I malcontenti/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camera della signora Leonide.
La signora Leonide e Cricca.
Cricca. La signora Felicita, se si contenta, vorrebbe venire a riverirla.
Leonide. Sì, sì, verrà a restituirmi la visita; ditele che è padrona. (Cricca parte) Giacchè si è differita da noi la partenza, avrò tempo di riceverla e di godermela un poco. Poverina! aveva quasi le lagrime agli occhi, quando parlava meco. Si vede che la divora la invidia, ma le conviene soffrire. S’io fossi in lei, non ci vorrei stare io ad una condizione sì miserabile. Piuttosto mi contenterei patire tutto il resto dell’anno, ma da questi giorni s’ha da andare, s’ha spendere, s’ha da divertirsi. E non occorre che dicano: si fa quello che si può. S’ha da fare quello che fanno gli altri, e più degli altri, se fia possibile ancora.
SCENA II.
La signora Felicita e la suddetta.
Felicita. Non parte ancora la signora Leonide? Serva sua.
Leonide. Umilissima. Si è differito alla sera per maggior comodità. Di giorno fa ancora troppo caldo; abbiamo poi il benefizio della luna, che è un piacere viaggiar di notte.
Felicita. Quanto goderei che differissero sino a domani.
Leonide. Perchè? ha qualche cosa da comandarmi?
Felicita. Obbedirla sempre. Non signora, ma domani avrei l’onore di poterle servire di compagnia.
Leonide. Per dove, signora Felicita?
Felicita. Per campagna, signora Leonide. Sa che i beni della nostra casa non sono lontani dai suoi. Potremmo1, s’ella si degnasse, fare una carrozzata insieme.
Leonide. Che dunque va ella pure in campagna?
Felicita. Oh sì, signora. Non vuole? Sarebbe bella che l’autunno non si andasse un po’ a villeggiare. Ci vanno tanti, che non hanno un palmo di terra. Meglio ci possiamo andar noi, che abbiamo case e poderi.
Leonide. Non ci è mai stata per altro in villeggiatura.
Felicita. Perchè finora non ho voluto andarvi.
Leonide. Ed ora le è venuta la volontà perchè ci vado io, non è egli vero?
Felicita. Oh, pensi lei! Io non sono di quelle, signora. Grazie al cielo, non ho motivo d’invidiare il bene degli altri. Alla nostra casa non manca niente. Credo che ella lo sappia, quanto lo so io, chi siamo e chi non siamo.
Leonide. Sì, anzi... favorisca. Va con quel vestito in campagna?
Felicita. Perchè no? Non è egli proprio? Non è una cosa civile?
Leonide. Mi perdoni. Si renderà ridicola con quel vestito in campagna.
Felicita. È forse troppo? Le par troppo ricco?
Leonide. Vede, signora Felicita, che non sa niente? Non è alla moda. È da città, e non è da campagna. Vede il mio? Così va fatto. Tutte così lo portano, e chi non ha il vestito alla moda, non occorre si metta in impegno. Io non vi anderei certo in villa con un abito antico.
Felicita. Credo di aver il modo di potermelo fare un abito come quello.
Leonide. Come questo non sarà così facile. È di buon gusto, sa ella? Il mio sarto, che veste le prime dame della città, mi assicura che il simile non l’ha fatto in quest’anno.
Felicita. Io non ci vedo poi questi gran miracoli.
Leonide. Che! mi burla? Perdoni, signora Felicita; ella non se ne intenderà poi tanto. Per altro...
Felicita. Qual è il sarto che glielo ha fatto?
Leonide. Monsieur Lolì. Lo conosce?
Felicita. Se lo conosco! Mi ha fatto questo che ho in dosso. Oh, guardi un poco!
Leonide. Non so che dire. Quand’ella lo dice, sarà. Ma quello non mi pare il taglio di monsieur Lolì.
Felicita. Non sono capace di dire una cosa per un’altra. L’ha fatto egli medesimo colle sue mani.
Leonide. Vi è una grandissima differenza. Può anch’essere che venga dal taglio di vita.
Felicita. Oh, oh, in quanto alla vita, cara signora Leonide, non mi pare di essere stroppiata.
Leonide. Non dico questo. Ma non ci vedo il buon gusto.
Felicita. Pare a lei così, perchè il mio vestito non è da campagna.
Leonide. Sì, è vero; le cose compariscono buone o cattive, secondo in che vista si prendono. Per città non è cattivo quell’abito, ma in campagna non la consiglierei di portarlo.
Felicita. Io son capace di farmene uno a bella posta, subito subito.
Leonide. Per quando?
Felicita. Per domani.
Leonide. Monsieur Lolì non glielo fa in un mese.
Felicita. Coi denari si fa tutto, signora.
Leonide. Vede questo? Venti giorni me lo ha fatto aspettare.
Felicita. Col denaro alla mano, anche i sarti sanno far delle meraviglie.
Leonide. Se volessero denari, io li pago subito. Non sono di quelle che li fanno tornare più d’una volta. Li pago anche prima, se vogliono.
Felicita. (Il mondo non dice così per altro). (Ja sè)
Leonide. È per questo sono servita bene, perchè pago subito.
Felicita. Il signor zio ha questa massima anch’esso. Vuol godere dell’avvantaggio, ma paga subito.
Leonide. È così noi, si paga subito.
SCENA III.
Cricca e dette.
Cricca. Signora, è qui monsieur Lolì che aspetta...
Leonide. Che cosa vuole? Ditegli che ora non ho bisogno di lui.
Felicita. Cara signora Leonide, lo faccia passare; che sentiremo un poco se è possibile d’aver quest’abito per domani.
Leonide. Compatisca, signora. Per ora non lo faccio passare. Sono un poco disgustata con lui. Sarà venuto a domandarmi scusa, eh? (a Cricca) Ditegli che al mio ritorno ci accomoderemo.
Cricca. È venuto con il conto, signora...
Leonide. No, per ora non voglio far niente. (a Cricca) Gli avevo ordmati due vestiti da città per l’inverno, mi ha portato le mostre, ed ora mi averà fatto il conto della spesa. Sono così io; voglio vedere prima quello che devo spendere. (a Felicita) Ditegli che per ora non ho comodo; e che al mio ritorno si farà ogni cosa, andate. (a Cricca)
Felicita. Galantuomo, con licenza della padrona, dite a monsieur Lolì che vada giù da me ad aspettarmi, che gli ho da parlare. (a Cricca)
Leonide. Mi faccia questo piacere, signora Felicita: per questa volta non si stia a servire da lui; ho piacere che si mortifichi un poco la sua impertinenza. Già per domani non glielo fa certamente. Per quest’anno io la consiglierei a servirsi di questo che ha in dosso, che finalmente poi è un abito buono; è vero che non è all’ultima moda, ma ne vedrà degli altri così.
