Il libro dei morti/Capitolo VII
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CAPITOLO VII.
Dal ’59 a l’anno che Roma fu tolta al Pontefice, gli avvenimenti precipitarono con tanta rapidità, che G. Giacomo non aveva tempo di rendersi esatto conto di un fatto che l’altro sopraggiungeva.
Un giorno tre reggimenti di bersaglieri, piumati e frementi erano entrati ne la sua città con gran meraviglia di quelle mura vecchie e solitarie. Squillavano le fanfare, bandiere di seta ondeggiavano e stridevano, grida e fiori ricoprivano quelle schiere. Pochi giorni dopo Lamoricière era vinto, Pimodan ferito a morte. Vi rispondea come un eco l’epopea di Garibaldi: un reame conquistato, un re messo in fuga. Il sole non maturava allori che fossero bastanti! Poi il plebiscito, Custoza, la cessione di Venezia e in ultimo la presa di Roma, con quel re Emanuele che usciva in viva luce da l’ombra de le leggende, da la polvere de le battaglie lombarde; ed ora appariva su l’alto del settimonzio, terribile, folgorante di gloria e d’ermellino a segnare con nuove parole le pagine di una storia sorprendente.
Don Leonzio trovava incresciosa sino la luce del sole; ma G. Giacomo, non vinto da alcuna passione di parte, però fra la sorpresa e la meraviglia del succedersi di così nuovi e per lui inaspettati eventi, si accontentava di dire che se ciò avveniva era perchè Dio lo voleva; e, se era un bene, non sarebbe tardato molto ad apparire.
La luna batteva ancora su la via Flaminia e gli antichi legionari passanti con le aquile d’oro nel sogno del poema di Livio, parevano riconoscere i piumati veliti che irrompevano giù dai piani lombardi; ne salutavano le bandiere — le bandiere che le mani de le donne italiche ricamarono. La canzone del Petrarca che comincia — Italia mia, — e che G. Giacomo aveva letto come esercitazione retorica ne’ tempi lontani de la sua giovinezza, sembrava dire: — Io son giovane e vivo canto ancora! —
Giorni memorabili!
Il dottore avea venduta la sua vecchia rozza e comperato un cavallino baio che fuggiva per le strade come una saetta. Pareva ringiovanito di venti anni e diceva che tutto era un bene, una benedizione di Dio, anche il suo esiglio, anche i suoi patimenti. — Ora, ora cominciano i giorni felici — ripeteva a G. Giacomo — e beati noi che siamo vissuti tanto per assistere a così lieta ventura! — e si studiava di persuadere il suo vecchio amico e confortarlo ne’ suoi dubbi: — Le cose si accomoderanno per via; e Pio IX che benedisse l’Italia del ’48, ancora la benedirà in questi nuovi tempi. Affrettiamo gli eventi!
Ti ricordi tu di Vergilio? — Iam, novus ab interitu saeclorum nascitur ordo..... — e poi fuggiva come invasato sul suo trespolo. Un’altra volta gli ragionava di suo figliuolo che era a la Università e dava molto a sperare di sè, e voleva che anche il figliuolo di G. Giacomo studiasse — perchè tutti i buoni e i figli dei buoni si devono dare la mano per saldare moralmente questa cara patria. —
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E gli anni precipitavano ne l’olimpica indifferenza de le cose umane.
Ma un nuovo fatto era avvenuto che volse in tristezza l’attonita meraviglia di lui per così improvviso mutamento di cose: il suo uomo che si recava ogni due mesi a la città a pagare le imposte, ritornò tutto dolente dicendo al padrone che le erano accresciute; e poi seguì un altro aumento e quindi un terzo e così via tanto che quello che prima era dieci, ora era diventato quasi il doppio; e, come interviene, standosi egli doloroso ed incerto, senza altrimenti pagare, gli fu mandato un avviso ove non solo il ritardo era gravemente multato, ma era detto che non pagando entro un determinato tempo, da prima i raccolti sarebbero stati confiscati e venduti, poi i fondi stessi posti a l’incanto.
Andò a la città: uffici nuovi, gente nuova.
Disse che il suo era ben poco; appena tanto da bastare a la sua famigliuola, e che il superfluo lo dava a quelli che erano bisognosi o incapaci di lavorare: se poi un anno o due avesse battuto la grandine, non che di vivere, ma non avrebbe avuto nemmeno da pagare le dette imposte. — Se la va innanzi di questo passo — conchiuse egli — mi converrà vendere e venire da voi perchè mi diate da vivere. —
Una persona, di quelle burbanzose che passano metà de la vita ad un finestrino di ufficio, l’altra metà ad aspettare che arrivi il giorno de la paga, poi l’aumento, poi la pensione, a le rimostranze del buon uomo si degnò di alzare le spalle e indicò alcuni decreti stampati che pendevano da la opposta parete.
