Il Catilinario ed il Giugurtino/Prefazione I
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Traduzione dal latino di Bartolomeo da San Concordio (1843)
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AL CHIARISSIMO UOMO
GIORDANO DE’ BIANCHI
MARCHESE DI MONTRONE
Voglio dedicare a Voi, mio egregio amico signor Marchese, questa nuova stampa del Volgarizzamento di Sallustio di Frate Bartolommeo da San Concordio sì per darvi un segno della mia letizia per il vostro ritorno tra noi, e sì per fare che col vostro nome in fronte essa riesca più grata e di maggiore autorità alla nostra gioventù studiosa. Voi ben dovete rammentarvi che questa purissima scrittura del trecento era divenuta rarissima, non essendo stata posta se non una sola volta a stampa l’anno 1790 in Firenze, e che era tutta piena riboccante d’errori. Onde io insieme col nostro egregio amico Saverio Baldacchini avendo conferito diligentemente la versione col testo, ed ajutandoci delle varianti letture di due codici della Laurenziana, l’anno 1827 di tutte quelle gravissime mende la purgammo, e nuovamente la demmo in luce. Ora, essendo tutte spacciate le copie di quella nostra edizione, ho divisato d’imprenderne un’altra, propriamente in servigio de’ giovani che attendono allo studio della lingua e dell’arte dello scrivere. E però da Voi, che siete in quest’arte solenne maestro, e tra’ primi restauratori de’ buoni studii, sarebbemi gratissimo d’intendere se bene sonomi apposto in proporre questa versione del principe degli storici romani in esempio a’ giovani che affaticar si vogliano per divenire un giorno puri ed eleganti dettatori. Dappoichè io avviso che, se le scritture del trecento son da tenere vere e limpidissime fonti di nostra lingua, poche solo tra quelle sono da eleggere ad esempio ancora per lo stile. Conciossiachè quei primi padri del nostro idioma erano, la più parte, o idioti affatto, o uomini di poche lettere, i quali scrivevano come parlavano, e però gli umili loro concetti sono espressi con parole significative e con frasi vivacissime; ma la loro elocuzione, fuori di questi, e della naturalezza e spontaneità, non ha altri pregi, e nelle scritture di quell’età si cercherebbe invano quel secreto filo, che con bell’ordine lega insieme tutte le clausole di un discorso. Ma nondimeno si vuol far comprendere a’ giovani, e son certo che a Voi non parrà altrimenti, che da quelli conviene sceverarne alcuni pochi, i quali per forza d’ingegno e per arte escon fuori della volgare schiera, e che questi sono il Cavalca, Zanobi da Strata nella versione de’ Morali di S. Gregorio, il Passavanti, D. Giovanni dalle Celle, il Pandolfini, e Frate Bartolommeo da San Concordio. Sicchè le costoro opere possono esser trascelte non pur come fonti di purezza e proprietà di vocaboli e di frasi, ma come esempio ancora di stile. Dappoichè il Cavalca, nelle Vite segnatamente de’ Santi Padri, se non procede sempre molto ordinato nell’elocuzione, ed erra talvolta in congiungere e legare insieme i periodi delle sue narrazioni, ha sempre un’agevolezza e soavità di dettato, che li trae ed alletta; le sue descrizioni sono maravigliose per la precisione, la chiarezza e l’evidenza; ed a quando a quando alza il suo stile, e gli va dando quella forma che propriamente conviene alle sacre Omelie ed a’ Sermoni del pergamo. Zanobi da Strata, avendo tradotto dal latino i Morali di S. Gregorio, non ha difetto di legamento di periodi e di clausole nella sua versione, anzi è sempre ordinato, agevole e piano; e però può esser tolto in certo modo ad esempio di stil semplice e didascalico. Il Passavanti, essendo uomo, secondo quei tempi, di molte lettere, ed avendo in animo di svolger la gioventù dalla lettura del Decamerone, voltò in toscano il suo libro dello Specchio di Vera Penitenza, che avea da prima scritto in latino, e pose molta cura in forbirne ed ornar lo stile. Il quale ei si lavorò sopra di quello del Boccaccio; ma, essendo uomo d’indole rigida ed austera, e di forte sentire, lasciò in parte quel largo ed elaborato giro del periodo del maggior nostro prosatore, e fu tutto forza e nerbo nel suo dettato. Le Lettere di D. Giovanni dalle Celle, quantunque questo santo uomo fosse vivuto nel quattrocento, nondimeno sono sì pure di favella, che da’ più solenni critici sono tenute come scritture dell’aureo trecento, e dallo stile, che procede sempre facile e piano, ben si scorge che sono fattura di uomo non men chiaro per dottrina, che per santità. Il Governo della Famiglia del Pandolfini, contemporaneo del mentovato avanti Beato Giovanni dalle Celle, è parimente un bel tesoretto di purissimi vocaboli e di elette frasi, e per la dettatura è da seguitare ancora oggi come un sicuro esempio. Frate Bartolommeo da San Concordio, egli pure dell’ordine de’ Predicatori come il Passavanti, essendo a costui quasi al tutto simile nel genio, ne’ costumi e negli studii, e traducendo pure dal latino non sue proprie opere, ma sentenze di gravissimi autori dell’antichità, ed il Catilinario ed il Giugurtino di Sallustio, riuscì scrittor maraviglioso per la brevità e la forza della sua elocuzione. Solo, se non vado errato, e però piacemi di conferir con Voi questa mia opinione, talvolta, o per voler esser troppo puntuale e riciso in tradurre, o per non disagiarsi, come parve al Salviati, secondò troppo il latino, e l’inversione delle parole è forse più di quello patir potrebbe la nostra lingua. Ma, se questo è un fallo da appuntare a questo egregio scrittore, io son di credere che ei v’incappò men di rado nel Volgarizzamento di Sallustio, che negli Ammaestramenti degli Antichi. Pur nondimeno in quella versione, e crediamo che parimente non sia da tacere, alcuna fiata si allargò in parole più che non era mestieri, in guisa che non sappiamo intendere come egli, che era naturalmente disposto alla concisione e vago della brevità, avesse potuto tanto discostarsi dal suo consueto e proprio modo di scrivere. Laonde vorrei che i maestri ne avvertissero i loro discepoli, perchè questi in istudiare in quelle opere sapessero far tesoro di tanta purità di vocaboli, di sì gran numero di modi toscani, e di tante eleganze, che in esse imparar possono, e guardarsi al medesimo tempo da quelle lievi mende, che essi, ancora poco pratichi, stimar potrebbero leggiadrie e proprio andare del parlar toscano, da mantenere ancora a questi nostri giorni. E vorrei altresì che ben si facesse intendere a’ giovani che questo scrittore e gli altri