I divoratori/Libro secondo/X
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X.
La Miseria dalle scarne mani, e sua sorella, la Solitudine dagli occhi allucinati, spinsero Nancy nella nebbia di un altro anno sterile e triste. Ed ella andò, mite, con i suoi tacchi storti ed il suo vestito marrone, traverso un’altra estate, un altro autunno, un altro inverno.
Ed ora — ecco l’aprile!
Aldo restava assente talvolta per delle settimane intere. Quando tornava era di umore lieto, e vestiva con eleganza ricercata; ma era pur sempre frugale e parsimonioso in casa, predicando l’economia e ammonendo contro imprudenze e spese.
Anne-Marie andava a un Giardino d’Infanzia, dove andavano anche le bambine del droghiere, e le bambine dell’erbivendola, e le bambine del lattaio. Ed esse amavano Anne-Marie, e Anne-Marie le amava.
Ed ora, ecco l’aprile! L’aprile che, dovunque può, si spinge e penetra. S’avventava tra i pilastri della ferrovia aerea, versando per le vie l’oro del sole. Corse anche nella finestra aperta del tetro salotto nella 82.ma Strada, rovesciando il suo ambrato splendore sulla seta gialla dell’odiato paralume.
A Nancy, sola e avvilita nel suo vestito marrone, aprile disse: «Esci!»
Allora Nancy mise il cappello e uscì. E non avendo alcuna ragione di voltare a destra, volse a sinistra. E dopo aver attraversato tre o quattro vie, non avendo nessuna ragione di voltare a sinistra, volse a destra.
E voltando così, si trovò faccia a faccia con un fattorino di piazza — un ragazzo insolente dal berretto rosso sull’orecchia — che portava un grande mazzo di fiori ravvolti in carta velina. Il ragazzo, dando di cozzo in Nancy, disse:
— Ehi! dove li ha gli occhi?
Aprile disse a Nancy: «Sorridi!»
Nancy sorrise e la fossetta s’incavò.
— Scusi! Mi rincresce, — disse al rude ragazzo. E si scansò per lasciarlo passare.
Il ragazzo la guardò, e poi le fece una strizzatina d’occhio. Era un ragazzo molto insolente.
— Ecco, — disse, cacciando entro le mani di Nancy il mazzo di fiori, — per lei!
Nancy si ritrasse, ma il ragazzo le spinse nuovamente tra le mani il gran pacco avvolto nella carta velina, poi girò sui tacchi e se ne andò zufolando.
Nancy lo rincorse, ma lui correva più presto, voltandosi ogni tanto a guardarla e a ridere. Sparì dietro una voltata e Nancy si fermò, pensierosa e sorpresa.
Scostò un poco, in alto, la carta sottile e guardò i fiori: erano tutte orchidee color d’ametista, e capelvenere! Un mazzo da regina!
Nancy tornò lentamente verso casa, tenendo con ambe le mani i fiori dinanzi a sè. La loro fragile, stravagante bellezza le sollevò lo spirito dalla polvere in cui era prostrata.
Entrò rapida nella sua camera, sfuggendo Minna che era in cucina lavando con fracasso i piatti. Chiuse a chiave la porta della sua stanza, e sedette accanto al letto.
Tolse la carta velina che li avvolgeva, e i meravigliosi fiori, roridi e scintillanti, la salutarono con tremolìo soave.
Tra le corolle giaceva una lettera; la busta portava la sigla di un piroscafo transatlantico. Nancy l’aprì con mani timide.
- «Cara Sconosciuta, vestita di celeste,
«Mando questa lettera, come un fanciullo manderebbe una barchetta di carta a galleggiare lungo un fiume. Dove andrà? A chi giungerà?
«Parto ora dall’America. Quando i vostri occhi (azzurri? neri? chi sa?) leggeranno queste parole, io sarò già sull’Oceano. La «Lusitania», a bordo della quale vi scrivo, batte e pulsa già verso l’Europa, come un gran cuore impaziente. E forse voi ed io non ci incontreremo mai.
«Ma sono superstizioso. Nella carrozza che mi portava verso il porto or ora, le parole che spesso ho in mente quando viaggio mi suonavano insistenti nel pensiero:
«Dort wo du nicht bist, dort ist dein Glück.»
Là, dove tu non sei, è la tua felicità!
«Lascio questa terra d’America dove non fui mai felice. Forse perchè la mia felicità era frattanto in Europa, in Asia, o in Australia!