Felicita. Bene, bene, farò come dice lei. (Che invidia! Non vorrebbe che le altre si vestissero come veste lei!) (da sè)
Leonide. Andate, licenziatelo, e ditegli che al mio ritorno lo farò avvisare. (a Cricca)
Cricca. Sì signora. (Ho capito: non sa come fare a pagarlo). (da sè)
Felicita. (Già or ora lo manderò a chiamare dalla bottega). (da sè)
Leonide. (Non avrei mai creduto che mio fratello avesse così pochi denari). (da sè)
Felicita. Oh signora Leonide, le leverò l’incomodo.
Leonide. Ella non incomoda; favorisce.
Felicita. Le auguro buon viaggio; si diverta bene, e avrò l’onore di riverirla in campagna.
Leonide. Se vuol venire da noi, è padrona.
Felicita. Chi sa? Può essere che in passando mi prenda la libertà di scendere un poco da lei.
Felicita. Serva umilissima, signora Leonide. (partendo)
Leonide. Serva divota.
SCENA IV.
Il signor Ridolfo e le suddette.
Ridolfo. Oh signora Felicita, dove si va?
Felicita. Levo l’incomodo alla signora Leonide. Sono venuta a far il mio debito.
Ridolfo. Troppo gentile, signora. Prima ch’io parta, sarò a riverirla, e a ricevere i suoi comandi.
Leonide. A che ora partiremo, signor Ridolfo?
Ridolfo. L’ora non l’ho per anche fissata.
Leonide. Fissatela. Ci vuol tanto? Prima avete detto dopo desinare. Poi alla sera. Volete aspettare la notte? Si può partire quando tramonta il sole.
Ridolfo. Si partirà, quando si potrà. (E se non vengono i mille scudi, non si partirà). (da sè)
Felicita. Diceva io alla signora Leonide, che se avessero differita la loro partenza a domani, avremmo2 avuto la fortuna d’andar insieme.
Ridolfo. Davvero? Differiamola dunque. (a Leonide)
Leonide. Non signore, non signore, non si può differire. Si è mandato a dire agli altri che si partirà questa sera; volete che ci trattino da pazzi?
Ridolfo. Niente, cara sorella, non vi confondete. Manderò io da tutti: alcuni anzi avranno piacer di restare. Questa sera vi è la commedia nuova.
Felicita. Oh sì, questa sera vi è la commedia nuova.
Leonide. Pensate voi, se per una scioccheria simile s’ha a differire la nostra partenza.
Ridolfo. Io ci ho tutta la mia passione per le commedie; restiamoci, cara sorella.
Leonide. Se volete restar voi, restateci; io me n’anderò con tutta la compagnia.
Felicita. Lo sapete, signor Ridolfo, chi sia l’autore della commedia nuova di questa sera?
Ridolfo. Non signora, non lo so. Sento dire che sia un autore novello, che per la prima volta si espone.
Felicita. Ora sappiate che quest’autore novello è il signor Grisologo, mio fratello.
Ridolfo. Meglio. Restiamoci, signora Leonide.
Leonide. Oh, oh, sarà una bella cosa davvero! (ironicamente)
Felicita. Non ne ha più fatto; per altro sento dire che sia una bellissima cosa.
Leonide. Quasi, quasi ci resterei; ma non è possibile, signor Ridolfo, bisogna andar per forza.
Ridolfo. Perchè per forza?
Leonide. Non lo sapete che questa mattina per tempo si sono mandati in villa tutti i letti, e che non vi è da dormire nè per noi, nè per la servitù?
Ridolfo. Cospetto di bacco! non me ne ricordavo.
Leonide. E di più abbiamo il signor Roccolino, che da noi non si parte più.
Ridolfo. Questo è un inconveniente. (E se non si trovano i mille scudi, vuol esser bella!) (da sè)
Felicita. (Che ricchi signori! Fanno passeggiare anche i letti!) (da sè.)
Leonide. Ora vedete se necessariamente s’ha da partire.
Ridolfo. Così è, signora Felicita, ci conviene partire.
Felicita. Pazienza. Sfortuna mia, questa.
Ridolfo. Sfortuna mia grandissima, perdendo la bella sorte di una così amabile compagnia.
Leonide. La signora Felicita ci verrà a ritrovare in campagna.
Ridolfo. Oh fosse vero! Non mi potrei bramare maggior contento. Venga a stare un poco da noi.
Felicita. Se mi sarà possibile, ci verrò volentieri.
Ridolfo. Mi spiace infinitamente di perdere questa commedia.
Leonide. Il signor Grisologo la porterà con lui in campagna; e ci farà il piacere di leggerla.
Felicita. Perchè no? Questo si potrà fare.
Ridolfo. Ma non si potrebbe sentirne qualche scena anticipatamente?
Leonide. Quando?
Ridolfo. Oggi; prima che si parta.
Felicita. Glielo dirò, e lor signori saranno tosto avvisati. Serva umilissima.
Leonide. Sì, sì, verremo a ridere un poco.
Felicita. (Sguaiataccia! se non fosse per suo fratello, non ci metterei piede in casa sua). (da sè, e parte)
SCENA V.
Il signor Ridolfo e la signora Leonide.
Leonide. Che ne dite? Ha sentito che noi andiamo in campagna; si è messa al punto di volervi andare anche lei.
Ridolfo. Ho piacere io di quest’incontro. Fatele buona cera alla signora Felicita, a suo padre ed a suo fratello.
Leonide. Perchè? Abbiamo forse bisogno di loro, noi?
Ridolfo. Cara sorella, sapete che sono genti ricche; la signora Felicita avrà una grossa dote, e mi comoderebbe moltissimo se potessi io sposarla.