della sua medesima età ebbero in uso di tralasciar quasi sempre l’articolo de’ nomi, e che questo oggi non si ha a fare, o sol quando si vuol dare ad un concetto una certa forza e gravità. Perocché il Boccaccio, maestro solenne di tutte le toscane eleganze, e che il primo diè regola e norma costante alla favella e forma e nobiltà allo stile, quasi mai non tralasciò gli articoli de’ nomi, nè li tralasciarono il Casa, il Firenzuola, il Caro, il Giambullari, il Gelli, e gli altri più tersi ed eleganti scrittori del decimosesto secolo. Onde io mi penso che quei buoni vecchi facessero a quel modo tra perchè allora il nostro volgare di corto era nato del latino, e manteneva ancora alcun che della materna sua forma, e perchè quei pochi che a quella età eran tinti di lettere, non avendo altri esempii da seguitare che gli scrittori latini, e questi il più delle volte essi traslatando, troppo puntualmente in ogni cosa si sforzavano d’imitarli. E, come dissi avanti, così intervenne, benchè assai di rado, pure al nostro Frate Bartolommeo, ed eziandio allo stesso Boccaccio: anzi questo singolarissimo ingegno, volendo dar leggiadria e splendidezza allo stile, che semplice e rozzo era nelle scritture di quell’età, non altrimente che Dante, agli autori latini egli pure si rivolse. Sicchè, propostosi Cicerone ad esempio, ch’è il maggiore tra quelli, e cui egli per natura sentiasi più tratto ad imitare, diè al suo periodo la larghezza, il giro, e quasi la medesima armonia del periodo di quel maraviglioso oratore. E dissi quasi la medesima armonia, perocchè il padre della toscana prosa, quantunque molto s’ingegnasse d’imitar Tullio, e con grande studio collocasse le parole ed intrecciasse gl’incisi delle sue clausole, ed oltremodo fosse sollecito della musica dello stile, pur nondimeno non diè a’ suoi periodi la cadenza oratoria. Solo, se mal non mi appongo, e, se erro, ripigliatemi pur liberamente, il grande desiderio di nobilitar la nuova favella d’Italia, ed il sommo studio, ch’egli pose negli scrittori latini, e segnatamente in Cicerone, il trassero forse ad esser talora, più che non era uopo, sollecito di aggiugner particolarità alle cose, e ad usar troppo scoperto artificio nella collocazion delle parole e nell’intrecciatura degl’incisi delle clausole, ed a cacciare il verbo quasi sempre in fine del periodo. Ma questi rari e lievi falli, i quali niuno nelle condizioni del Boccaccio cansar potuto non avrebbe, se non sono da celare a’ giovani, perchè li possano discernere, e guardarsene, non doveano meritargli il rimprovero di aver rotto gli articoli ed i nervi alla nostra lingua, che gli fu fatto da un valoroso scrittore de’ dì nostri. Anzi io porto opinione che di tante bellezze risplendono le sue Novelle, che chi si fa a studiarle quando e come si conviene, debbe trarne grande profitto. Onde voglio che mi concediate che di questo appresso io vi torni a parlare, ed ora vi proponga alcune altre avvertenze, che io vorrei di buon’ora si facessero a’ giovani nelle scuole. Dappoichè negli scrittori del trecento incontra non di rado di trovar vocaboli e modi di dire, che allora non pur si scrivevano, ma si usavano ancora parlando; e nondimeno, o per la rozzezza della lor forma, o per l’asprezza del loro suono, o perchè ne furono inventati altri dipoi più grati all’orecchio, o più significativi, vennero rigettati, o raramente usati dagli autori degli altri secoli. Il perchè conviene avvertirne sovente i giovani, affinchè, o per mostrarsi dotti delle più riposte voci e maniere della lingua, o per troppo superstizioso zelo d’imitar gli antichi, non abbiano ad ornar di queste false gemme le loro scritture. Inoltre ne’ libri del trecento, ed in quelli del cinquecento ancora, come a Voi ed a tutti i dotti è notissimo, talora non si vede usato l’apostrofo, e avanti alle parole che cominciano da im o da in si vede tolta non la vocale della parola che precede, ma di quella che siegue: ed ora, come a me pare, non è a fare nè nell’uno, nè nell’altro modo. Conciossiachè, se la scrittura dee rappresentar le parole come si profferiscono, non dicendosi oggi da’ Fiorentini, che in questo debbonci dar regola e norma, nè lo ’mperio, nè lo ’ngegno, nè la empietà, nè la amorosa visione, e simiglianti, noi non dobbiamo ora a questa guisa scrivere e profferir queste ed altre simili parole, ma apostrofando la parola che precede, e non quella che siegue. Nè vogliate credermi troppo minuto, nè diligente oltre il dovere in chiedere che tanto s’inculchino e ribadiscano queste cose, le quali, almeno in generale, sono state già discorse da altri, ed ancora da me nel mio trattatello Della maniera di studiare la lingua e la toscana eloquenza; chè il veder tutto giorno alcuni fare altrimente, mi è indizio che non sono state ancora abbastanza ripetute. E potrei farvene certissima fede mostrandovi due libri, uno venuto, sono ora due anni, in luce in Genova, che è un volgarizzamento di Sallustio, ed un altro stampato testè in Napoli, che dicesi terminato di comporre il millesettecencinquanta. Queste scritture, quantunque non sieno da confondere, nè da stimar l’una e l’altra del medesimo carato per la lingua, pure amendue son piene di tanto vecchiume di voci, e procedono con tanta contorsione e durezza di stile, che è uno sfinimento a leggerle. Non però di meno il volgarizzamento di Sallustio, dove si vede chiaro che l’autore non è punto pratico della lingua e dell’arte dello scrivere, è stato lodato ed applaudito; e del libretto stampato in Napoli gli editori non si peritano di dire che son certi di fare un presente oltre modo gradevole agli amatori delle lettere italiane, stampandolo, e che certamente sarà per la leggiadria e semplicità del dettato tenuto un ascoso parto di qualche autore del trecento. E questo giudizio tanto più dee far maravigliare, quanto che viene da uomini certamente dotti e di buon gusto, come esser debbono quelli che scrissero quel pulito ed elegante preamboletto, che va innanzi al librettino. Onde io torno pure a maravigliarmi, e lor chiedo sinceramente perdono se per amor della verità e pel bene della gioventù mi feci così liberamente a contrariare il loro avviso. E, se questo par loro che bastar non debba, voglio che del mio giudizio ne appellino a Voi, ed al Bresciani ancora, ed al chiarissimo p. Grossi: chè, essendo oggi quelli e Voi tra’ sopracciò della lingua, potete seder giudici di questo piato, ed io debbo e voglio starmi contento alla vostra sentenza.