«Ma ora — ora che parto — la mia felicità sarebbe forse qui? Se vado in Europa, non lascio forse la mia felicità in America? Carrozze, battelli e treni non mi stanno portando via da lei? A questa idea ho fatto fermare la carrozza e ho comperato questi fiori.... a caso!
«Arrivato a bordo, ho detto allo «steward» di chiamarmi un fattorino. Ed eccolo qui, che aspetta: è un orrendo ragazzo colla bocca storta. A lui affiderò i miei fiori, questa lettera.... e il mio destino!
«Guardo il messaggero e mi piace di pensare che anche i vostri occhi lo vedranno.
«Ma come, come, o ignorata mia felicità, potremo trovarvi, i fiori ed io?...
«Ecco: dirò al fattorino di fermare la prima incognita che incontra, pur che porti un abito celeste!
«Dunque, siete voi! Buon giorno, felicità! In questa bella mattinata d’aprile voi siete dunque uscita in una veste colore del cielo?
«Io ragiono così: se siete vestita di celeste dovete essere giovane; e se siete giovane, dovete essere felice; e se siete felice dovete essere buona.
«E se siete buona mi scriverete, perchè sono un uomo triste e solitario, un arcigno e inamabile selvaggio.
«Il mio indirizzo è il «Metropole», Londra.
«Robert Beauchamp Leese.»
Nancy mise la lettera sul letto accanto ai fiori. Stette a lungo, colle mani intrecciate, a contemplarli.
Essi portavano un solo messaggio ai suoi occhi stanchi di tante bruttezze, alla sua anima accasciata da tante meschinità: la ricchezza!
Erano fiori che parlavano d’opulenza. Essi appartenevano a un altro ambiente. Avevano sbagliato strada; avevano sbagliato casa.
Se avessero potuto per un istante avere moto e vita, si sarebbero levati — Nancy già se li immaginava! — rialzando le delicate vesti color di viola, e affrettandosi a fuggire dal sordido appartamento.
Nancy poggiò il viso sul letto vicino ai delizianti petali. Chiuse gli occhi e sognò una risposta alla lettera.
La sua fantasia si dilettò a immaginare una risposta fine, spiritosa, sorprendente....
How shall I hold you, fix you, freeze you, |
Sì; gli citerebbe del Browning. E dell’Heine. Pingerebbe di sè una fantastica immagine, nella veste chiarazzurra, su cui le orchidee a tinte di pastello viola poserebbero, fuse in una divina dissonanza di colore.... E (nella lettera!) il suo viso piccolo impallidirebbe sotto un grande cappello di velluto nero, e l’ombra delle lunghe piume le velerebbe gli occhi.... Ah sì! ella si servirebbe del suo ingegno letterario per stupire e incantare questo sconosciuto — lo cingerebbe, lo attorciglierebbe di frasi fini e fiammanti....
Nancy sospirò. Si alzò, e andò al tavolino di bambù, storto e zoppicante; ivi, su un piatto rotto, stava il calamaio; e la vecchia penna d’avorio vi giaceva in demoralizzata familiarità con un portapenne rosso di Anne-Marie.
Nancy prese un foglio della povera carta da lettere rigata di cui si serviva quando doveva domandare in prestito una casseruola a Frau Schmidl, o pregare Mrs Johnson di pazientare qualche giorno. E scrisse:
- Mio signore,
«I fiori hanno sbagliato. Sono venuti da me, che non ero vestita di celeste.
«La mia veste era bruna».
Sottolineò l’umile parola inglese «brown», e non mise firma.
Però, rileggendo la lettera di lui, e notando che egli diceva d’essere triste e selvaggio e solitario, aggiunse il suo indirizzo.
Egli rispose.
Scrisse sulla busta: Miss «brown», e l’indirizzo ch’ella gli aveva dato. Riconoscendo la scrittura, ella accettò, arrossendo, la lettera dalle mani del postino.
Lo Sconosciuto scriveva:
«Cara fanciulla non vestita di celeste, tornatemi a scrivere....»
Ed ella gli scrisse subito per dirgli che davvero non gli avrebbe scritto mai più.
Allora egli rispose, ringraziandola, e chiedendo se ella non fosse per caso quella tale Miss Brown che egli aveva conosciuto diciotto anni prima, e che era stata così maternamente buona per lui. E che poi — poverina! — aveva avuto anche il vaiolo nero.... Egli si augurava di cuore che ella fosse precisamente quella Miss Brown.