Leonide. Sposarla? Pensa ad ammogliarsi il signor fratello, e non pensa a maritar la sorella? Fino che ci sono io in questa casa, non ha da venir altra donna. Non voglio cognate, non voglio padrone che mi comandino. Accasate me prima, e poi penserete a voi, signor Ridolfo carissimo; e mi pare che a me dovreste aver di già pensato. Sono negli anni della discrezione, sapete; e tutti si maravigliano che una giovane, come me, non abbia ancora ritrovato marito. Grazie al cielo però, non vi sarà nessuno che creda provenire da me. Grazie al cielo non ho difetti, e delle giovani come me, al giorno d’oggi, se ne trovano poche. Ell’è che io non ci penso gran cosa! che godo la mia libertà, e di legarmi vi è ancora tempo. Ma se pensate a prender moglie, maritatemi subito, subito, che non ci voglio star un’ora con lei; e se non me lo troverete voi il marito, me lo saprò trovare da me, che grazie al cielo ne ho più di dieci che mi vorrebbono, e posso scegliere, e posso vantarmi di dire che son sul fiore, e felice quello che mi potrà avere. (parte)
Ridolfo. La lascio dire, e me la godo, e non dico niente. Felice quello che potrà aver questa bella gioja. (parte)
SCENA VI.
Camera della signora Felicita.
La signora Felicita e Grilletta.
Felicita. Tant’è. Grilletta, sono nell’impegno, e voglio ad ogni costo aver questa soddisfazione. Mi dicono che quest’abito non è proprio per andar in campagna; ne voglio uno a proposito, e lo voglio per domattina.
Grilletta. Farlo per domani è impossibile.
Felicita. Non se ne potrebbe trovare uno fatto?
Grilletta. Non è così facile trovarlo che le torni bene.
Felicita. Da oggi a domani si può assestare. Troviamo il vestito sul gusto di quello della signora Leonide; manderò a chiamare la sarta, ed ella lo ridurrà per l’appunto.
Grilletta. Come s’ha a fare a ritrovar ora questo vestito?
Felicita. Oh, guardate la gran faccenda! S’ha a cercare da tutti i rigattieri della città, fino che venga fatto di ritrovarlo. Andateci voi; ditelo a madonna Fabrizia che ci vada ella pure, e fate che si trovi, perchè lo voglio.
Grilletta. Si cercherà e si farà il possibile per trovarlo; quanto s’ha da spendere?
Felicita. Quel che vale.
Grilletta. Può valer poco e può valer molto.
Felicita. Si pagherà quel che vale.
Grilletta. Compatisca; così per un po’ di regola: quanti denari si trova avere?
Felicita. Denari? Sapete pure ch’io non ne ho.
Grilletta. E per questo diceva io, come c’impegneremo, signora?
Felicita. Ho bene il modo da ritrovarne.
Grilletta. Come?
Felicita. Ho tutti i miei vestiti da inverno che ora non si portano. Si possono dare inm baratto.
Grilletta. Venderli?
Felicita. Non dico venderli io. Ma si possono dare al rigattiere medesimo, se li vuole, e quando torno di villa, rendergli il suo vestito con quello che sarà pattuito, ovvero mandarli al monte e al mio ritorno ricuperarli.
Grilletta. E se lo sa il signor zio? Poveri noi.
Felicita. Come l’ha da sapere? Egli non viene a vedere nel mio armadio quel che c’è o che non c’è3. Se voi non lo dite, non lo può sapere nessuno.
Grilletta. E se il diavolo facesse che il vestito preso dal rigattiere fosse poi conosciuto?
Felicita. Ci ho pensato a questo. Gli muteremo la guarnizione; o si farà in qualch’altra maniera per fargli cambiar figura.
Grilletta. Cara signora padrona, e vorrà ella mettersi in dosso un vestito che sa il cielo chi l’avrà portato?
Felicita. Oh cara Grilletta, sarò la prima io a farlo? Come campano i rigattieri? E sono tanti, e si fanno ricchi prestissimo. Le cose si stimano, quando abbisognano.
Grilletta. Andiamo dunque, e principiamo a girare.
Felicita. Portatevi bene; fate prestino, e ho preparato una galanteria da donarvi.
Grilletta. Farò il possibile per contentarla. (Faccio il conto da me4, che le darò ad intendere d’aver girato. Queste figure non le faccio certo). (da sè, e parte)
SCENA VII.
La signora Felicita, poi il signor Grisologo.
Felicita. Se andiamo in villa, so ben io che con qualche cosa ritornerò in città. Mio padre, mio fratello mi hanno assicurato che venderanno del grano e del vino, senza che il signor zio lo sappia, e anch’io ne averò la mia parte.
Grisologo. E voi non mi dite niente, signora sorella?
Felicita. Di che?
Grisologo. Ho veduto ora il signor Ridolfo...
Felicita. Appunto. Vi ha egli detto che vorrebbe sentire qualche scena della vostra commedia?
Grisologo. Me l’ha detto. Ma mi fa torto a andarsene questa sera. La potrebbe sentire in teatro.
Felicita. Non può restare, lo sapete il perchè?
Grisologo. Non so nulla io.
Felicita. Perchè hanno mandato i letti in campagna. Oh, guardate se sono ricchi.
Grisologo. Non è tutt’oro quello che luce. Noi potremmo fare una bella figura, se non fosse l’avarizia di nostro zio; ma sentite, ora spero d’aver ritrovata la miniera dell’oro; se questa commedia piace, ne voglio far tante che non avrò bisogno di nessuno per divertirmi.
Felicita. Siete poi sicuro ch’ella debba piacere?
Grisologo. Son sicurissimo. Oh che piena vi sarà questa sera in teatro! A quest’ora non vi è da ritrovare un palchetto, chi volesse pagarlo dieci zecchini.
Felicita. Credo ancor io che la curiosità farà empire il teatro, tanto più che si sa essere la commedia di un autore novello; ma tanto peggio per voi, se all’universale non piace.
Grisologo. Ha da piacere sicurissimamente. Tutti quelli ai quali ho comunicato il disegno mio, tutti me lo hanno applaudito. Si sono vedute delle commedie alla francese, alla spagnola, all’italiana, e sino alla foggia latina e alla foggia greca. Ora io sarò il primo a esporre sul teatro italiano una commedia all’inglese. Ho preso per esempio il celebre Sachespir, che è stato il primo a dirozzare il teatro di quella nazione; e in oggi, quantunque antico egli sia, lo stimano assaissimo in Inghilterra, ove vi sono tanti grand’uomini, tanti uomini insigni in ogni genere di sapere.