Ma, comunque stia la cosa, io credo che ora, che l’amor della toscana eloquenza va sempre più crescendo, si abbia molto a por mente perchè i giovani non pur si guardino dalla licenza, ma non trascorrano nell’affettazione: essendo che Voi ben sapete che agli uomini sovente avviene che, volendo fuggire un vizio, incorrano in un altro. Sicchè quando i giovani passano a leggere gli autori del cinquecento, ne’ quali veramente si dee studiar l’arte del dettare, e tutte le grazie e le leggiadrie dello stile, non altamente che io dissi per gli scrittori del trecento, si ha a fare per questi ancora. E però a me pare che primamente in generale si debba far fare un giusto concetto di quel secolo agli studianti, e lor venir dichiarando che quella fu la stagion delle lettere e delle arti; che tutte le menti allora in Italia quasi ad altro non erano rivolte, che al bello; che in quella età dipingeva Raffaello, scolpiva Michelangelo, il Palladio ed il Bramante edificavano nobilissimi templi e palagi sontuosi; che molti principi e signori gareggiavan tra loro in caldeggiar le arti e le lettere, e le case e le loro corti eran sempre aperte, ed accoglievano a grande onore letterali ed artisti, ed ogni cosa risplendeva di magnificenza e di lusso. E però lo stile degli autori di quel tempo fu elaborato, largo, splendido e pomposo, ed il Boccaccio e Cicerone furono gli esemplari che tutti quasi si sforzarono di imitare. Ma, perocchè alle virtù prossimi sono i vizii, e di leggieri da quelle si sdrucciola in questi, alcuni scrittori di quella età, trasandando i giusti termini, in luogo di esser tersi, rifioriti e nobili nel dettato, furono artificiosi, ridondanti di parole, e più che di ogni altra cosa solleciti dell’armonia de’ loro periodi. E questi difetti, che sono rari e difficili a discernere ne’ migliori scrittori di quel secolo, io vorrei nondimeno che in quelli segnatamente fosser con prudenza è bel garbo mostrati a’ giovani da’ maestri. Dappoichè in questa guisa essi farebbero agevolmente intendere a’ loro discepoli quanto sia difficile l’aggiugner la perfezione in tutte le arti, e quelli, così avvertiti, e guidati quasi per mano, studierebbero in quelle opere, per tanti pregi eccellenti, senza pericolo che lor potesse intervenire di scambiar talvolta l’orpello per l’oro. Laonde, ancora che avessi a parere ad alcuno o troppo rigido, o troppo irriverente ed audace, per il bene della gioventù e delle lettere non temerò di aggiugnere che i difetti, de’ quali toccai avanti, e dissi che debbonsi discoprire a’ giovani, nelle opere ancora de’ migliori scrittori di quel secolo, vorrei propriamente che loro si venissero mostrando nelle prose del Bembo, del Salviati, del Varchi, del Castiglione, e nelle orazioni altresì, benchè più radi e lievi, del pulitissimo ed elegantissimo Monsignor della Casa. E nelle costoro scritture si dovrebbe diligentemente andare additando i luoghi, dove, oltre alla sforzata collocazion delle parole, ed al soverchio numero de’ membri delle clausole, il sopraccarico d’incisi dato a ciascun di quelli è cagione che il discorso vada come con le pastoje, e riesca sazievole ed oscuro. Dappoichè quel tanto aggiugner concetti secondarli al principal concetto di un periodo, non pur non giova ad accrescergli evidenza, forza e leggiadria, anzi nuoce: che da sì grande abbondanza di parole esso resta quasi affogato, ed il lettore è in certo modo offeso dal veder che al suo ingegno niente non fu lasciato a sopperire. Nè vale il dire che i pensieri, che sono come le ossa ed i nervi del discorso, non altrimente che i nervi e le ossa del corpo son ricoperti e fatti belli dalle carni, debbono essi pure dalle locuzioni essere ornati ed illeggiadriti. Perocchè, come il soverchio di polpa toglie al corpo dell’animale la proporzione e la grazia delle forme, così il discorso dallo strascico di vane parole e d’inutili incisi è renduto lento, affannoso e stucchevole. Ma questi difetti, torno pure a ripeterlo, debbono esser mostrati a’ giovani molto cautamente da’ maestri, e con molto giudizio; altrimenti, in luogo di ammaestrarli nell’arte, li verrebbero dirizzando alla balordaggine ed alla sfacciatezza, ai quali pestiferi vizii sono essi già sospinti dall’esempio in questo nostro secolo ciarliero e baldanzoso. Onde è mestieri il far loro intendere che il poter discoprire qualche tecca o menda in un’opera di un autore, non dee far tosto stoltamente inferire nè che quell’opera sia lavoro da dispregiare, nè che quell’autore è un autor da dozzina. Perocchè da un difetto che si scorge in uno scrittore, il quale per molte altre parti è da lodare e da ammirare, quando ben si consideri ogni cosa, che altro siamo sforzati a conchiudere, se non che per questo sol mancamento quegli dir non si può perfetto scrittore? E non di uno o di un altro autore così avviene, anzi di tutti: che agli uomini non fu conceduto di far perfette in tutto le loro opere. Laonde allo stesso Michelangiolo, detto a ragione uomo di tre anime, perchè eccellente maestro in tre nobilissime arti, fu fatto, e non ingiusto, rimprovero di mostrarsi talvolta più anatomico che pittore, e di trascorrere pure nel rozzo. Gl’intendenti e pratichi dell’arte del disegno avvertirono, come sappiamo dal Lanzi, che Lionardo da Vinci, l’immortale autor della Cena, in alcune sue opere non usci dell’antica grettezza, e l’appuntarono altresì di soverchia cura e diligenza in condurre i suoi lavori. Il Lazzarini non temè di dire che Raffaello, a cui la natura suggellò nella mente l’archetipa forma del bello, anche cadde in errori; ed è primo tuttavia, perciocchè ne commise meno che altri. Nelle maravigliose pitture del Correggio ci è stato chi non ha lodato il disegno quanto in quelle di Raffaello; ed alcun altro avrebbe desiderato più delicatezza nella carnagione delle sue figure. Il Tiziano, maraviglioso pel colorito, non fu creduto degno dal Mengs di essere annoverato tra i buoni disegnatori; ed il Vasari riferisce che, avendo egli mostrato a Michelangiolo una sua Leda, questo valente uomo gli avesse detto . . . essere un peccato che esso Vasari in Vinegia, cioè nella scuola dei Tiziano, male imparasse da principio a disegnar bene.
Ma, se si ha a far ben comprendere l’indole del cinquecento a’ giovani, e loro andar mostrando i rari e leggieri difetti degli scrittori di quel secolo, che è il maggiore della nostra letteratura e delle italiane arti, assai più grande diligenza e rigidezza si vuole usare quando quelli si fanno a studiar negli autori dell’età che a quella succedette. Perocchè Voi ben sapete che le scienze allora vennero in onore e fiorirono, ma scaddero le arti e le lettere, e tanto declinarono e si corruppero, che l’Alfieri giustamente ebbe a dire che gl’Italiani di quel secolo non iscrivevano, ma deliravano. Sicchè è forza di dichiarare a’ giovani che a quel tempo, essendo tutti gli animi rivolti alla filosofia ed alla greca ed alla latina erudizione, si credette che queste nobili e gravi materie non convenisse trattarle in volgare, ma in latino, che era tenuta ed era allora la lingua de’ dotti; e però la nostra favella, essendo sol da pochi buoni scrittori usata, se non si corruppe, sol di pochi vocaboli e di pochissimi modi di dire si accrebbe. Ma, per contrario, a quei giorni, tutti gli uomini essendo agitati da una smania irresistibile di novità, e tutti volendo mostrarsi dotti e di acuto e sottile ingegno, lo stile della prosa non meno che della poesia si guastò per modo, che chi più le sue scritture rimpinzava di sbardellate metafore, di sforzate antitesi e di squisiti e falsi concettini, più eccellente scrittore era tenuto. Da’ quali laidi vizii non si seppero al tutto guardare neppure i migliori ingegni di quell’età; onde il Segneri, il Pallavicino ed il Bartoli non ne andarono immacolati. E però, essendo questi, ed il Redi, il Galilei, ed il Bellini, i soli scrittori del seicento che io stimo che si debbano legger da’ giovani, conviene che essi sappiano come si ha a studiarli, e che i maestri lor ne mostrino i pregi ed i difetti, e ne additino le migliori opere. Onde del Segneri vorrei si facesse intendere che, se meno del Pallavicino e del Bartoli ornò il suo stile, d’altra parte fu più severo e castigato; ma non