andranno avanti — rispose il dottore, richiamato d’improvviso al discorso di prima — ed anche per i mediocri vi sarà posto, anzi saranno necessari, perchè voi non pensate o non imaginate le infinite applicazioni de la scienza tanto ne gli studi come ne’ commerci e ne le industrie: e poi la politica non la contate voi, quando tutti saranno chiamati a prendervi parte? —
Il prete, seguendo più il filo de le sue idee che per rispondere al suo contraditore, continuò: — Io ho contraria opinione e temo forte che, chiamando tutti i giovani a studiare press’a poco le cose stesse, in uguali scuole, determinando il sistema, la via, il tempo, non si finisca col mettere le pastoie e, forse, isterilire molte intelligenze di quelle che sono libere e geniali. Queste crescono, è vero, per virtù di studio e di pazienza, ma sopratutto perchè sono amiche al cielo e di buon seme: esse hanno bisogno di lietezza e di libertà vera, non di essere costrette a muoversi secondo che stabilisce un ordinamento scolastico, il quale con la sua rigidezza ne deforma il naturale sviluppo. Ma quello che mi dà più pensiero, è per ciò che riguarda la grande pluralità dei giovani: cioè a dire i mediocri ed i pessimi. Questi, trascinati quasi inconsciamente e loro malgrado forse da quel meccanismo di studi, si troveranno ad aver percorsa la via medesima che i buoni, con i medesimi gradi e gli stessi onori. Allora avverrà che la moltitudine la quale è inetta a giudicare bene da per sè, onorerà e si lascierà guidare piuttosto dai mediocri e dai pessimi che non da quelli che ne sarebbero degni, e ciò naturalmente, poichè l’improntitudine e l’audacia, necessarie a chi vuole acquistarsi l’estimazione del pubblico, si accompagnano, quasi sempre, a la leggerezza de le intelligenze e de le coscienze, mentre le persone che hanno valore grande, d’ingegno o di bontà, sono per natura un po’ timide e disdegnose.
E poi l’universale de gli uomini ha un quale sacro orrore de le altezze; e, se attraverso la lontananza del tempo e de la storia sembrano ammirare certe figure umane, meravigliose e perfette, quando queste si impersonano in individuo vivo e presente, allora se ne rifuggono, o perchè proprio non lo intendono o perchè intuiscono che non sono adatti a seguirne le opere ed i consigli: invece trovano più affinità con i mediocri ed a costoro si affidano anche con danno manifesto. Così che la scelta non avviene fra quelli che sono veramente i migliori, ma fra quelli che possiedono certe doti di accortezza, audacia, perseveranza e intuizione dei mezzi necessari a la riuscita.
Questo fatto pur troppo è fatale e si manifestò in tutti i tempi (giacchè gli uomini veramente grandi tu li vedi isolati nel corso de la storia, quali scogli in mezzo a una fiumana; ed anche se per certe circostanze l’opera loro esercitò un notevole influsso a indirizzare nel vero l’umanità, quell’opera e quell’idea si andarono corrompendo attraverso questo volgo infinito, non diversamente che una pianta gentile si deforma quando il seme ne è trapiantato in un terreno inadatto), ma non mai questo trionfo dei mediocri ebbe o avrà un’attuazione più diffusa come in questi nuovi tempi di cui voi affrettate l’avvento. Oh, questo sì ve lo concedo, cioè a dire che la vostra istruzione democratica, cioè impartita a l’universale, avrà per effetto di raffinare quelle doti de la mente che prima vi ricordai, come sarebbero duttilità e finezza di percepire e di conoscere, tenacia ne l’opera, coraggio, abilità, astuzia nel tentare ne lo infingersi e via dicendo, anzi fornirà ad esse tutti i mezzi per farsi valere. Ma queste, tenetelo a mente, sono qualità comunissime e davvero non merita il conto di coltivarle. Che direste voi se uno facesse un allevamento di vipere? sperereste forse che abbiano a diventare o chimere o fantastici e bellissimi animali fuori de le forme di natura? Oh, gli antichi alchimisti che cercavano la pietra filosofale, ben riderebbero di voi che sognate di trasmutare questo fango de l’anima umana in una gemma preziosa.
Quanto più nel vero siamo noi nel nostro errore (se è un errore), quando diciamo che l’anima è bensì cosa divina, ma la sua divinità non appare che dopo la morte, quando il corpo che era velo e carcere, si è sciolto e Dio la accoglie nel suo seno. Del resto l’ingegno vero è ben altra cosa che quelle qualità che voi potrete raffinare ne le scuole, perchè esso è fatto di luce, di bontà e di dolore, materie d’insegnamento che non cadono nei vostri programmi! Ma questa democrazia di mediocrità fatte nobili e potenti, non potranno che odiarlo e soffocarlo dovunque e comunque si manifesti, o tutt’al più lo avranno in conto di un portento mostruoso e si divertiranno de la sua opera come la folla ammira il gigante o l’aquila o il leone nei serragli de le fiere.
⁂
Così spesso il prete ed il dottore ragionavano senza che l’uno riuscisse a persuadere l’altro: vero è che, così conversando, il tempo passava meno tristamente per il vecchio prete; e, ciò che è un gran bene, inavvertita s’approssimava l’ora de la morte.
G. Giacomo coltivava lietamente i suoi bei campi fioriti e solatii; e quando il suo figliuolo divenne grandicello, così il più de le volte lo teneva seco e lo guidava per mano. E il dottore che girava per le vie di campagna sognando i futuri destini de la patria e congiungendoli involontariamente ai trionfi del suo Giorgio, un giorno che quell’imagine gli era più viva in mente, passando davanti a G. Giacomo, che appunto avea con sè il suo figliuolo, un po’ confusetto e moccioso, disse:
— Oh, G. Giacomo, tu gli vuoi un gran bene a quel tuo figliuolo, non è vero? —
— Se gli voglio bene.....! —
— E non stai in pensiero per lui? —
— In pensiero? e perchè? È nato da genitori sani ed onesti, che vuoi di più? —
— Ma non intendi che questi tempi in cui sei vissuto, stanno per finire? Incomincia una nuova età, o buon uomo, e quando tu sarai morto, che cosa farà quella povera creatura che tu allevi così semplice ed inesperta? Proprio se non avessi qualche po’ di roba da lasciargli, avrei pietà del suo stato! —
— Caro dottore — rispondeva G. Giacomo — quel poco che io ho, lo possono aver tutti, perchè la terra è tanto grande. Vedi, io per me ne ho anche di troppo; e — aggiungeva sorridendo — ne vuoi tu una parte? così ti chiami il tuo figliuolo, vivete in pace ed amore senza domandare tante cose a questi pochi anni che bisogna vivere quaggiù. —
Ma il dottore crollava le spalle e diceva che sarebbe venuto il tempo che si sarebbe pentito.
⁂
Il figliuolo di G. Giacomo imparò a leggere e scrivere e ad essere giovinetto savio e ubbidiente; ed era bello e forte come novella pianta. E più tardi, come fu alquanto cresciuto ne gli anni, ebbe un baroccino ed un asinello e andava quasi ogni mattina al seminario de la città a imparare un po’ di latino e di storia romana, che — come diceva suo padre — è la storia di questa nostra terra e di questa nostra gente.