Felicita. In che consiste questa vostra magnifica imitazione?
Grisologo. Vi dirò qualche cosa per compiacervi. Lo stile mio, che mi renderà singolare al mondo, consiste in una forza di dire vibrato, ampolloso, sonoro, pieno di metafore, di sentenze, di similitudini, colle quali ora m’innalzo alle stelle, ora vo terra terra radendo il suolo. Non mi rendo schiavo della dura legge dell’unità. Unisco il tragico ed il comico insieme; e quando scrivo in versi, mi abbandono intieramente al furore poetico, senza ascoltar la natura che con soverchi scrupoli viene da altri obbedita, lo credo averlo seguito assai bene. Ho impiegato tutto il mio studio nella fluidezza del metro, nella vibrazion della rima, e vedrete con quale artifizio abbia studiato a tessere i primi versi per far risaltare i secondi.
Felicita. Spiacemi infinitamente che forse non averò il piacer di sentirla: vedrete che il signor zio non vorrà che io vada al teatro.
Grisologo. Oh sì, sarebbe questa una stiticheria madornale! Si tratta d’un suo nipote, dovrebbe venirci egli pure. Tanto più che ho bisogno di persone che mi facciano un po’ di partito. Ho procurato io cogli amici, ai caffè, ai ridotti, di guadagnarli. Ho pagato qualche cena, qualche merenda. Se mi è stata regalata qualche bottiglia, me l’ho posta sotto al giubbone e l’ho fatta bevere ai miei parziali. Ma i miei di casa ci dovrebbono essere. Essi con più cuore degli altri potrebbono battere mani e piedi, e fracassare il palchetto ogni quattro versi almeno.
Felicita. Se ci verrò, non dubitate, batterò certo io; ma intanto, sul dubbio di venirvi o no, fatemi sentir qualche cosa.
Grisologo. Bene, coll’occasione che leggerò la commedia al signor Ridolfo, alla signora Leonide e a qualcun altro che non può venire a sentirla, ci sarete anche voi e la sentirete.
Felicita. Mandiamolo a dire dunque...
Grisologo. Sono avvisati. A momenti scenderanno giù da noi, e si leggerà la commedia. Con quest’occasione, se qualche cosa sentirò che non torni bene, avrò tempo di accomodarla.
Felicita. Prego il cielo che riesca; prima per l’onor vostro, e poi per poter andare un po’ in villa. Me l’avete promesso.
Grisologo. Sì, e ve lo torno a promettere.
Felicita. Ma ci anderemo noi subito?
Grisologo. Subito.
Felicita. Domani?
Grisologo. Domani.
Felicita. Mi faccio un abito nuovo, sapete.
Grisologo. Bisognerebbe che me ne facessi uno ancor io.
Felicita. Ma badate che coi dodici zecchini non si può far tanto.
Grisologo. È vero, si fa poco con dodici zecchini. Ma quando saremo in campagna, il fattore farà a modo nostro.
Felicita. Zitto, che viene il signor zio.
Grisologo. Se lo sapesse, poveri noi!
Felicita. Come faremo andare, ch’ei non lo sappia?
Grisologo. Aspetteremo che non ci sia.
SCENA VIII.
Il signor Geronimo e detti.
Geronimo. Riverisco lor signori.
Felicita. Serva sua.
Grisologo. Servitor suo umilissimo.
Geronimo. Quando si va in campagna, padroni miei?
Felicita. In campagna, signore? Non so niente io.
Geronimo. Eh? quando si va, signor nipote?
Grisologo. Non si anderà, se vossignoria non vuol che si vada.
Geronimo. Eppure, senza che la mia signoria lo voglia, so che si vuol andare.
Grisologo. Chi v’ha detto questo, signore?
Geronimo. Eh? (verso Felicita)
Felicita. Dice a me? Non so niente.
Geronimo. Certo, signori sì; ho saputo per via di quei garbati signori che stan qui sopra, che la famiglia degnissima del mio signor fratello sta sulle mosse per andar in campagna.
Grisologo. Quei signori ci hanno fatta l’esibizione...
Felicita. Finalmente, se ci va il signor padre...
Grisologo. E non si spende...
Felicita. La compagnia è di gente onesta e civile...
Grisologo. (Non dice niente...). (piano a Felicita)
Felicita. (Via). (piano a Grisologo)
Geronimo. Ma! così è; il mal esempio è la rovina delle famiglie. Pretendereste di far voi pure quello che fanno gli altri, eh? Poveri sciocchi. Vadano, vadano quei signori in campagna. Io so quel che si dice di loro. So io lo stato in cui si trova il signor Ridolfo. Con queste orecchie ho sentito testè il sarto francese, monsieur Lolì, lagnarsi della signora Leonide che non l’ha pagato.
Felicita. Per il vestito da viaggio forse?
Geronimo. Sì signora, per il vestito da viaggio. Essi si divertiranno in villa, e qui si faranno delle belle canzoni sul loro modo di vivere. E voi altri vorreste accompagnarvi con questa sorte di gente? In casa vostra non manca il bisognevole, anche con abbondanza. Qui non viene alcuno a picchiare all’uscio per essere pagato; non si fanno tornare i creditori due volte; non si fa mormorare. Ma sapete che cosa ci mantiene in riputazione? Non le entrate, che sono poche; non i negozietti ch’io faccio per migliorarle; ma la buona regola, la prudenza e l’economia. Senza di questa, poveri voi. Poveri voi, se non aveste altro che vostro padre. So io lo studio che mi costa il reggere questa barca. Ma sono vecchio, figliuoli miei, sono vecchio. Poco ancor posso vivere, e però, prima di chiuder gli occhi, vorrei vedervi in istato di non aver bisogno dell’aiuto di vostro padre. Egli non è buono per sè, molto meno sarebbe al caso per regger voi. Cara Felicita, ho qualche partito per voi; penso accasarvi con fondamento da vostra pari. Ma voi non vi stancate di essere una figliuola prudente, come stata siete sinora; e voi, nipote carissimo, è tempo che vi determiniate a qualche cosa di sodo. I vostri studi li avete fatti. Vi comprerò una carica, se v’inclinate; vi addottorerò, se il volete; credetemi che vi amo da padre, e più assaissimo di vostro padre, ne altro esigo da voi che buon amore, soda prudenza e discreta rassegnazione.
Felicita. Per me, signore, se volete accasarmi, sarò contenta.