pertanto talvolta si scorge nelle sue scritture alcuna delle macule di quella rea stagione, ed ancora nel suo Quaresimale, il quale è da tener finissimo lavoro, ed il solo di questa specie, di cui a ragione si possa pregiar l’Italia. L’Arte della perfezion cristiana del Pallavicino, scrittura molto lodata e molto eccellente, pare a me che pur si debba dare a studiare a’ giovani, e la Storia altresì del Concilio di Trento, e propriamente quella stampata sotto il nome del suo segretario; e credo eziandio che non si debba trascurare di avvertire chi si fa a legger l’una e l’altra opera, che il loro autore, quantunque sia de’ più eleganti del decimosettimo secolo, pure, meno del Segneri, è immune de’ difetti del suo tempo, e che il suo dettato non assai di rado riesce alcun poco intrigato ed oscuro. Dalle innumerevoli e maravigliose opere del Bartoli, leggiadrissimo, anzi stupendo scrittore, io stimo che si abbiano a trasceglier le Istorie, e le Storie segnatamente delle missioni dell’Asia, nelle quali quella parte, dove si tocca delle cose del Mogor, è veramente un miracolo di evidenza, di forza e d’inimitabile vaghezza di stile. Ma vorrei che gli accorti maestri, ancora in questo prezioso tesoro di splendidissime gemme, non tralasciassero di farne ben ravvisare alcuna o falsa, o non del medesimo pregio delle altre, o cacciata in quel luogo con troppo studio. Perocchè quest’uomo singolare, che per molte parli o va del pari o entra innanzi a tutti gli altri scrittori d’Italia, comechè avesse avuto da natura tal forza d’ingegno da potersi preservare dal mal vezzo della sua stagione, non di meno, tratto dal desiderio di sempre ed a tutti piacere, nelle minori sue opere, più del Segneri e del Pallavicino, secondò il genio del secolo in che visse. E, quantunque nelle Storie e nella Vita di s. Ignazio ei procedesse con più severo giudizio, ciò non ostante non potè sempre cansare che scorger non si potesse che quelle scritture furon composte quando gli acuti concetti, le metafore, e le antitesi, eran l’amore e l’ammirazione di tutti. Sicchè di questo non si dee lasciar di avvertire i giovani che in quelle studiano, e diligentemente lor mostrare siffatti scappucci, ed alcuni luoghi ancora, benchè rari, dove questo egregio dettatore, strascinato quasi mal suo grado dall’abbondanza stessa della sua vena, si condusse a sopraccaricar d’incidenti alcuni suoi periodi, e però in quelli non si può lodar l’agevolezza e la grazia che mente si ammira nello stile delle sue opere. Ma de’ vizii della loro rea stagione immuni furono pur, come tutti gli altri toscani, il Redi, il Galilei, ed il Bellini, e non ci è mestieri di avvisar chi studia nelle loro opere di doversi guardar da alcun contagio. Anzi le Lettere ed i Consulti medici dell’autore del più leggiadro Ditirambo, che mai siasi scritto in Italia, sono così pure e semplici di stile, che talvolta parer potrebbero soverchiamente neglette, e si vorrebbe che il Redi, scrivendole, fosse andato meno in fretta, o le avesse un poco più carezzate con la penna. Ma, quantunque non si debba negare che alcune di esse abbiano di questi picciolissimi néi, la più gran parte sono tanto leggiadre e disinvolte, che porgono un immenso diletto a leggerle, e sono pure un potente antidoto a sciogliere lo stile di quelli che troppo s’intrigano ed avviluppano dettando. E non altrimenti si ha a pensare delle poche scritture italiane del Bellini: che le sue Lettere hanno quasi la stessa spontaneità di quelle del Redi, se non vado errato, odorano alquanto più di quelle di fiorentinità; e solo ne’ Discorsi a me pare che in qualche luogo si studii un po’ troppo a dar grazia ed avvenenza alla materia ch’egli tratta, ch’è di sua natura non graziosa e severa. La filosofica precisione, la chiarezza, ed un andar libero insieme e decoroso, sono i pregi proprii dello stile del Galilei; delle cui opere tutti giovar si possono, ed in ispezialtà gli scienziati, che oggi sì stoltamente si arrovellano e dolgono della povertà della favella, e del difetto di esempii della maniera scientifica di dettare. Ai quali dir si potrebbe ancora che imparino la lingua, che studiino l’arte di acconciamente manifestare i concetti dell’animo, e poi, essendo veramente dotti della disciplina che professano, si rendano certi che più non dovranno lagnarsi di non trovar nel nostro ricchissimo e pieghevolissimo idioma i vocaboli e le dizioni acconce a significare i loro pensieri, anzi che scriveranno in modo da esser facilmente intesi, e meritarsi plauso e lode.
Quantunque molto già mi sia disteso in questa mia lettera, e non poca noja vi abbia arrecato con parlarvi di cose che a niuno sono più note che a Voi, pur vi prego, mio egregio amico, che dobbiate concedermi che tocchi ancora di due altre, le quali non mi pajon meno importanti e gravi delle già discorse, e che non sarà certo disutile di comunicarle con voi. Perocchè, se esse parranno a voi pure di momento, o vizii da disapprovare e da correggere, più agevolmente saranno ancora dagli altri disapprovati, ed avremo a sperare di vederli quando che sia corretti. Conciossiachè gli errori, quantunque gravi, quando dal tempo e dalla consuetudine sono stati rifermati, molto difficile è lo sbarbarli. E così è intervenuto di quelli, onde vi voglio ragionare: che nelle nostre scuole, ed in quelle eziandio di tutta Italia, se alquanto meno di prima, pur si pecca ancora, e non lievemente, nel modo d’insegnar l’eloquenza. Dappoichè in alcune s’insegna solo a latinamente scrivere, in altre assai poco si attende all’eloquenza latina, e con falso e reo metodo s’insegna l’arie di scriver toscanamente. Se io volessi tutti andar divisando i difetti e gli errori che ho potuto scorgere in questa parte d’insegnamento, e volessi pur toccare delle correzioni, le quali a me pare che far vi si dovrebbero, troppo mi sarebbe forza di allargarmi in parole, e mai più non terminerei questa mia sperticata e stucchevole pappolata. Però mi starò contento solo a proporvi due emendazioni da fare alla pratica dell’insegnamento dell’eloquenza, le quali par non dovessero essere più lungamente indugiate. Nelle scuole di belle lettere, eccetto sol pochi, alcuni maestri, come se per insegnare a scrivere in italiano bastar potessero i precetti e le teoriche, sol queste vanno sponendo ai giovani, e di autori e di esempii da porger loro a studiare niente non si curano. Alcuni altri, o per ignoranza e poco giudizio, o per seguitar ciecamente la stolta ed invecchiata usanza, giammai esempii di prosa non propongono ai loro discepoli, ma solo di poesia, e malamente trascelti, ed in versi solo li vanno esercitando a comporre. Or quanto sia da vituperare, e di quanto danno torni l’una e l’altra cosa, non ci ha chi non l’intenda: chè le arti, non essendo speculative come le scienze, ma pratiche, meglio che colle astratte e sottili teoriche, cogli esempii e colla pratica s’insegnano e s’imparano. Laonde io vorrei che assai di buon’ora si proponesse a’ giovani bene eletti ed acconci esempii di ogni maniera d’eloquenza, e che questi fossero con giudizio e buon gusto disaminati, ed i pregi se ne venissero mostrando ed ancora i difetti agli studianti, e da questa disamina si facessero per bel modo emergere le teoriche dell’arte dello scrivere; le quali in questa guisa accompagnate dagli esempii riescono veramente utili ed agevoli a comprendere. Ed io, avendo, per ragione, e per esperienza di molti anni d’insegnamento, ravvisata l’utilità di questo metodo, l’ho sempre seguitato, e mi detti, non ha guari, a compilare in questa forma la seconda parte della mia Antologia, della quale ho dato già fuora il primo tomo, e spero in breve di pubblicarne a mano a mano ancora gli altri, che non saranno meno di tre, per poter comprendere tutti gli esempii delle diverse specie di componimenti. Sicchè, e per mio pro, e per il bene della gioventù e delle italiane lettere, vorrei che di questo metodo e di questo mio lavoro voi mi doveste dire il vostro avviso; che io son presto ed apparecchiato a mutare ed a correggere tutto quello che da voi non fosse stimato degno di approvazione, o che in parte almeno fosse da emendare. Ma, quanto agli esempii di poeti, che, come dissi, da molti si danno a studiare a’ giovani