Nancy sentì che doveva scrivere subito per dirgli che non era quella Miss Brown.
E glielo scrisse.
E lì finì la corrispondenza. Almeno, così disse Nancy a sè stessa, tornando su per le strette scale buie, dopo aver impostato questa lettera finale.
Nancy accese il gas nel salotto, e sedette colle mani in grembo. Era sola, quella sera, come tante altre sere. I bambini colle teste grosse la guardavano. E il morto signor Johnson con gli occhi bianchi la guardava. Sul caminetto la piccola pendola sgangherata pareva chiacchierar piano, e affannarsi a sbattere via il tempo in fretta e furia. Nancy l’ascoltava. Il battito continuo, un poco irregolare, si faceva ritmico al suo udito.
Le venne in mente una vecchia rima francese, che pareva battere in tempo coll’orologio:
La belle qui veut, |
Era la storia della Bella, che voleva entrare nel Giardino azzurro, e che al mattino passò davanti ai grandi cancelli aperti.
E si fermò di fuori, a guardare.
La belle qui veut, |
E a mezzodì ripassò davanti ai grandi cancelli aperti. E si fermò di fuori, a guardare.
La belle qui veut, |
Finalmente — quando era già sera — la Bella si disse: «Ora entrerò».
Ma arrivata davanti al giardino, trovò che i cancelli erano chiusi!
La belle qui veut, |
Così chiacchierava piano la pendola sbattendo via il tempo in fretta e furia. E Nancy l’ascoltò. D’un tratto, come per la prima volta, comprese, sentì che la vita passava, che passava rapida e irrichiamabile, e che lei, Nancy, non viveva! Lei era qui, chiusa col morto signor Johnson, ed era morta come lui.
Una subitanea selvaggia eccitazione la invase, come una improvvisa folata di vento, come una fiamma impetuosa che le divampasse in cuore: e Nancy si coprì il volto con un gemito di creatura ferita. Tutto il rimpianto per il suo ingegno sciupato, tutto lo sdegno contro l’avvilente esistenza, tutto l’odio per la povertà che la mutilava, la schiacciava, l’annichiliva, proruppe in quel lamento, tosto soffocato per non svegliare Anne-Marie che dormiva nella stanza vicina.
Ma che cosa faceva lei chiusa qui, come una belva in gabbia?
Ma perchè si rassegnava? Ma che cosa aspettava? Ma dormiva? Era narcotizzata? Paralizzata? Del suo ingegno, che cosa ne aveva fatto? E della sua volontà? Ella dunque si lascerebbe affondare nell’ignominia della miseria, nella vile e inerte disperazione?
La pendola stonata suonò mezzanotte, e Nancy balzò in piedi come alla chiamata di una voce potente. Era la Vita che chiamava. La Vita! Nancy se la sentiva passare accanto, splendida, vertiginosa, come un’amazzone folle, scagliata incontro all’avvenire. E passando chiamava: «Nancy! Nancy!»
Nancy si dibattè per liberarsi dal suo letargo, e gridò alla Vita: «Verrò! verrò con te!»
Vi sono dei caratteri di cui l’evoluzione si fa lentamente, a impercettibili gradazioni, come si schiude una rosa, come un uccelletto mette le penne.
Ma Nancy irruppe in un’ora dalla crisalide dell’incoscienza. Da un giorno all’altro — e per la sola ragione che la sua ora era giunta — la mite e mansueta Nancy non fu più. La passiva anima infantile avvolta nella candida semplicità del Genio, disparve in quella notte. Forse venne a portarla via la Nave dei Sogni della sua infanzia, sulla quale i suoi piccoli amici fantastici, Bel Popò e Menton Fleuri, l’aspettavano ancora....
E forse se ne saranno tornati indietro insieme, fuori dall’esistenza, fuori dai ricordi, salpando nel buio delle cose passate, verso la lontana Isola di Ciò che non è Più.
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- «Caro Ignoto,
«Quante domande! Non vi basta sapere che non sono nè la ragazza vestita di celeste, nè Miss Brown, ma vi ostinate a voler conoscere il mio nome?