Convenne sottomettersi; ma nel tempo stesso un gran senso di scoramento gli s’infisse ne l’animo.
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Un anno, di giugno, con un cielo chiaro di piombo, la grandine devastò il raccolto del grano e de l’uva. Piombava, frantumava le spighe; i grappoli cadevano a terra pesti e spezzati; pampini e tralci erano fatti a frusti come se un carro falcato vi fosse passato per mezzo.
E i poveri, ne l’inverno, erano cresciuti di numero e venivano anche da lontano a domandare la calda minestra, quando sonava mezzogiorno.
Ora G. Giacomo di queste sue disavventure si querelò una volta con un certo tale che era cavaliere e agente de le imposte e grande amministratore.
— Ma caro signore, — rispose costui — se cade la grandine, vi sono bene le società di assicurazione; e se un anno ella si trova in istrettezze, si rivolga a le banche che le faranno credito. Mi ricorda i poveri! Ma la povertà è abolita per legge. Ci provvede il Governo; l’individuo ne è dispensato. Non vede quante società di beneficenza, congregazioni, patronati, fiere, balli, ricoveri, ospedali, manicomi vi sono per i poveri? Ella non ha altro dovere che di pagare le sue imposte; al resto ci pensiamo noi. E poi? E poi bisogna sapere un poco industriarsi ne la vita! Commerci, faccia traffichi col grano, con l’uva, con quello che vuole; e se sono cresciute le imposte, è cresciuto anche il prezzo de le derrate: legga i giornali, i listini di borsa; insomma non istia ad attendere la manna dal cielo come gli Ebrei. Ma le ferrovie, il telegrafo, la posta, i trattati di commercio, le società di navigazione, i mercati sono tutte cose state istituite con immenso dispendio perchè la gente svelta se ne valga ed accresca la ricchezza nazionale. Se non m’intende, peggio per lei: non è mica nato ieri perchè le si debbano insegnare queste cose! Tale è il progresso, e bisogna saperne approfittare e pagarlo. Non pretenderà mica che lo si abolisca per fare piacere a lei! —
G. Giacomo non sapeva davvero che cosa rispondere a quegli argomenti ed a quelle apostrofi scagliate con tanta sicurezza, o piuttosto sentiva dentro di sè che le sue ragioni non avrebbero che fatto sorridere di compassione quell’uomo così rispettabile e rispettato.
Il prezzo del grano e de le altre derrate era di fatto cresciuto, come diceva quel degno signore, ma a lui, se fossero andate ad un prezzo anche più vile di prima, non sarebbe importato un bel niente. Non voleva mica trafficare lui col prodotto de’ suoi poderi; gli bastava di vivere libero e in pace!
Anche il dottore, a dire il vero, gli era venuto un po’ in uggia, perchè un’altra volta che gli avvenne di lamentarsi con lui, questi gli ebbe risposto con un sorriso quasi di soddisfazione: — Oh caro amico, io te lo aveva detto che il mondo non era quale tu imaginavi! Il progresso non si ha mica per niente, e che sarebbe la società se tutti vivessero come tu vivi, e allevassero i figliuoli con le massime con cui tu allevi il tuo? Certo sarebbe una società morta, senza forza e senz’avvenire. E poi qui è nulla, chè tu dovresti vedere e conoscere le grandi città. Che vita! quanto agitarsi di opere e di pensieri! Io ti darò perchè tu ne sii fatto certo, le lettere che il mio figliuolo mi scrive da Parigi e da Berlino, dove il Governo lo ha inviato perchè si perfezioni ne’ suoi studi. Leggile e cambierai d’avviso. O fa a mio modo, dirozzalo un po’ quel tuo ragazzone, mandalo a le scuole e poi, se non altro, gli farai avere un bell’impiego e vedrai come si troverà contento. Che cosa vuoi che faccia di quei due o tre pezzi di terra che gli lascierai quando sarai morto? che ci vegeti su come una pianta? —
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I campi ridevano ancora al sole mite del buon tempo di primavera, e l’albero del giuggiolo, salendo alto oltre il tetto, cantava la sussurrante canzone a la brezza marina; ma queste buone cose de le terre e del cielo non valevano a sgombrargli l’animo da un gran turbamento per l’avvenire. Anzi riguardando que’ suoi campicelli ove avea pensato che il suo figliuolo e la sua discendenza sarebbero vissuti lieti ed in pace, lo vinceva una tenerezza melanconica e lagrimosa. — O poveri i miei campi — pensava — che io ho avuto da mio padre, chi vi possederà dopo di me? e il mio figliuolo dove andrà, come vivrà e qual sorte lo attende? —
Certo Don Leonzio lo poteva confortare, ma questi avea certi suoi ragionamenti troppo sottili per la sua intelligenza; e, quel che è più, ne le sue parole vibrava un’acredine così piena di ribellione e di odio, una tristezza così disperata d’ogni bene, che quel prete quasi gli faceva paura; — però che — pensava G. Giacomo — per quanto grandi siano le tribolazioni di questa età fuggitiva, esse non possono interamente affliggere l’uomo giusto, il quale ad altra più vera vita volge il desiderio, e in essa l’anima si riposa. —
Eppure era cosa triste vivere così; non per sè, chè poco gli rimaneva di vita, ma pensava al suo figliuolo, caro più che la luce de le sue pupille. Egli avrebbe dovuto percorrere tutto il suo corso sino a la morte e generare figliuoli a la sua volta. Ed egli ed i figliuoli dove e come sarebbero vissuti?