che imparano l’arte di scrivere in prosa, io non dubito punto che voi non vi accordiate con me in condannarli, e che non vogliate che seguitino a quelli de’ prosatori. Perocchè, se, per essere eccellente scrittore in prosa, utile e necessario è lo studio de’ poeti, la prosa si ha a studiar da prima, e principalmente da chi vuole esser prosatore, e poi si dee imparare a togliere da’ poeti quelle grazie e quelle leggiadrie che fanno la prosa più bella e leggiadra. Nè sarete parimente con me discorde che non si debba far comporre a’ giovani che imparano a dettare niente altro che misere anacreontiche, e scempii sonetti, e gelidi madrigali, ed ottave, e canzoni, che altro non hanno di poesia che il numero determinato delle sillabe de’ versi, saggiati colle dita sul naso. Anzi io son di credere, e grandemente desidero che sopra di questo mi diciate il parer vostro, che nelle scuole di rettorica debba quasi al tutto esser vietato agli alunni di comporre in poesia, o almeno raramente conceduto ed a pochi; e per contrario vorrei che lutti, ed assiduamente, venissero esercitali in iscrivere in prosa. Perocchè, lasciando star che a pochi solo la natura concede quella sacra scintilla, senza della quale si tenta invano di montare in Parnaso, di versi non abbiamo punto mestieri; chè ce ne ha, e ce ne ebbe sempre gran dovizia in Italia. Ma, per contrario, grande è il bisogno che tutti abbiamo della prosa, essendo che ancora quelli che non sono della vil plebe, e che s’intramettono solo de’ loro privati negozii, hanno l’obbligo di parlare e scrivere almeno correttamente; e di prosa pure men lorda e rozza di quella che oggi adoperano, hanno grande necessità le matematiche, la fisica, la medicina, la giurisprudenza, e la razional filosofia. Onde sarebbe ormai tempo che uscir vedessimo d’inganno quelli che ancora credono che le scienze, rigide ed austere, commesse sono, e rivolte solo alla speculazione dell’utile e del vero, non si curano e sdegnano la pulitezza e l'eleganza dell’elocuzione. Anzi io porto opinione che le scienze, le quali di lor natura sono difficili ed astruse, abbiano grande necessità di esser rendute dal modo di trattarle e sporre meno astruse e difficili, e conseguentemente richiedano che gli scienziati, prima di porsi a scrivere opere e trattati scientifici, abbiano imparato l’arte dello scrivere. La quale non è, come alcuni di essi per ignoranza credono, ed altri per celar la loro ignoranza di creder s’infingono, il saper ricercar ne’ Vocabolarii parole viete e fuori d’uso, e modi di dire squallidi ed ora non più intesi, e di questi intrecciarne affannosi e sterminati periodi, i quali richiederebbero i polmoni di Ercole per poter esser recitati, e l’acutezza di Aristotele per essere intesi. Questa propriamente è da dir l’arte d’imbrattar carta, e di empier di vanità e di noja i lettori: che l’arte dello scrivere, e niuno il sa meglio di Voi, e quella che insegna a ben disegnare un lavoro, e dargli quella general forma che al suo genere ed alla sua specie veramente conviene; a divisarne e disporne le parti nel modo che meglio risponde al fine a cui esso è ordinato, e rivestirlo di quella particolar maniera di elocuzione che è propria di quella generazione di opere. E, se essa fosse con acconcio e savio metodo insegnata, se la gioventù, prima di farsi a studiar le scienze, di greche, di latine, e d’italiane lettere si ornasse la mente, cesserebbero una volta gli errori ed i pretesti de’ filosofanti, e due gran beni ne verrebbero alle lettere ed alle scienze. Dappoichè i giovani, essendo stati guidati pel diritto sentiero, e di buon’ora avendo concepita la vera e pura idea del bello, ed imparato il conveniente modo di manifestarlo; la poesia e l’italiana eloquenza non sarebbero più lordate e guaste di strani concetti, di settentrionali fantasie, e di vili e barbare forme; e le scientifiche speculazioni e le opere di filosofia non anderebbero scalze e scarmigliate, e ricoperte di luridi cenci, come pur ci è forza di confessare che oggi esse vanno. E per rispetto alla filosofia ed alle scienze non temerò di aggiugnere che ad esse, non meno che alla poesia ed all’eloquenza, importar debbe, e può tornare utilissimo, il buono ordinamento e lo studio dell’arte dello scrivere. Conciossiachè, lasciando star che, come dissi avanti, mal si conviene la laidezza e la bruttura a quelle nobili discipline; esse non hanno sol mestieri dell’arte della parola per causar lo squallore e la viltà della veste, ma ancora più per aggiugnere il loro scopo. Perocchè, se il loro fine è di discoprire il vero, e di ammaestrar gli uomini, e se gli uomini altro modo non hanno di comunicare con gli altri i loro pensamenti, se non la parola e la scrittura, di gran pregio e sommamente necessaria alle scienze si dee tenere l’arte che insegna a ben parlare ed a scrivere. Senza che, quanto più astrusa e difficile è la materia della quale si ha a ragionare, tanto più malagevole e difficile è il trattarla, e maggior arte si richiede nello scrittore che prende a svolgerla e dichiarare; altrimente alla naturale oscurità e malagevolezza delle cose egli aggiugnerà pure quella del reo ordinamento dell’opera e dello stile. Ma, oltre a tutte queste ragioni, un’altra ce ne ha, ed un’altra ancora, che molto far ci dovrebbero solleciti e studiosi di questa difficile arte. Chiunque ha fior d’ingegno, o filologo egli sia, o dato alle scientifiche speculazioni, può bene avere osservato che le idee ed i concetti delle cose, quantunque ei gli abbia ben percepiti, pur non di meno, dovendo quelli con altri comunicare, di non lieve fatica ha mestieri: che gli è forza di nuovamente disaminarli e sottilmente discioglierli nelle loro parti, e dar loro ordine e forma acconcia per far che essi dalla sua passar possano nell’altrui mente. Sicchè questo lavoro o esercitazione non pure fa acquistar l’abilità di bene e precisamente e con chiarezza ed ordine communicar con gli altri i nostri pensamenti, ma adusa ancora l’intelletto a sottilmente, tutto disaminare ed a non istarsi contento solo ad un leggero e general concetto delle cose. E, se neppur questo bastasse a cotesti severissimi filosofanti, nemici implacabili dell’eleganza e del bello, io lor dimanderei se il bene ed il vero non sono strettamente congiunti col bello, e la fonte più limpida onde esso emerge? E, s’egli è così, i giovani adusandosi nelle scuole delle umane lettere a discernere e ritrarre il bello, non si avvezzano in certa guisa, o non si preparano almeno, e rendonsi abili all’investigazione del bene e del vero, che sono l’objetto delle scienze, alle quali, dopo delle lettere, essi debbonsi rivolgere? Ma, lasciando star le ragioni, e facendoci solo i fatti a considerare; quale è mai la cagione, e donde procede, che oggi, in tanto avvanzarsi delle scienze, ed essendo esse insegnate con più regolato ed agevol metodo, sì pochi sono quelli che in esse veramente si avanzano, e che escano della baldanzosa e nocevole mediocrità? Io so bene che molte cagioni addur se ne potrebbe; ma, quanto a me, la prima, e la principale, stimo che sia da tenere il farsi la gioventù a studiare le severe discipline o digiuna affatto, o tinta appena, e male, di lettere. E di questo potrebbe rendersi certo coll’esperienza e co’ fatti chiunque le nostre scuole di scienze visitar volesse, ed interrogare i più eccellenti professori della città nostra; i quali, senza fallo, non negherebbero di rifermar con la loro testimonianza questa mia opinione. Laonde non di lieve, ma di grande importanza sono le cose delle quali vi son venuto ragionandole possono non solo scusarmi con voi della lunghezza del mio scrivere, ma indurvi pure a non lasciarmi desiderare indarno una vostra risposta, che o rifermi o emendi questi miei pensamenti. E conoscendo io di qual animo voi siete, e quanto siete sollecito dell’onore e del prò della nostra patria, non dubito punto che dovrete farmi di questo contento, e che patirete pure che io aggiunga alcune altre cose dello studio della lingua e dell’eloquenza. Perocchè io stimo che il volgarizzamento di Sallustio che io dedico a voi, debba essere adoperato a un doppio fine nelle scuole: e come fonte di purezza e proprietà di favella, e come esempio di stil breve