Geronimo. Ho tre o quattro partiti, vi dico, e di questi non dubitate ch’io non sappia scegliere il meglio.
Felicita. Perdonatemi, signor zio, vi vorrei dire una cosa.
Geronimo. Dite; parlate con libertà.
Felicita. Fra questi partiti vi sarebbe per sorte quello del signor Ridolfo?
Geronimo. Il signor Ridolfo? Il signor Ridolfo? Fino che io son vivo, non vi mariterete al certo col signor Ridolfo, nè con altro simile a lui. Il signor Ridolfo fa le belle villeggiature; ma i creditori l’aspettano, per augurargli il buon viaggio. Ora capisco l’intreccio della favoletta. Sono invitati per andar in campagna, eh? Oh che bel villeggiare coll’amante al fianco! E il fratello il comporta, e il padre tien mano. Pazzi, pazzi quanti che siete.
Felicita. Per me, non dico nè di volere, nè di non volere; sono stata a tutto finora, e vi starò ancora per l’avvenire. Già di me ha da essere sempre così, sempre schiava, sempre avvilita, sempre sgridata; cacciatemi in un ritiro, che non voglio più saper niente di questo mondo. (parte)
SCENA IX.
Il signor Geronimo ed il signor Grisologo.
Geronimo. La sentite la scioccherella? disperazioni, disperazioni. Quando le figlie non hanno quello che vogliono, danno nelle smanie; vogliono rinserrarsi. Meriterebbe ch’io la rinserrassi davvero; sentireste allora come griderebbe no no.
Grisologo. Mia sorella è poi una buona pasta. S’accomoda facilmente a tutto. Due buone parole servono a consolarla.
Geronimo. Buone parole e buoni fatti da me non le mancheranno. Sia savia, e non dubiti niente; e voi, nipote, che cosa pensate di fare, giacchè siamo su questo proposito?
Grisologo. Io, signore, spero d’averlo trovato il mio impiego.
Geronimo. Sì? L’ho a caro. Ma vorrei ben saperlo ancor io.
Grisologo. Domani ve lo saprò dire.
Geronimo. Domani?
Grisologo. Sì signore, domani, e forse ancor questa sera.
Geronimo. E non si potrebbe saperlo un po’ prima? Ora, per esempio, non si potrebbe saper qualche cosa?
Grisologo. Ora ve lo dirò anche io; già s’ha da sapere, e avrò piacere che anche il signor zio questa sera mi favorisca.
Geronimo. Dove? a far che?
Grisologo. Questa sera i comici rappresentano una mia commedia...
Geronimo. Una commedia? Rappresentano una vostra commedia? E questo il bell’impiego che vi siete trovato? Sciocco! una commedia eh? Che vi credete che sia far una commedia, lo stesso che fare una canzone, un sonetto? Quando avete studiato l’arte di far commedie? Alla prima, subito, schicchera una commedia e la dà ai comici da recitare. Oh sì, che vi farete onore. Vorreste ch’io pure, eh? fossi presente alle fischiate che vi faranno?
Grisologo. Signore, voi non mi credete capace...
Geronimo. No, non vi credo capace. Uomini consumati vogliono essere a tal esercizio. Mi sono dilettato anch’io di commedie, e, vecchio come sono, quando si fanno delle cose buone... L’avete fatta vedere a nessuno questa vostra commedia?
Grisologo. Non signore, a nessuno.
Geronimo. E vi arrischiate a esporla così?
Grisologo. Oggi sono in impegno di leggerla a qualcheduno.
Geronimo. Dove?
Grisologo. Qui in casa, se il signor zio si contenta.
Geronimo. Sì, leggetela; se potrò, ci sarò ancor io a sentirla. Posto che abbiate fatto la bestialità di darla, almeno non vi porrete in ridicolo. Stimate meglio la vostra riputazione.
Grisologo. Mi danno dodici zecchini; non li vorrei perdere.
Geronimo. Imprudentissimo! stimate dodici zecchini più della vostra riputazione? Ve li hanno dati questi danari?
Grisologo. Non signore, me li daranno.
Geronimo. Quando?
Grisologo. Domani.
Geronimo. Piaccia o non piaccia? Vada mal, vada bene?
Grisologo. S’intende quando piaccia.
Geronimo. Voleva ben dire io, che i comici, che sanno il viver del mondo, volessero arrischiare sì malamente il denaro loro. Povero sciocco! Se la commedia va male, voi avrete il danno e le beffe.
Grisologo. La commedia mia anderà bene.
Geronimo. Chi lo dice?
Grisologo. Lo dico io, signore, e non parlo senza il mio fondamento. Ho letto, ho veduto, ho studiato; so quel che faccio, so come scrivo, e in poco tempo vedrete il nome mio stampato, vedrete il mio ritratto in rame, e forse forse mi sentirete chiamar quanto prima il nuovo riformatore: il Sachespir italiano. (parte)
SCENA X.
Il signor Geronimo, poi il Procuratore.
Geronimo. Costui ha letto il teatro inglese, e s’è innamorato dello stile di Sachespir. Chi sa se averà preso il buono o il cattivo di quest’autore?
Procuratore. Si può riverirla, signor Geronimo?
Geronimo. Oh signor dottore, favorisca. E padrone. Che buon vento? Quant’è che non ci vediamo?
Procuratore. Ella ha i suoi affari, io ho i miei. Per altro non manco del mio rispetto, e dove potessi obbedirla...
Geronimo. Lasciamo le cerimonie e parliamoci da buoni amici. Vi occorre nulla?
Procuratore. Sarebbe ella in grado d’impiegare un migliaio di scudi?
Geronimo. Perchè no? anche duemila, se l’occasione è buona.
Procuratore. L’investita è sicurissima. I fondi sono liberi, liberissimi, e i debiti notificati non coprono che la metà dello stato del debitore.
Geronimo. Vediamo i fondamenti, vediamo le scritture che occonono...
Procuratore. Tutto è in mano mia, signore. Io difendo la casa ch’è molti anni, e vi assicuro che troverete le cose in chiaro.
Geronimo. Siete un uomo onesto, lo so benissimo. Con voi si può trattare a occhi serrati.
Procuratore. Quanto volete voi d’interesse?
Geronimo. L’onesto, il giusto, caro signor dottore; mi rimetterò a voi.
Procuratore. Più del cinque per cento non si può fare.