Vero è che la parola di Cristo lo sovveniva anche in questo suo dolore, quando dice per bocca del suo apostolo: — E chiunque avrà abbandonato la casa, i fratelli o le sorelle o il padre o la madre o la moglie o i figliuoli o i poderi per amor del mio nome, riceverà il centuplo e possederà la vita eterna.
Ma G. Giacomo non era un teologo nè un asceta, ma soltanto un uomo semplice e buono.
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La sua città avea mutato faccia in pochi anni: tutto era stato intonacato e imbiancato.
Anche le metope dei Cesari, ne l’arco romano, non erano sfuggite a quel bucato plebeo.
Il palazzone del Comune e gli altri uffici erano pieni di scribi, segretari, cursori, impiegati d’ogni sorta. I soldati facevano risonare gaiamente le sciabole su l’acciottolato de le vie e ridevano a le fanciulle. I caffè stavano aperti sin dopo la mezzanotte — pieni di luce e di risa; e lungo il corso v’erano molte botteghe nuove, con le vetrine lucide di vernice e rifornite di stoffe e di molte altre vistose mercanzie.
Le vecchie mura di cinta, da cui moveva un tempo come un’aura incresciosa di morte, erano state in varii punti abbattute e per quella breccia irrompeva la macchina a vapore stridendo e fischiando e quasi parea irridere a quelle impotenti ruine: i fili del telegrafo vi passavano in alto; e, smarrendosi a gran festoni nel confine del cielo, si congiungevano a lontani centri di moderna operosità.
Per quella breccia, come da una diga franata, invase e dilagò il torrente de le idee le quali tutte sembravano vere perchè erano nuove. Era per le vie un affollarsi di giovani che discorrevano di politica, di elezioni, di filosofia, di mirabili conquiste ne l’avvenire.
Gli studenti vi portavano da la città capitale tanto la notizia de l’ultima scoperta scientifica come l’esemplare de la più perfetta moda ne le cravatte e nel taglio de l’abito, a gran confusione dei vecchi e de gli uomini semplici.
Anche ne le campagne la vita di un tempo si era sensibilmente mutata in breve volgere d’anni: la terra era suddivisa in poderi più o meno piccoli appartenenti a diversi padroni, così che pochi erano quelli che non avessero avuto da far bollire la pentola del proprio; ed in ognuna di quelle possessioni era una casetta rustica ed in molte una piccola villa.
I contadini poi, ancora che, per la più parte, non fossero i legittimi proprietari del terreno, tuttavia vivendo su di esso ed in quelle case da molte generazioni, con grande famiglia lieta di figliolanza, di vecchi e di spose, avevano acquistato come un diritto di abitare su que’ campi e di coltivarli: diritto reso forte da l’uso, da l’affetto ai luoghi, da benevole dimestichezza con la famiglia dei padroni. I quali sovente partecipavano ai lavori de la terra, dirigendo e consigliando le opere e vivendo in campagna essi pure i buoni mesi de l’anno. Così che in verità quelli erano liberi lavoratori e contadini felici, secondo il loro stato, in quanto che partecipavano per la metà di ogni raccolto; e soprattutto perchè de la villa godevano l’uso giornaliero, come fosse di loro, i benefici de l’abitazione, la lietezza di una vita operosa, ma indipendente e sicura de l’indomani per sè e per la famiglia.
Ora quest’ordinamento buono dei campi già cominciava a vacillare e a scomporsi.
Molti che erano possessori di poca terra, si erano, a poco a poco, dati a vita più larga e spendereccia: i figliuoli a le scuole, le ragazze ben vestite, secondo che porta il costume, la casa rifornita di tutti quegli agi che per la universalità de gli uomini non è possibile conoscere senza sentirne il bisogno. Di che, oppressi da le imposte e dai debiti contratti con leggerezza pari a la ingannevole facilità del credito, aveano dovuto vendere il loro poco avere e cercare per sè e più per i figliuoli uffici che permettessero di vivere senza dipartirsi da le contratte abitudini. Quei piccoli fondi furono congiunti in proprietà o tenute maggiori, molte case abbattute, molte famiglie di contadini licenziate da quei terreni ove da anni dimoravano e attendevano a le loro opere serene.