riciso e grave. Anzi credo che sì l’originale di Sallustio e sì la versione di Frate Barlolommeo possano essere acconci all’utilissima e necessarissima esercitazione di tradurre del latino in toscano, e del toscano in latino: che in questa guisa i maestri, e spezialmente quelli che non sono ancora al sommo pratichi dell’arte dello scrivere, avrebbero una guida certa ed una norma in correggere le traduzioni de’ loro discepoli. E per questo medesimo fine di ajutare i giovani maestri nel molto difficile loro ufficio, e per additar la via a quelli che imprendono da sè a studiar la lingua e l’arte dello scrivere, ho divisato di allogare in fine di questo libro i frammenti di Sallustio volgarizzati nel mio studio. Perocchè questi, essendo stati tradotti con molta diligenza e con la lingua ed i modi di frate Barlolommeo, potranno servir di esempio e mostrar praticamente come si ha a procedere in questa esercitazione, e che da’ padri della favella si dee toglier solo quello ch’è fresco e sano, e tralasciar gli arcaismi ed il fradiciume, che non sono oggi da cacciar nelle nostre scritture. Inoltre si possono i maestri valere ancora di questo volgarizzamento per farlo voltare in latino a’ loro discepoli, e, correggendo la lor traduzione, ajutarsi del testo di Sallustio, il quale certamente non li farà errare. Ma questo voltare in latino la versione di frate Bartolommeo, e l’originale in toscano, vorrei che si facesse fare quando i giovani sono già proceduti innanzi nell’una e nell’altra lingua, e dopo di averli bene esercitati in tradurre più Vite di Cornelio, molti luoghi de’ Comentarii di Cesare, una parte almeno del trattatello della Vecchiezza, alcuni capitoli degli Ufficii, e non poche Lettere di Cicerone. Altrimenti i giovani non pur non trarranno frutto da questa esercitazione, ma danno: che prima conviene che essi imparino da Cornelio a significar con chiarezza e proprietà di vocaboli i concetti; il particolareggiare e dare evidenza alle cose che si narrano o descrivono, da Cesare; da Cicerone le grazie e gli ornamenti dello stile; e dipoi possono utilmente addestrarsi alla brevità ed alla forza in tradurre Sallustio. E, se non si seguita puntualmente quest’ordine, del quale l’esperienza di molti anni mi ha fatto conoscere la giustezza e l’utilità, non si giugno ad acquistar l’arte di dare ai concetti della nostra mente la forma che propriamente essi richiedono, quel facile e natural legamento delle clausole in che è posto la forza e l’efficacia, e quel giro. Quella movenza, quella gravità, e quella disinvoltura e leggiadria, che a ciascuna generazion di scritture veramente conviene. Anzi non temerò di aggiugnere che l’esercitazione del tradurre, fatta al modo testè divisato, e lo studio degli scrittori regolato nella guisa che ho detto avanti, danno ai giovani una fermezza ed uguaglianza di stile che altrimenti acquistar non possono, neppure lungamente e molto affaticandosi. E, per rispetto al lavorar lo stile ai giovani, mi è mestieri di dire ancora due cose, le quali, credo, non sia da tralasciar d’inculcarle ai maestri non ancora bene esperti della loro arte. Dappoichè di molto giudizio e di finissima prudenza e lunga pratica ci è mestieri per ben guidare i giovani nello studio ed imitazione degli autori, e per poter trovare acconcio compenso ai difetti, che o quelli hanno naturalmente, o che acquistarono per reo metodo di studiare. E prima e principal cura debb’essere il far che quelli intendano come conviene che essi imitino i classici scrittori, e che non debbono prenderne un solo ad esempio, nè sforzarsi di andar quello puntualmente imitando; anzi osservare in tutti le diverse maniere di stile proprie e particolari di ciascuno di quelli, e la generale ed archetipa e distintiva forma dello scrivere italiano, della quale tutti in diverso modo partecipano. La quale da prima non è agevole a discernere, e dipoi da ’giovani ben guidati si può cominciare a subodorare, e dopo molto studio si giugne da ultimo a ben ravvisarla, e si può suggellar nella nostra mente. Nè questa, come Voi ben sapete, è da tener lieve cosa, ma grave molto e necessaria: che altrimente non si può, segnatamente da quelli che non nacquero nella bene avventurosa Toscana, acquistar quella urbanità che tanto si ammira e diletta nelle opere del Caro, nelle eleganti prose del Giordani, e nelle leggiadrissime e toscanissime vostre rime. Ma, oltre a questo, un altro ufficio ancora non men grave e difficile hanno a fare i maestri, i quali in certa guisa imitar debbono i medici, e sforzarsi di guarire i loro discepoli da ogni infermità o malsania che essi patir possano. E le malsanie e le infermità alle quali sogliono soggiacere i giovani, quando incominciano a comporre, sono di più maniere, ed a tutte si vuol trovar presto compenso, perchè, invecchiandosi loro addosso, non divengano incurabili. Onde, da prima, al disegno de’ lavori molto debbe attendere il maestro, e con grande diligenza e sottilmente deve venirlo esaminando e discoprirne tutti i difetti: chè in questa parte, più che in altra, non si può non peccar gravemente da ’giovani, i quali, ancora che fossero di ottimo ingegno, mancan dell’uso e della pratica dell’arte. La quale assai meglio che astrattamente s’insegna a questo modo, e facendola pure ravvisare nelle opere degli autori toscani, ed in quelle ancora più de’ latini e de’ greci, maestri impareggiabili di tutte le liberali arti. E l’unità e semplicità del suggetto in quelle conviene far ben discernere, ed il giudizioso ordinamento delle parti, e come ogni cosa in esse è disposta a dare svolgimento e lume al primo e general concetto dell’opera; ed il sottil magistero e l’agevolezza colla quale l’autore dà principio e s’introduce a trattar la sua materia, ed il bel garbo e la naturalezza con che al suo ragionamento ci pon fine. E si ha pure a procedere in questa guisa, e ad usar la medesima diligenza, per rispetto all’elocuzione, la quale è l’altra parte dell’arte dello scrivere non meno dell’invenzione difficile, e che molto studio richiede in chi l’impara, e gran pratica, sommo discernimento, e finissimo gusto in chi l’insegna. Il perchè mi par necessaria ed util cosa l’avvertire i maestri, i quali di corto si posero a far quest’ufficio, che in correggere i lavori de’ loro discepoli non debbano essere più solleciti della purezza de’ vocaboli e delle frasi, che della proprietà e convenienza di esse col subjetto e la materia del lavoro, e con la forma e lo stile che a quello dar si volle. Conciossiachè le dizioni e le parole che ben convengono ad una novella faceta, mal si adattano ad una pietosa, e i modi di dire accomodati al dialogo familiare sono disdicevoli ad un grave ragionamento, i motti ed i frizzi proprii della commedia spiacciono e fanno afa in un’orazione; e chi facesse parlare Epaminonda, o il Ferrucci, colle parole che il Boccaccio pone in bocca a frate Cipolla ed a Calandrino, si chiarirebbe uomo al tutto disennato. Sicchè si vuol far bene intendere agli studianti che non basta che i vocaboli e le frasi sieno pure ed usate da puri ed approvati scrittori, ma che è mestieri ancora che sieno proprie ed acconce a significare i concetti che si ha ad esprimere, ed a significarsi in quella guisa che propriamente conviene alla generazion di scrittura che si vuol comporre. Ed alla materia che si tratta, ed alla natura ed alla forma che dar si dee al lavoro che si compone, è forza ancora di por mente per ben regolare la collocazion delle parole, e l’intrecciatura de’ membri delle clausole, e la lor movenza ed il giro. Dappoichè, oltre che nella nostra lingua il traspor le parole non è disdetto, anzi conferisce a dar decoro e nobiltà al discorso; la trasposizione sovente è pur necessaria per dare naturalezza ed efficacia al concetto, e per farlo passar dalla nostra nell’altrui mente tal quale da noi fu concepito. Nè altamente si ha a pensar del periodo, il quale, se ben conviene alla magnificenza ed alla pompa oratoria, mantenendo sospesa l’attenzione dell’uditore insino alla fine, non disconviene punto al ragionamento didascalico; anzi è la propria e natural forma con la quale procede il sillogismo. Ed i membri delle clausole possono essi pure in più modi essere insieme congiunti, ed