Geronimo. Mi contento del quattro e mezzo; al giorno d’oggi si dura fatica a trovar da investire con sicurezza, e il denaro in cassa non frutta.
Procuratore. La persona che cerca i mille scudi, siccome ne ha bisogno, non guarderà dal quattro e mezzo al cinque. Se fosse in altre mani, pagherebbe anche il dieci.
Geronimo. Guai a coloro che fanno simili negozi usuratici, indegni. È una crudeltà, una ladroneria profittare delle miserie altrui, e dar mano alla rovina delle persone. Pur troppo si sentono cose che fanno inorridire. Chi presta col pegno in mano e coll’usura palliata. Chi dà ad interesse coll’utile sfacciato di venticinque o trenta per cento. Chi dà i zecchini in imprestito a trenta paoli l’uno. Ma all’ultimo, signor dottore, il diavolo porta via ogni cosa; e dice il proverbio, quel che vien di ruffa in rafia, se se ne va di buffa in baffa.
Procuratore. Verissimo, signor Geronimo, verissimo. E se sapeste quanti ne hanno mangiato per questa strada al povero galantuomo, che ora ha bisogno dei mille scudi!
Geronimo. Chi è egli?
Procuratore. Sapete chi è? Il signor Ridolfo, che sta qui sopra di voi.
Geronimo. Il signor Ridolfo?
Procuratore. Sì signore.
Geronimo. Amico caro, compatitemi. Io non gli voglio dar niente.
Procuratore. Per qual ragione? V’assicuro io che vedrete le cose chiare.
Geronimo. No certo; a lui non do denari per assoluto.
Procuratore. Avete inimicizia con il signor Ridolfo?
Geronimo. Sono inimico del suo modo di vivere, del suo costume, della sua mala condotta; e non voglio io coi miei danari contribuire alle sue pazzie. Mille scudi? se li spende tutti in un mese in villeggiatura.
Procuratore. Non li prende per questo; ma per pagar i suoi debiti.
Geronimo. Tralasci di andar in villa. Moderi le sue spese, si metta in un poco d’economia e potrà pagare i suoi debiti, senza aggravarsi d’un altro peso di quarantacinque scudi di censo.
Procuratore. Dite bene, signore; ma se non glieli date voi, glieli darà un altro.
Geronimo. E bene? Se si vuol rovinar, si rovini. Ma io non ne voglio parte.
Procuratore. Mi dispiace che il povero signore ha tutto disposto per andar in campagna. Ha perfino mandato i letti questa mattina, ed ora è circondato dai creditori; e se non paga...
Geronimo. Suo danno, impari a misurare l’uscita coll’entrata; e poi, sapete che cosa mi hanno fatto il signor Ridolfo e la garbatissima sua sorella? Hanno sedotto i miei nipoti ad andare in villa a dispetto mio. Oh, se non ci andassero nemmeno loro, affè di mio, questa volta l’avrei ben caro.
Procuratore. Certo non istà bene che vada la signora Felicita in compagnia dove vi son de’ giovani.
Geronimo. E giovani di che taglia! Dite, signor dottore, vorrei disfarmene di questa nipote in casa.
Procuratore. Quanto le volete dare di dote?
Geronimo. Secondo il partito. Sino a dodici mille scudi le darei, se si trovasse di collocarla bene.
Procuratore. L’avrei un buon partito io.
Geronimo. Ne ho avuti quattro sinora.
Procuratore. Chi son eglino? li conosco io?
Geronimo. Non me ne ricordo bene di tutti. Ho i nomi entro dello scrittoio.
Procuratore. Vediamoli. Vi dirò il mio parere.
Geronimo. Sì, caro signor dottore. Parlando si fa tutto.
SCENA XI.
Servitore e detti.
Servitore. Signore, manda a dirle il signor Grisologo, se comanda restar servita a sentir leggere la sua commedia, che sono lesti.
Geronimo. No, no, ditegli che non ho tempo. Ho pensato di non volerne far altro. Sia com’esser si voglia; se è buona, l’ho caro; se è cattiva, non siamo in tempo di trattenerla.
Procuratore. Ha dello spirito il signor Grisologo: ha del talento.
Geronimo. Ma non ha giudizio. A che serve lo spirito, se non vi è la prudenza?
Procuratore. L’acquisterà col tempo.
Geronimo. Questo è quello ch’io dubito. Volete andar voi, signor dottore, a sentir qualche cosa?
Procuratore. Andrò volentieri. Ma prima vediamo, se vi contentate, i nomi di cui abbiamo parlato.
Geronimo. Sì, passiamo dallo studio; ve li do subito; già non principieranno sì presto.
Procuratore. La fa recitare questa commedia?
Geronimo. Questa sera, dic’egli.
Procuratore. Desidero si faccia onore.
Geronimo. E difficile, ne’ tempi in cui siamo. Si farà corbellare. Perchè una commedia riesca, non basta ch’ella sia buona. Vi vuol partito.
Procuratore. Il partito si fa col merito.
Geronimo. Si fa col merito? Si fa col merito?... Non mi fate dire, per carità. (parlano)
SCENA XII.
Camera grande.
Grisologo, Felicita, Leonide, Ridolfo, Roccolino, Policastro, Mario. Cricca indietro. Si tira innanzi il tavolino, in mezzo, per il signor Grisologo, e le sedie per tutti, e tutti si pongono a sedere.
Grisologo. Favoriscano accomodarsi. (siede nel mezzo)
Leonide. (Prendiamoci questa seccatura). (da sè)
Roccolino. Bravo, signor Grisologo, bravo, me ne rallegro con lei.
Leonide. Bravo gli dite, prima d’aver sentito niente? Vi rallegrate con lui troppo presto.
Roccolino. Son prevenuto che abbia a essere cosa buona. Bravo, me ne rallegro.
Grisologo. Obbligatissimo alle di lei grazie.
Policastro. E l’ha fatto in meno di quattro mesi, sa ella?
Roccolino. Così presto? bravo.
Policastro. Io non l’avrei fatta in quattro anni.
Ridolfo. Via, signore, non ci tenete più in pena. Fateci godere le vostre grazie.
Grisologo. Subito vi servo. Se il signore zio non vuole venire, suo danno; principieremo senza di lui.
Policastro. Già mio fratello non sa niente. Non sa far altro che numerar quattrini lui.
Ridolfo. Se fosse mio zio, farei che ne numerasse meno.