Che importa un nome? Chiama pur la rosa |
«Chiamatemi dunque — se chiamarmi volete — col nome complessivo e fragile e impersonale di — Eva! E pensatemi come la sorella minore della prima Eva, meno curiosa forse e ancor più solitaria.... e tanto amica del Serpente — ormai addomesticato! — da portarlo intorno al collo come un boa, magro e moderno.... E ne’ miei occhi tranquilli fluttua la nostalgia del già perduto Paradiso....
«Ma mi fate altre domande ancora: «Siete giovane?» — Sì; ma non d’una giovinezza sconcertante. — «Siete buona?» — Sì; ma non di una bontà affliggente. — «Siete bella?» — Quasi; ma non di una bellezza sconvolgente.
«E vi scrivo, non perchè io sia avventurosa o temeraria, ma perchè l’ora è il tramonto, e il mese è l’aprile.
«E voi siete l’Ignoto».
L’Ignoto rispose. Ed ella gli riscrisse. E nelle sue lettere ella mise tutte le sue frasi più belle, tutti i suoi estri più felici. Gli scrisse molte verità e molte menzogne. Si descrisse a lui quale ella credeva di non essere, ma quale forse inconsciamente ella era. Nelle sue lettere si dava per una principessina viziata, una farfalla frivola, turbinante attraverso la vita con vivide ali....
E scrivendo queste lettere ella venne a poco a poco a somigliare a quella che descriveva. Divenne gaia e spensierata. Si fece prestare denari da Peg, e anche da George che si era innamorato di lei. Che importava? Li ripagherebbe un giorno o l’altro.... Comprò delle vesti eleganti; fece dei debiti; firmò delle cambiali; ebbe ricorso a espedienti dubbii. Tutto l’ingegno che avrebbe dovuto servire al Libro, ella lo prese e lo usò nella sua vita quotidiana; lo sciupò in piccoli imbrogli e inganni, pur di riuscire a strapparsi dagli artigli della povertà che la strangolava, che la inchiodava al suolo.
— Non importa nulla di nulla! nulla di nulla! — diceva lei.
Bisognava togliersi dal fango, bisognava uscirne ad ogni costo. Tornar fuori, in alto, nel sole, con la piccola Anne-Marie; lontano dalle propinquità vergognose e laide, dalla vicinanza dei negri, dalla sordida e spaventosa lotta per il pane quotidiano. Uscirne, uscirne ad ogni costo!
Un giorno — era un afoso pomeriggio di maggio — Aldo non ritornò a casa. Minna era andata a prendere Anne-Marie a scuola, quando un commissionario suonò alla porta dell’appartamento, e a Nancy, che gli aprì, consegnò una lettera in una grande busta sigillata. Si fece firmare la ricevuta e partì rapido.
La lettera era di Aldo. Diceva che gli era capitata la fortuna della sua vita, una fortuna quale egli non se la sarebbe mai aspettata! Ed egli sentiva di non doverla respingere. No, per amore di Nancy, per amore della sua bambina egli sentiva che era il suo sacrosanto dovere di non indietreggiare davanti a un grave sacrificio. Oh, non pensava a sè! Aveva già da tempo rinunciato alle proprie ambizioni, perduto ogni fede nei propri talenti, ogni speranza nel proprio avvenire. No, questo grave passo lo prendeva per lei e per Anne-Marie. Un giorno ella comprenderebbe il suo sacrificio. Un giorno (e qui una lagrima di Aldo aveva macchiato le parole) ella gli aprirebbe le braccia perdonandolo, ringraziandolo, benedicendolo... Intanto accludeva cinquecento dollari. E che Nancy ne avesse cura perchè cinquecento dollari non sono una parola. Sono duemila cinquecento franchi. E farebbe bene a prendere quell’appartamento disopra che costava meno; e a pagare otto dollari invece di dieci al mese a Minna, che sarebbero ancora fin troppi!... E coraggio! che probabilmente tra pochi mesi tutto sarebbe a posto, e sarebbero tanto felici. E addio, addio! Che i santi la proteggessero! Che il buon Dio guardasse lei e Anne-Marie! Ed oh! pregassero per lui, che era per sempre il loro infelice Aldo.
Nancy sedette rigida e stupefatta con la lettera e i cinque biglietti da cento dollari in mano.
Aldo non sarebbe tornato! Non tornerebbe più. Le aveva lasciate sole, lei e Anne-Marie; sole ad affrontare la vita.
Tutto quel giorno Nancy portò il suo cuore freddo e greve come una roccia nel suo petto delicato.