il giro o andamento de’ periodi può eziandio esser condotto in diverse guise, e, secondo che varia la natura e la forma di una scrittura, debbe altresì variare il legamento delle parti delle clausole e periodi, e variar dee similmente il giro e la movenza che si dà a quelli. Ma io non voglio, e non debbo, più avanti ragionar di queste cose, sì perchè ne ho ragionato altrove, e sì perchè sonomi proposto sol di dare alcuni generali avvertimenti, ed ancora perchè non vorrei che voi aveste a rimproverarmi che troppo abuso della vostra cortesia e pazienza. Onde spacciatamente toccherò solo di un’altra avvertenza, la quale non mi par punto da trasandare, e stimo che non debba tornar disutile ai maestri ancora novizii della loro arte, ed a quelli altresì che senza guida di maestro attendono ad imparare a bene ed ornatamente scrivere. E questa è come una medicina che ha virtù di guarire di certe infermità coloro i quali cominciano ad esercitarsi in comporre; e, non altrimenti che si dee far delle medicine, efficacissima e giovevolissima mi è stata mostrata dall’esperienza. Sicchè senza alcun dubbio o timore strettamente la raccomando: chè si vuole esser certo che, quando i giovani son proceduti alcun poco innanzi nella pratica del dettare, ma giunti non sono alla mela, sogliono dare in certi vizii, che quasi mai essi cansar non possono. Perocchè, sforzandosi eglino di scrivere con eleganza e leggiadria, cadono facilmente nell’affettazione e nell’ammanierato, i quali difetti altro non sono sè non l’eccesso del rifiorire e dell’ornare; e si trabocca in questo eccesso, quando ci sforziamo di ben fare, e, mancandoci l’arte e la pratica, trasandiamo i giusti termini. Or a guarir questo vizio il più certo e util rimedio è l’intralasciar la lettura de’ forbiti ed elaborati scrittori del cinquecento, e ritornare a quella de’ soavi e piani del trecento, e segnatamente ai Fioretti di S. Francesco, ai Fatti di Enea, alle Cronache di Giovanni Villani, ed alle dolcissime Vite de’ Santi Padri, che sono un efficacissimo antidoto a togliere ogni durezza e contorsione al dettato. E, per far che la guarigione sia più certa e spedita, si ha pure a lasciar di volgarizzare Livio, Cicerone, Sallustio, e riprender di nuovo a tradurre Cornelio Nipote, ch’è acconcio a spastojar chicchessia, o i Commentarii di Cesare, o, per chi sa di greco, le spontanee e leggiadrissime opere di Zenofonte. Ma per la grettezza, la ridondanza e lo slegamento dello stile, i quali sono vizii non men gravi e da corregger con non minor prestezza e cura, si ha a procedere con lo stesso metodo, ma si vuole usar diverse medicine. Perocchè, se un discepolo è magro e digiuno in dettare, e questa sua magrezza non viene da naturale aridità di vena e da difetto di fantasia, i quali sono morbi al tutto incurabili, ma da un falso concetto della brevità ch’egli si cacciò in mente, e da mal regolato desiderio di parere scrittor profondo e reciso; prima conviene fargli bene intendere quanto dalla magrezza è diversa la succosa brevità, e poi porgli subito tra mani, perchè gli possano allargare ed arricchir la vena, e prosatori di larga e splendida maniera, e poeti ancora. Ed in simili casi sempre mi è tornato bene il dare a leggere e studiare le orazioni del Casa, tutte le opere del Varchi, le storie del Segni, ed in ispezialtà quelle del Guicciardini e del Bembo. Nè a togliere o ad emendar questo difetto conferiscono meno la lettura assidua di Livio, e delle opere di Cicerone, e il tradurre sovente i più nobili e splendidi luoghi di questi due sfolgorati scrittori. A por freno alla ridondanza ed all’affogare i concetti in un mare d’inutili parole e di frasi che nulla significhino, molto può giovare il farsi a leggere attentamente e di continuo la Cronaca di Dino Compagni, gli Ammaestramenti degli antichi di Frate Bartolommeo, e la sua versione di Sallustio, ed il volgarizzamento degli Annali e delle Storie di Tacito del Davanzati, e tutte le altre opere ancora di questo scrittore ammirabile per la forza e la brevità. La quale, quelli che ne abbisognano, attigner la possono pure dalle stesse opere originali di Sallustio e di Tacito, e con farsi a studiarle incessantemente, e con voltarne alcune parli di latino in volgare. Lo slegamento, il quale potrebbesi dir negligenza, e viene propriamente dal non saper ben collocar le parole, e congiugnere convenientemente e con grazia i membri de’ periodi, e dall’ignorare il modo di legare, come con un sottilissimo filo, tutte le clausole di un discorso, è il maggior di tutti i vizii, e quello, che non pur fa plebea una scrittura, ma le toglie l’essenza e la forma di scrittura italiana. E questo sì grande difetto, e sì da fuggire, è l’ultimo non pertanto a poter esser fuggito, e molto studjo e fatica dimanda in chi vuol guarirsene, e di pazienza e di somma pratica e maestria ha mestieri quegli che si adopera a correggerlo. Conciossiachè ne’ lavori de’ suoi discepoli dee diligentemente andare osservando questi mancamenti, e dee lor venir praticamente mostrando come talvolta le stesse parole da essi usate, mutandole sol di luogo, altra forza o altra grazia acquistano; e come, dando altra collocazione e giacitura ai membri di un periodo, quello, da sciolto e cascante che era prima, diviene serrato e vigoroso. E sopra ogn’altra cosa deesi sforzare il maestro di far chiaramente intendere ai giovani la vera cagione, la quale fa che le clausole delle loro scritture sieno così scommesse, e dee far loro comprendere che questo procede da non aver eglino saputo svolgere ed ordinare i loro pensieri, e trovare il vero punto in che quelli tra loro si congiungono. Onde, quantunque si sieno essi ingegnati di legarli colle particelle congiuntive, queste son riescite vane ed inutilmente adoperate; che, quando i concetti non sono naturalmente congiunti, e l’uno all’altro con bell’ordine e con conveniente modo non succede, tutti i perocchè ed i conciossiachè non giugneranno mai ad ordinarli e legare. Anzi, quando l’ordine e la connessione in quelli non manca, si può e si dee pure talvolta tralasciar le congiunzioni, sì perchè, quando è chiaro il legamento tra i pensieri, si può tralasciare di esprimerlo con una particella, e sì perchè il tacerlo alcuna fiata cela alquanto l’arte, e dà forma più libera e snella allo stile. Il quale non debb’essere come irrigidito e quasi senza articoli e giunture, ma neppure sdrucito, sconnesso, e tutto cascante e sgominato; e chi pecca in questo ha a cercar rimedio al suo male nelle prose del Bembo e del Varchi, e nelle novelle del Boccaccio, che a’ giovani non è disdetto di leggere. Perocchè l’elocuzione di questo scrittore, essendo con maravigliosa arte e tutta come un musaico lavorata, e propriamente acconcia ad emendare il vizio dello slegamento e scommettitura dello stile. E, meglio che da’ mentovati autori, in questo si ha a prendere ammaestramento e norma dagli scrittori del secol di Augusto, ed in ispezialtà da Cicerone: le cui opere non pur sono un tesoro di antica sapienza, ma, essendo di diverse maniere e di svariatissimi argomenti, servir ci possono di esempio di tutte le diverse forme di dettare. Solo, e non temerò di dirlo, parmi che, porgendo a leggere le opere di Tullio a’ giovani, non si debba lor taccere che questo inimitabile scrittore, il quale fu un miracolo d’ingegno di dottrina e di eloquenza, avendo egli pure addosso di quel di Adamo, non potè cansare qualche lieve teccherella che talvolta ci fa ravvisare ch’egli era uomo. Nè queste libere mie parole faranno maravigliar, voi, o alcun altro dotto uomo; anzi son certo che ne sarò lodato da quelli e da voi, e che volete che io dichiari apertamente che il sol difetto di questo singolarissimo ingegno nelle opere didascaliche e filosofiche è il trascorrere alcuna volta dal modo didascalico all’oratorio, e nelle sue maravigliose orazioni il non aver sempre celata tutta la mirabile sua arte. Perocchè questi rari e leggeri mancamenti, i quali sono scontati da innumerevoli e singolarissimi pregi, sono difficili a ravvisare, e, non fetti manifesti a’ giovani, possono esser presi per sopraffine bellezze, ed o porgere un falso concetto dell’arte, o scemare almeno l’utilità dello studio di quelle immortali opere.