Grisologo. Alle volte vengono a me pure delle tentazioni...
Leonide. Spicciatevi, signore, perchè noi vogliamo andare in campagna, (a Grisologo)
Grisologo. Subito. (prepara il libro e si va accomodando)
Felicita. (E Grilletta non si vede con il vestito. Già lo prevedo. Mi converrà poi andare così. Andar certo; come si sia), (da sè)
Grisologo. Sono pregati del loro compatimento. Finalmente questa è la prima commedia che ho fatto.
Mario. E questa sera si rappresenta in teatro?
Grisologo. Sì signore, per servirla.
Mario. Spiacemi di non vederla. Restiamo qui questa sera, signor Ridolfo.
Leonide. Signor no, signor no, questa sera s’ha da partire; ed il signor Mario ha da venire con noi.
Mario. Come comanda la signora Leonide. Sentiamola dunque ora.
Grisologo. Certamente in teatro farà maggior figura, colla varietà delle voci, coll’azione de’ personaggi. Basta, m’ingegnerò di gestire alla meglio.
Roccolino. Bravo, me ne rallegro infinitamente.
Policastro. Ma via, principiate. Muoio di volontà di sentirla.
Leonide. Sarà breve, m’immagino.
Felicita. Ha una gran fretta la signora Leonide.
Leonide. L’averebbe anche lei, se si trattasse d’andare.
Felicita. Da questa sera a domani...
Grisologo. Signori, supplico tutti umilmente di ascoltare e tacere, poichè patisco assaissimo, quando leggo, se sento un menomo zitto. Principiamo.
La Vita di Cromuel protettore dell’Inghilterra, commedia di carattere in versi.
Mario. La Vita di Cromuel? La vita d’un uomo in una sola commedia?
Grisologo. Sì signore. Sachespir, celebre autore inglese, ha fatto la Vita e la morte di Riccardo terzo Re d’Inghilterra.
Roccolino. Sachespir? (a Grisologo)
Grisologo. Si signore.
Roccolino. Bravo, me ne rallegro infinitamente.
Policastro. Sentite che testa? Io non sapeva nemmeno che Sachespir fosse stato al mondo. (a Roccolino)
Grisologo. Zitto, signori, per carità.
Policastro. Zitto. (forte, poi cava dalla veste da camera qualche pasta dolce, e va mangiando.)
Grisologo. Atto primo, scena prima.
La moglie di Cromuel e la sua cameriera.
Moglie. Stelle! dov’è lo sposo? ahi, che in romita cella
Agito l’ali in vano misera rondinella!
Ei del Tamigi oppresso vendica i torti e l’onte;
Bagna di sangue il fianco, e di furor la fronte;
Ed io fra le tempeste vivo nell’ozio infido,
Qual peregrin, che il mare stassi a mirar dal lido.
Roccolino. Bravo, bravo. Me ne rallegro infinitamente.
Policastro. Ah? (maravigliandosi mangiando)
Leonide. Io non capisco niente.
Felicita. (E Grilletta non si vede). (da sè)
Ridolfo. Gran bei versi!
Mario. Perdoni, signore. Quell’ozio infido non mi pare ci cada a proposito.
Grisologo. Quell’epiteto è incastrato con arte, signore, per far risaltare il verso che seguita.
. . . . . . . . . Ozio infido,
Qual peregrin, che il mare stassi a mirar dal lido.
Roccolino. Oh bravo! me ne rallegro infinitamente.
Mario. E poi, perdonatemi. Per commedia lo stile è troppo elevato.
Policastro. Eh! (con disprezzo, mangiando)
Grisologo. Sì signore, è elevato, ma non è sempre così. Sentite ora.
Serva fedel mia cara, d’amor dammi una prova.
Cerca lo sposo mio. Dimmi dov’ei si trova.
Mario. Chi parla ora?
Grisologo. La moglie di Cromuel. Non sentite?
Mario. Quella del Tamigi, della tortorella, dell’ozio infido?
Policastro. Non sa niente. (mangiando)
Roccolino. Rispondetegli. (a Grisologo)
Grisologo. La varietà dello stile è il bellissimo mosaico delle composizioni. Leggete Sachespir. Leggete le sue Donne di bell’umore, o siano le Comari di Windsor. Leggete il Sogno d’una notte etc. etc. sentirete com’egli talora si solleva e talora si abbassa.
Roccolino. Bravo, me ne rallegro infinitamente.
Policastro. Ah? (come sopra)
Mario. Signore, perdonatemi; intendete voi bene l’inglese?
Leonide. Innanzi, innanzi, che l’ora si fa tarda.
Grisologo. In teatro sentirete che fracasso farà.
Felicita. Ehi? E venuta Grilletta? (verso la scena)
Grisologo. Zitto. (a Felicita)
Policastro. Zitto. (come sopra)
Grisologo. La cameriera.
Si sì, padrona mia, subito immantinente
Ricercherò il padrone di cui non si sa niente.
Voglio in questa giornata trovarlo a tutti i patti.
Domanderò di lui fin per trovarlo ai gatti.
Roccolino. Bravissimo.
Policastro. (Ride fortemente, mangiando) Ai gatti! (poi s’addormenta)
Grisologo. Zitto. Sentite ora.
Quinci e quindi fiutando, qual cacciator mastino.
Ritroverò gli effluvii, ch’ei sparsi ha nel cammino:
Poichè da tutti i corpi, sten buoni o sten malvaggi,
L’esalazion si spargono, fatte a guisa de’ raggi;
Onde qual fido cane scopre l’errante cerva.
Io scoprirò il padrone, fedelissima serva.
Roccolino. Oh bravo, oh bravo! me ne rallegro infinitamente.
Mario. Così parla una donna?
Grisologo. Sì signore, parla così. Credete voi che le donne in Inghiltena non sappiano che cosa sono gli effluvii?
Mario. Con licenza di lor signori. (s’alza)
Leonide. Va via, signor Mario?
Mario. Vado per un picciolo affare, signora. Tornerò, tornerò. (Non ne voglio più. Ho sentito abbastanza). (da sè, e parte)
Leonide. Pare che i versi del signor Grisologo gli abbiano fatto movere il corpo.
Roccolino. Me ne rallegro infinitamente.
Grisologo. Eh! genti che non gustano il buono. Tiriamo innanzi.