Quando fu notte andò nella camera di Aldo. Si guardò attorno. Davvero era una meschina e miserabile stanza. Tutto in essa — dalla finestra coi vetri rotti che dava su un muro umido, alla porta sverniciata che non chiudeva; dal tappeto logoro, all’ottomana sudicia e storta; dal caminetto col pezzetto di specchio appoggiato al muro, alla catinella rotta — tutto, tutto era orribile, tutto spingeva a fuggire e a non ritornare più.
E guardandosi attorno in quella camera deserta, Nancy si sentì pungere gli occhi da ardenti lagrime di compassione.
Povero Aldo! Così decorativo, così estetico, così inetto alla lotta per l’esistenza! Dunque non sarebbe tornato più. Dopo tutto, come biasimarlo? Che cosa trovava quando veniva a casa? Queste bruttezze, queste meschinità. Null’altro.
No, null’altro. Non l’amore. L’amore che li avrebbe sollevati e aiutati attraverso le angoscie e le avversità, non era più nel cuore di Nancy.
L’amore che essa aveva avuto per lui, e ch’ella si era compiaciuta di figurarsi come un epico e trionfante arcangelo, forte e armato, non era stato dopo tutto che un piccolo spettro, frale e sensitivo — mezzo bimbo, mezzo fantasma — e ferirlo era ucciderlo. E i Fati si erano divertiti a lapidarlo e a crocifiggerlo, questo amore; l’avevano percosso e calpestato; l’avevano trascinato per squallide vie e per scale sudicie, l’avevano soffocato sotto a mucchi di bruttezze.... Ora che Nancy osava guardarlo in faccia, vide che già da gran tempo era morto.
E per Aldo non ebbe che pietà.
Trasse da sotto il letto il suo vecchio baule, e vi ripose con rimorso e compassione le cose che gli appartenevano: i suoi pochi libri; le sue spazzole e il suo pettine rotto; le vecchie scarpette di vernice che portava in casa invece di pantofole; qualche pacco di sigarette.
Quando, aprendo il suo armadio, vide che era quasi vuoto, e che Aldo aveva già portato via tutti i suoi abiti nuovi, ella ebbe un piccolo sorriso triste. E ricordò ch’egli le era parso molto pallido quando quel mattino le aveva detto addio.
Come aveva fatto a procurare quei cinquecento dollari per lei? Da chi?
Allora, subitamente, Nancy s’inginocchiò.
Accanto al baule aperto di Aldo e alle sue povere vecchie cose, Nancy pregò per lui come egli nella sua lettera l’aveva pregata di fare.
Quando si alzò, chiuse il baule, e vi chiuse dentro anche il ricordo di Aldo, che non doveva più essere vivo in lei.
Anne-Marie parve quasi non accorgersi dell’assenza di suo padre. Ne parlò talvolta, nel modo indifferente e gaio che hanno i bambini. Poi non ne parlò più affatto.
Minna girò per la casa con gli occhi rossi e il naso gonfio, e dopo qualche giorno i conti della spesa giornaliera segnarono un inverosimile rialzo.
Nancy pagò tutti i suoi debiti; comprò delle vesti per sè e per Anne-Marie, e diede congedo a Mrs Johnson.
Visitò delle pensioni nei quartieri distinti di New York, e fissò due stanze eleganti in un «boarding-house» di Lexington Avenue.
Nella sera che precedette la sua partenza dall’appartamento della 82.ma Strada, vennero Peg e George ad aiutarla a riporre le sue cose e a chiudere i bauli; ma presto furono richiamati a tornare nel loro alloggio, dalla venuta di un amico. Peg spiegò a Nancy, abbracciandola, che era un musicante polacco, certo Markowsky, che veniva qualche volta a far musica con George.
Anne-Marie dormiva. Nancy restò sola nel salotto spoglio, da cui era già stato tolto e messo via tutto ciò che le apparteneva. Il defunto signor Johnson la guardava mestamente, e anche l’aborrita lampada a piedestallo — accesa finalmente col consenso della commossa Mrs Johnson — versava una luce blanda sul fascio di rose, portato quella sera dal cupo e innamorato George.
Due rudi colpi battuti alla porta la fecero sobbalzare. Era il postino con una lettera per lei. Da Aldo? No. Veniva dall’Inghilterra, ed era per «Miss Brown». Nancy richiamò il solenne postino e gli diede mezzo dollaro.