La coltivazione stessa era stata mutata per modo da richiedere minor numero di lavoratori; i quali erano presi a mercede giornaliera e licenziati a lavoro finito. Il braccio di ferro de la macchina suppliva a molte braccia di carne. Non pochi emigravano, consolandosi con un vecchio proverbio: Bella l’Italia, bella la Spagna, più bello il paese dove si mangia. — Ma i più, lusingati da la speranza di maggiori guadagni o tratti da la buffera di questa nostra età, si partivano da le native campagne, e col fagotto a l’estremità del bastone, in grandi compagnie si riducevano ne le grandi metropoli, ove i nuovi opifici e le fabbriche promettevano lavoro per tutti e larga mercede.
Di tutto questo G. Giacomo non si rendeva esatto conto; ma un perturbamento universale, un agitarsi di persone e di cose lo facevano chiaro che una grande novità si operava dovunque e i campi stessi ne risentivano il consenso e l’influsso: era come un derivare a spiagge ignote, un movimento lento ma sicuro e misterioso che nè egli nè altri avrebbero potuto arrestare e dal quale si sentiva invincibilmente trascinato.
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Il dottor Lorenzo gli parlava di continuo del suo Giorgio che era ritornato in patria e trionfava proprio davvero; stampava opuscoli, scriveva ne le grandi riviste scientifiche, presiedeva società e comizi: gliene avrebbe prestata la raccolta di quei giornali, tanto perchè il buon uomo si fosse fatto un concetto dei nuovi tempi, per Dio!
Invece il figliuolo di G. Giacomo ritornava quasi ogni giorno, a mezzodì, da la sua scuola del seminario, sul suo baroccino, col suo somarello a cui voleva un gran bene, e i suoi libri, legati con una cordicella. Aveva oramai vent’anni ed era un giovanotto gagliardo e docile che raccontava meravigliato al babbo ed a la mamma tutte le cose nuove che vedeva in città e faceva quei vecchi compiti, tolti da la storia romana e da le vite di Plutarco con un entusiasmo come si fosse trattato di cosa viva e di grande importanza.
Gian Giacomo, in quella gran solitudine de lo spirito si confortava pregando i suoi vecchi santi e la Madonna, tutta luminosa e lagrimosa, fra i fiori di garofani e di viole. Ella, la cara madre di Dio, avrebbe dato a gli uomini buoni vero conforto dopo queste prove di tribolazioni.
⁂
Mentre egli viveva in queste tristezze, gli intervenne un caso nuovo ed inaspettato che fu cagione di un lungo viaggio in una grande città capitale. Perchè un bel giorno giunse al suo recapito un plico che veniva da lontano; ed egli non ne conosceva la scrittura e molto meno poteva imaginare chi da quella città gli scrivesse e perchè. Aprì la busta e vide che conteneva alcuni documenti ed una lunga lettera di un notaio il quale — brevemente — gli annunciava come, essendo colà morto un certo signore assai facoltoso, senza famiglia e senza nominare eredi, fatte le debite ricerche dei più prossimi congiunti, egli, G. Giacomo, riusciva cugino in secondo grado e però era chiamato a partecipare de la eredità.
Pregavalo vivamente a venire subito per approvare la sua opera, fare quelle eccezioni che stimasse del caso e, infine, dividersi con gli eredi il patrimonio.
Questa nuova, che in altri tempi lo avrebbe lasciato indifferente, fu allora occasione di vera allegrezza. Gli venne infatti a mente di un ramo de la famiglia di sua madre, che si era stabilito in quella città al tempo del primo impero, e si risovvenne di quel suo cugino che era ricchissimo, almeno a quello che se ne diceva, perchè mai lo avea veduto nè conosciuto.
Molti, è vero, a detta del notaio erano gli eredi; tuttavia fatto il computo e depurato ogni debito e spesa, una ventina di mille lire gli sarebbero pur toccate di sua parte.
Rispose, avvisò del suo arrivo e si apparecchiò per il viaggio. Un’abbandonata sacca da viaggio fu riempita con ogni studio del bisognevole, e una mattina serena de gli ultimi di ottobre, indossato un vecchio soprabito nero che era quello de le nozze, baciò e abbracciò la moglie; e, montato sul baroccino, s’avviò a la stazione de la città. Lo accompagnava il figliuolo che guidava l’asinello e stava tutto muto e triste per la partenza del babbo. L’asinello trottava lesto su la via bianca a la prima luce del giorno; i campi erano deserti: gli alberi spogli oramai di frondi, le siepi brinate fuggivano in silenzio. Si attraversò la città ancora addormentata e furono giunti a la stazione.