Ridolfo. Ehi! guardate un poco se fosse venuto il procuratore. Quando viene, avvisatemi. (a Cricca)
Cricca. Sarà servita. (parte)
Grisologo. Andiamo innanzi.
Felicita. (E Grilletta non viene. Son disperata). (da sè)
Leonide. Ehi! il signor Policastro dorme. (a Roccolino)
Grisologo. Scena seconda. Un messo e detti.
Messo. Batto coll’ali il piede, fendo dell’aere i spazi.
Nuove felici io reco. Di strage i Dei son sazi?
Moglie. Dove è il britanno eroe, dov’è degli angli il duce?
Messo. Viene, e venendo ei sparge gloria, trionfi e luce.
Roccolino. Oh bravissimo!
Grisologo. La serva. E della luce stessa dell’alme tue parole,
Giubbilo anch’io di gloria, e mi trasformo in sole.
Roccolino. Oh che roba, oh che roba!
SCENA XIII.
Il Procuratore e detti.
Procuratore. Con licenza di lor signori.
Ridolfo. Oh! ecco il signor dottore. (s’alza)
Grisologo. Favorisca. Là vi è una sedia vuota. Ascolti, e stia zitto. (al Procuratore)
Ridolfo. E così, è fatto il negozio? (al Procuratore)
Procuratore. Non ancora.
Ridolfo. No? Perchè?
Procuratore. Parleremo.
Ridolfo. Sono impaziente.
Procuratore. Ho fatto il possibile.
Grisologo. Ma zitto, signori miei.
Leonide. Vi è qualche cosa di nuovo? (s’alza)
Ridolfo. Andiamo di sopra. (al Procuratore)
Procuratore. Vogliono qui lasciare?...
Ridolfo. Andiamo, andiamo. Compatite, ho un affar di premura. (a Grisologo, in atto di partire)
Leonide. Si parte? Siete all’ordine? (a Ridolfo)
Ridolfo. Credo di sì, io: basta, vedremo. (parte)
Procuratore. Con licenza di lor signori. (parte)
Grisologo. Schiavo suo.
Leonide. Compatite. Non abbiamo tempo per trattenerci. Ci conviene andar via. Portatela in campagna, che la goderemo con comodo.
Roccolino. Sì, in campagna ammireremo il vostro spirito, il vostro talento
Grisologo. Sentite almeno una scena.
Leonide. Signora Felicita, a buon riverirla.
Felicita. Se ne va, eh?
Leonide. Per servirla. Serva umilissima. Padroni tutti. (parte)
Roccolino. Servo di lor signori. Bravo, signor Grisologo. Aspetteremo le nuove dell’esito della sua bella commedia; bravissimo, me ne rallegro infinitamente. (parte)
SCENA XIV.
Il signor Grisologo, la signora Felicita,
il signor Policastro che dorme.
Grisologo. Bellissima scena! Mi hanno impiantato qui come uno stivale.
Felicita. (Ma questa Grilletta mi fa dare al diavolo). (da sè)
Grisologo. Voi che avete tanta volontà di sentire, sentite il fine di questa scena.
Felicita. Lasciatemi stare. Ho altro in capo io. (Sto a vedere che mi toccherà stare in città, o andare con quest’abito in villa. Sia maladetto!) (da sè; si pone a sedere con distrazione, coprendosi la faccia col fazzoletto.)
Grisologo. Signor padre. Dorme? Signor padre. (lo sveglia)
Policastro. Che c’è? Bravo, bravissimo. Eh? dove sono andati? L’avete finita la commedia?
Grisologo. L’ho principiata appena. Chi per una cosa, chi per l’altra, ciascuno è partito. Vuol ella sentir niente?
Policastro. Caro figliuolo, ho un sonno che non posso reggermi in piedi. La sentirò stassera al teatro. Lasciatemi andar un poco a dormire. (sbadigliando parte)
SCENA XV.
Il signor Grisologo e la signora Felicita; poi Grilletta.
Grisologo. Ma vorrei almeno finir questa scena. Sentitela voi, e ditemi la vostra opinione. (a Felicita)
Felicita. Dite, dite. (stando nella medesima positura)
Grisologo. La moglie di Cromuel.
Dunque fia ver che amico alla Britannia il fato
Abbia da’ colpi illeso il Protettor serbato?
Dunque...
Felicita. Venite, venite. Grilletta; che nuova c’è?
Grilletta. Niente.
Felicita. Non si è trovato?
Grilletta. Niente.
Felicita. Nè si troverà?
Grilletta. Niente.
Felicita. Per poco, per poco mi getterei da un balcone.
Grisologo. E bene?
Felicita. Lasciatemi stare, che non ho voglia di sentir commedie. (parte)
SCENA XVI.
Grisologo e Grilletta.
Grisologo. Che diamine ha mia sorella?
Grilletta. Impazzisce per un vestito da viaggio. Non si trova.
Grisologo. Sentite voi, che siete una serva, un discorsetto che fa la serva della moglie di Cromuel.
Grilletta. E chi sono queste genti? Non le conosco io.
Grisologo. Sentite.
Suol l’allegrezza il duolo scacciare in cotal modo.
Come la ferrea punta scaccia dall’asse il chiodo.
Fabbro sagace, antico, colla sinistra mano
Alza il duro metallo, e lo presenta al piano.
E là ’ve dell’antico spunta la ferrea testa,
Tronca la superficie, ed il novello innesta.
Indi col destro pugno maglio ferrato innalza,
Replica i colpi al centro, batte, ribatte, incalza:
Finchè dal lato opposto della scheggiata scorza
Esca l’antico chiodo, entri il novello a forza.
Ah? che ne dite?
Grilletta. Che linguaggio è questo?
Grisologo. Italiano perfetto.
Grilletta. Io l’ho creduto arabo, in coscienza mia; se la vostra commedia è scritta tutta così, partiranno stupiti, senza intendere una parola. (parte)
Grisologo. Tutti ignoranti, tutti ignoranti. Questa sera l’universale deciderà del merito della novità. M’aspetto sentire risuonare gli applausi da tutti i lati. Farmi vedere il popolo affollato d’intorno a me, a consolarsi meco, a portarmi in trionfo per l’allegrezza. E domani anderò in campagna? Sì, sarà riputata la mia partenza un atto di modestia. Sarà meglio ch’io parta, anzi che andar pettoruto raccogliendo gli applausi per tutti gli angoli della città. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.