— Grazie. Sissignora. Va bene. Tutte le lettere, anche per Miss Brown, a Lexington Avenue? Sissignora. Sarà servita. Buona sera.
Nancy aprì la lettera. I suoi occhi posarono con piacere sulla grande e caratteristica calligrafia. Anche lo stemma del Grand Hôtel in cima al foglio pareva narrarle delle cose note e aggradevoli. In quel piccolo cerchio dorato ella vedeva, come traverso un magico cannocchiale, le cose lontane che essa ricordava e amava. «Hôtel Metropole»! Le pareva di vedere la rotonda dell’«Hall», brillantemente illuminata, e le eleganti signore dalle lucide chiome infiorate, passare con fruscìo lento a fianco degli uomini cortesi e corretti.... E la premura degli zelanti camerieri; e gli inchini del portiere ossequioso; e il pronto accorrere dei paggetti in livrea scarlatta.... E fuori — al di là delle giranti porte di cristallo — Londra, gaia, folle, illuminata, riversandosi in fiumana di carrozze ai suoi divertimenti....
Nancy sedette e rispose alla lettera dell’Ignoto:
«Il grande salone dorato è chiuso, e tiepido, e fragrante. Le lampade e il fuoco versano un lume pacato sulle pesanti tende di broccato, e sui floridi arabeschi del tappeto.
«Delle grandi rose pallide ergono la corolla dai loro vasi di Copenhagen, e la loro tinta è così fine, ch’esse sembrano essere la continuazione dei fiori di morbida luce pinti sulla porcellana.
«Sento le loro anime profumate che respirano vicino a me.
«Io sto fumando una sigaretta russa, odorante d’eliotropio bianco — e vi scrivo!
«O sconosciuto amico! come bene si accompagna alla fragranza delle rose, al lieve fumo della sigaretta, il pensiero di voi, anch’esso così vago, così dolce, così incerto....»
Uno strillo acuto nella stanza vicina fece balzare in piedi Nancy; e colla penna ancora in mano corse nella camera di Anne-Marie. La piccina — un virgulto bianco — era in piedi sul letto, pallida, cogli occhi spiritati e una mano tesa in gesto drammatico verso il muro. I capelli scompigliati le circondavano di fiamme bionde il viso.
— Ascolta! — disse. — Sta ferma! e ascolta!
Nancy stette ferma e ascoltò.
Chiara e limpida traverso il muro veniva la voce di un violino.
Sommesso e dolce lo accompagnava il pianoforte. Nancy riconobbe la musica. Era la «Romance» di Svendsen.
Anne-Marie, sempre ritta e immobile col braccio teso, come una piccola profetessa allucinata, sussurrò:
— Senti? È questo il pezzo che era bello, e che lui non ricordava!
— È un violino, cara, — disse Nancy.
E sedette sul lettino della bimba.
Ma Anne-Marie ascoltava, immobile. Nancy trasse a sè la coperta del letto e ne avviluppò i piedini nudi della sua bambina. Poi mise un braccio intorno alla smilza figuretta bianca.
L’ultima nota, lunga, acuta, dolorosa, vibrò e si spense. Soltanto allora Anne-Marie si mosse. Coprì il viso colle mani e scoppiò in pianto.
— Ma cos’hai, ma cos’hai, angelo mio? — chiese Nancy, angosciata, stringendosela al cuore. — Perchè piangi? dimmi perchè piangi?
I grandi occhi di Anne-Marie si fissarono su lei.
— Per tante cose, — disse lei.
E a Nancy la sua voce parve strana e lontana.
Per la prima volta Nancy sentì che l’anima della sua bambina era una cosa separata da lei, all’infuori di lei: un’anima ignorata e solitaria, volata fuori dall’essenza materna, inaccessibile alla materna ansia. Una piccola anima solitaria!
— Anne-Marie! è la musica che ti fa piangere? — chiese.
La piccina la tenne stretta, e non rispose. Nancy la indusse con mille carezze a tornare nel letto; e la ricoprì e la baciò e la lasciò nel buio.
La porta tra di loro rimase aperta. Nancy al suo tavolino udiva la melodia tenera della «Berceuse» di Grieg e il gaio staccato del «Minuetto» di Händel. E quella dolce musica la aiutò ad aggiungere dei fantastici dettagli nella sua lettera allo Sconosciuto.