Ma questi miei ricordi, e le medicine da me proposte per curar le infermità di quelli che attendono allo studio della toscana eloquenza, riuscirebbero vane o dannose ancora, se i maestri, prima di farsi a guarirle, l’indole non si sforzassero di ben discernere ed il genio de’ loro discepoli. Onde in questa parte ancora essi hanno a seguitar l’esempio ed a tenere i modi de’ medici, i quali, chiamati a curare un infermo, non si adoperano solo a ben distinguere e diffinir la malattia, ma, prima di por mano ai rimedii, la natural complessione di quello parimente si sforzano d’investigare. Perocchè, se un maestro non pone ben mente all’indole del discepolo, può stimar difetto quella ch’e natural disposizione del suo animo, e dirizzerà alla brevità quello che naturalmente è disposto alla larghezza ed alla pompa dello stile; ed al dettar magnifico e sfolgorato un altro che la natura dispose ad esser breve e reciso; e, sforzando così la natura e l’ingegno de’ giovani, farà che mai non pervengano alla perfezione, ch’era lor dato di potere aggiugnere. E di questa trascurataggine, o poco giudizio, mi è incontrato, e m’incontra, di veder tutto giorno non pochi esempii, e non minor numero d’infelicissimi effetti. Onde, seguitando animosamente il mio costume, non ho voluto tacere, ed ho invocato il vostro ajuto, perchè dobbiate, rispondendomi, aggiugnere maggior forza ed efficacia alle mie parole. E voi certamente non vorrete, e non dovete, negarmi questo soccorso che vi chiedo: chè il neghereste non a me solo, ma alla gioventù ed alle lettere, le quali sono in troppo malvagio stato, e solo da noi, che non facciamo bottega delle lettere e delle scienze, aspettano e possono esser soccorsi. Laonde, certo, come io mi sono, che non ci ha mestieri di altri più acuti stimoli per ispronarvi a sì lodevole e santa opera; passo a parlarvi brevemente di questa mia nuova stampa del volgarizzamento di Sallustio, la quale mi porse occasione di scrivervi.
Questa scrittura dell’aureo trecento, dovendosi dare a leggere, come vi dissi che a me sembra, a quelli che attendono allo studio dell’eloquenza, ho divisato di farci molte e distese annotazioni, dove sono andato dichiarando tutte le più riposte proprietà di nostra lingua, le quali, sapute bene e con giudizio adoperare, aggiungono eleganza e gravità al dettato. Mi sono altresì fermato ad osservare le bellezze di alcuni luoghi, ne’ quali il traduttore par che gareggi con Sallustio di precisione di brevità e di forza, ed ho sovente riferite le parole del testo, mettendole a riscontro con quelle della versione, perchè i giovani ne potessero scorgere tutta l’arte ed i pregi. Nelle altre opere degli scrittori del buon secolo che infino ad ora ho ristampato, dovendo esse andar per le mani di quelli che incominciano a studiar la lingua, mutai le antiche uscite de’ verbi, rammodernai l’ortografia, e in piè delle facce del libro riferii le vecchie voci, alle quali altre ne sostituii nel testo meno squallide e rozze, ma non meno pure e significative. In questa, per contrario, quando mi sono abbattuto a simiglianti vocaboli, gli ho sol dichiarati, ed ho avvertito i lettori che quelli non sono ora da adoperare, o che in usarli si ha a procedere con somma cautela, e si vuol esser molto pratico dell’arte del dettare per saperli dirugginare ed allogare in modo nelle scritture che ivi non pajano sgarbatamente e per forza cacciati. E tenni questo modo, sì all’altro contrario, perocchè i giovani che studiar debbono in questo volgarizzamento, essendo già alquanto pratichi della favella, non si ha ad usar con esso loro le medesime cautele, necessarie a quelli che sono novizii o al tutto sori delle cose della lingua. Ma, se niente non mutammo nel testo, non ci siamo nondimeno fatto coscienza di trarne fuori solo alcune parole, che nella prima stampa eran chiuse tra parentesi, le quali chiaramente si scorge che son chiose, o dello stesso autore, o di alcun altro che copiò dipoi il libro. Non per tanto non volemmo al tutto tralasciarle; e però le abbiamo riferite in piè di pagina, contrassegnandole co’ caratteri del nostro alfabeto.
Ancora, come avanti ho detto, al Catilinario e dal Giugurtino mi piacque di aggiugnere pure i Frammenti di Sallustio, i quali sono stati tradotti nel mio studio, e con amore e diligenza limati. E spero che ne altri ne voi mi vorrete di questo riprendere: che, così facendo, non ho avuto in animo di mostrare che si può agguagliar l apurezza, la spontaneità e la grazia de’ padri della favella, ma sonomi sforzato sol di porgere un pratico ammaestramento ai giovani, i quali non hanno da cui prender norma e consiglio ne’ loro studii. Sicchè come propriamente ordinati a questo fine io desidero che li consideriate; e però vi prego di rendervi certo che mi farete cosa gratissima di mostrarmene i difetti, che a me han potuto sfuggire, perchè, tornandoci sopra con più fine lima, meglio io li possa pulire, e proporli men rozzi in una seconda edizione in esempio alla gioventù studiosa. Per il cui amore, prima di far fine, torno istantemente a chiedervi che ajutar mi dobbiate de’ vostri consigli; i quali, se a me, già maturo di anni, poca utilità arrecar possono, molto profittevoli saranno per riuscire ai giovani, i quali con puro e virile animo dar si vogliono allo studio della toscana eloquenza. Fate di star sano, e mantenetemi sempre la vostra amicizia, alla quale me e questo mio libro offero e raccomando.