La mattina seguente dovevano traslocare all’alloggio signorile di Lexington Avenue. Non poterono salutare George che era andato di buon’ora al suo ufficio. Ma Peg aiutò a chiudere le valigie, e a portarle giù nella carrozza, e corse con Minna su e giù per le scale in cerca dei pacchi smarriti e degli oggetti dimenticati.
Anne-Marie, già in carrozza, prese gravemente dalle mani di Peg il cerchio e il policeman con una gamba sola, unico superstite di un teatro di marionette di Frau Schmidl; e Minna, che le accompagnava per installarle nel nuovo alloggio, salì in carrozza colla gabbia di sorci giapponesi appartenenti ad Anne-Marie.
— Cos’ha oggi la piccolina? — chiese Peg, guardando Anne-Marie. — È allegra come un funerale di quarta classe.
— La vostra musica iersera l’ha molto turbata, — disse Nancy salendo anche lei in carrozza, e sedendo accanto alla piccola, colle ginocchia ingombre di cappelliere e di pacchi. — Il violino le è piaciuto tanto!
— Ah sì? — disse Peg. — Era quel rospo di Markowsky che suonava.
Così dicendo si sporse per baciare Anne-Marie.
Ma Anne-Marie voltò via la faccia e non volle essere baciata.
— Bel tipo! — disse Peg, un poco offesa, dopo un altro vano tentativo di baciare Anne-Marie, che teneva nascosto il viso nelle mani.
— Non le piacciono gli addii, — spiegò Nancy.
E, per consolare Peg, l’abbracciò affettuosamente, rammentandole la sua promessa di venire a trovarle.
— Arrivederci presto a Lexington Avenue!
La carrozza partì. Minna aveva già contato e ricontato sulle dita i bagagli che avevano, quelli che avrebbero dovuto avere, e quelli che ricordava di aver dimenticato — quando Anne-Marie tolse le mani dal visetto acceso.
— Mi piacciono, sì, gli addii, — disse in tono indignato. — Ma perchè quella brutta Peg ti ha detto che era un rospo che suonava la musica iersera?
Nancy la confortò, dicendo che non importava.
— Ma sì, importa, — disse Anne-Marie. — Non voglio che lo abbia detto.
— Non lo dirà più, — disse Nancy.
— Ma adesso l’ha detto, — disse Anne-Marie, — e non voglio che lo abbia detto!
E la sua disperazione era grande.
Nancy cercò di distrarla, parlando della bella casa nuova in cui si andava, e dove nella loro stanza c’era un tappeto rosso e un balcone.... Ed eccole arrivate! Sulla gradinata davanti alla casa le aspettava già un ricciuto e impertinente «chasseur» in berretto gallonato, che le aiutò a scendere dalla carrozza e fu rude e ruvido col policeman, afferrandolo per l’unica gamba; e nel portar su la gabbia dei sorci giapponesi, si tenne ostentatamente turato il naso. Ciò divertì assai Anne-Marie. Quando poi ella vide la stanza piena di sole, e il tappeto rosso, dimenticò la storia del rospo e fu felice.
All’ora del lunch scesero nella sala da pranzo e sedettero a un lungo tavolo con molte altre persone.
Anne-Marie, che credeva di essere invitata, fu molto timida da principio e molto rumorosa alla fine del pasto. I pensionanti erano della specie di tutti i pensionanti in tutte le pensioni del mondo. C’era il vecchio signore taciturno, e il giovinotto che fa dello spirito. C’era la signorina che studia il canto. C’era la famiglia distinta che si tiene molto a sè; e la signora coi capelli color zolfo, che si tiene poco a sè. C’erano i ragazzi americani male educati che litigano tutto il giorno e ballano il «cake-walk» tutta sera; e con essi era la loro madre inefficace, e il loro padre depresso, e la loro governante intontita. C’erano gli studenti russi. C’erano le signorine svedesi. C’era la signora tedesca d’una certa età.
Questa sedeva dirimpetto a Nancy; e dopo il primo sguardo quasi casuale ch’essa aveva rivolto a Nancy e ad Anne-Marie, la signora continuò a guardarle fisso tutto il tempo del pasto.
Ogni volta che Nancy alzava gli occhi incontrava quello sguardo attento e benigno dietro gli occhiali.
Nessuno parlò con Nancy durante la colazione; la conversazione essendo per lo più monopolizzata dal giovane di spirito e dalla signora coi capelli color zolfo, che scambiavano lungamente le loro opinioni riguardo all’età di Sarah Bernhardt. Nancy aveva un gran da fare a dire piano e in italiano ad Anne-Marie che non si occupasse delle due ragazzette americane, di cui gli esecrabili modi parevano affascinarla e ipnotizzarla.
Quella sera Nancy scese sola a pranzo.
Dopo la minestra, la signora tedesca parlò.
— Spero — disse, indicando il posto vuoto accanto a Nancy — che la bambina non sia ammalata.
— Oh, no, grazie, — disse Nancy. — Prende sempre del latte e un uovo alle sei, e poi va a letto.
— Secondo l’uso inglese, — disse la signora tedesca. E soggiunse: — È stata, lei, in Inghilterra?
— Sì, da bambina, — disse Nancy.
Poi venne il pesce. E mentre Nancy lo mangiava, sentiva sempre quello sguardo intento e benigno fisso su di lei.
Passato il montone, la signora tedesca parlò ancora.
— Mi pare di averla udita oggi parlare italiano colla bambina. È lei forse del bel paese dove il sì suona?
Nancy sorrise.
— Mia madre era italiana, — disse. — Mio padre inglese. Io sono nata a Davos, in Isvizzera.
Senza nessuna ragione apparente le guancie della signora tedesca si tinsero di un vivido rossore. Non parlò più. Ma dopo che il «pudding» di semolina aveva fatto due volte con lenta insistenza il giro della tavola, e che la frutta — passata rapidamente una sola volta — era sparita, la signora con voce un po’ tremula chiese a Nancy:
— Parla il tedesco?
— Sì, — disse Nancy. — Ho avuto una governante tedesca.
Ancora una volta le guancie della signora si soffusero di rossore. Il pranzo era terminato e tutti si alzarono e passarono nella sala di lettura. Ma Nancy andò nella sua camera per scrivere allo Sconosciuto.
«Voi mi chiedete di parlarvi di me: questo mi piace, perchè sono egoista e soggettiva.
«Io sono una giocatrice. A Montecarlo la Roulette — la folle Lorelei del Mezzogiorno, dagli occhi verdi, dalla voce d’oro — mi attira e mi incanta! Le ho gettato, or non è molto, nella avida gola insaziata tutti i denari su cui potevo mettere le mie piccole mani bianche. (Ora sapete che ho delle piccole mani bianche).
«E sono una sognatrice. Sono uscita per solitarie vie, sognando voi, mio sconosciuto eroe, e le misteriose foreste dell’Uhland, e le perdute principesse del Maeterlinck, finchè ho sentito delle vive lagrime — rare visitatrici! — tremare nei miei sereni occhi glauchi. (Ora sapete che ho dei sereni occhi glauchi).
«E sono una selvaggia, una selvaggia ultracivilizzata, col candido petto, pieno di ruggiti e di smanie primitive, ricoperto di gioielli.
«Adoro i gioielli. Ho dei brillanti insolenti, quasi azzurri, grandi come il mio cuore! — che dico? — di più, di più! E li porto a tutte le ore, in tutte le stagioni — intorno al collo, alle braccia, alle caviglie — su tutta me!
«Spero che anche voi portate molti gioielli.
«Adoro gli uomini ineffabilmente anormali e mauvais-genre, che portano degli anelli fino alla punta delle dita.
«E sono femminea... oh, oltre ogni dire femminea! Non porto che delle vesti ondeggianti, delle fluttuanti trine, dei larghi cappelli ricadenti ad ombreggiare le mie morbide chiome. (Sì; le mie chiome sono morbide).
«Non ho opinioni; non ho vedute. Non seguo mai il filo di un ragionamento. Sono contenta di essere una piccola creatura indifesa che tutti proteggono e compiangono e sgridano e adorano.
«Non bevo «cocktails». Fumo (ve l’ho detto?) delle sigarette russe profumate all’eliotropio bianco — e certo nessun uomo farebbe una cosa così nauseante.
«Sono distratta. Sono negligente. Sono prodiga. Sono pigra. Oh, assai pigra! Invidio tanto la «Belle au Bois dormant» che ebbe cento anni di sonno, e dormirebbe ancora adesso, se il Prince Charmant non l’avesse baciata....
«Addio, Prince Charmant!
«Ecco: ho parlato di me.
«Eva.»