Gli amori di Zelinda e Lindoro/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Strada.
Lindoro solo.
Ah pazienza! Sa il cielo quando potrò rivedere la mia cara Zelinda! Meschino di me! L’ho lasciata nelle mani de’ miei nemici in mezzo de’ suoi persecutori. È vero che don Roberto ha cura di lei, ma egli non sa il pericolo che la sovrasta1, ed ella non avrà coraggio di dirlo, ed io non ho avuto campo di manifestarlo. Questo pensiero m’inquieta più della privazione medesima. L’amore, il timore, la gelosia m’opprimono sì fattamente, che non sento la mia miseria, e sono indifferente agli oltraggi della fortuna. Ecco qui: un giovine civile, allevato fra i comodi ed i piaceri, scacciato villanamente da un luogo, ed obbligato per vivere a servire un altro. E’ buon per me che abbia trovato sì presto da collocarmi, per non essere costretto a vendere quel poco che ho in dosso per sostenermi. La condizione che ora sono obbligato di prendere, è più umiliante dell’altra, ma pazienza: la soffrirei volentieri purchè avessi la compagnia di Zelinda, purchè mi fosse accordato il piacere di vederla. Questa è la mia pena, questo è il mio martoro, questa è la mia unica disperazione. (resta pensoso)
SCENA II.
Zelinda, un Facchino che porta un baule, e detto.
Zelinda. No, amico, non so dove andare precisamente. Mi fido in voi. Conducetemi in qualche onesto albergo. (al facchino)
Facchino. Se volete, vi condurrò in casa mia.
Zelinda. Sì, mi farete piacere. Sarete giustamente ricompensato.
Lindoro. Qual voce? (si volta)
Zelinda. Oh cieli! (scoprendo Lindoro)
Lindoro. La mia Zelinda?
Zelinda. Il mio bene? (corrono e s’abbracciano)
Lindoro. Come qui? Dove andate?
Zelinda. Vi racconterò...
Facchino. Signora, per quel ch’io vedo, voi non avete più bisogno di me.
Zelinda. Aspettate, aspettate. (al facchino) Sappiate, Lindoro mio....
Facchino. Ma il baule pesa.
Lindoro. Mettetelo giù, galantuomo.
Facchino. Dove?
Lindoro. Là, su quel muricciuolo di dietro quella casa.
Zelinda. Ed aspettate un momento che vi chiamerò.
Facchino. Signora, vi avverto che in casa mia non vi è luogo.
Zelinda. Me l’avete pure esibito.
Facchino. Sì, vi sarebbe luogo per uno, ma non vi è luogo per due.
SCENA III.
Zelinda e Lindoro.
Lindoro. Presto, presto, mia cara, istruitemi delle vostre avventure. Come siete voi qui? che fate voi del baule?
Zelinda. Vi dirò in due parole. Non sono più in casa del signor don Roberto...
Lindoro. Tanto meglio per me. Come ne siete sortita?
Zelinda. Sono stata licenziata.
Lindoro. Da chi?
Zelinda. Dalla padrona.
Lindoro. Perchè?
Zelinda. Vi dirò, la signora donna Eleonora...
Lindoro. No, no, non perdiamo tempo per ora; mi racconterete ciò con più comodo. Pensiamo ora a quello che più c’interessa. Dove pensate voi di ricoverarvi?
Zelinda. Non lo so. Mi aveva esibito il facchino... Ma ora che ho avuta la fortuna d’incontrarvi... Dove siete voi alloggiato?
Lindoro. La necessità mi ha determinato...
Zelinda. Non pensiate già ch’io concepisca il disegno di dimorare con voi, finchè non siamo marito e moglie.
Lindoro. Sì, avete ragione: ma pure eravamo insieme in casa di don Roberto.
Zelinda. Altra cosa è il servire in una medesima casa, altra cosa sarebbe vivere insieme senza una positiva ragione.
Lindoro. La sorte in questo ci è favorevole. Potreste tentare di venir a servire nella casa dove io sono collocato.
Zelinda. Avete già trovato un impiego?
Lindoro. Ah sì, ma qual impiego! ho rossore a dirvelo.
Zelinda. E’ cosa che vaglia a disonorarvi?
Lindoro. No, fintanto ch’io non son conosciuto. Vi dirò la cosa com’è. Sortito di casa di don Roberto, ho incontrato a caso Giannino, il garzon del libraio; gli ho confidato la mia situazione, si è interessato per me. Mi ha condotto da una signora del suo paese. Ell’avea bisogno d’un cameriere2. Ho avuto qualche ripugnanza dapprima, ma poi pensando ch’io non poteva senza un appoggio sussistere, veggendo la difficoltà di potermi impiegare onorevolmente, temendo di non più rivedervi, ho accettato il partito, e mi sono accomodato per cameriere.
Zelinda. Povero il mio Lindoro! E tutto questo per me!
Lindoro. Che non farei, mia cara, per voi?
Zelinda. E come dite voi che la fortuna ci potrebbe aiutare?
Lindoro. La mia padrona ha bisogno ancor d’una cameriera... Se vi riuscisse di entrarvi!...
Zelinda. Volesse il cielo! Ma in qual maniera poss’io condurmi?
Lindoro. Vi dirò. Ho sentito dire ch’ella si è raccomandata per questo a certa donna che chiamasi la Cecchina, che fa la rivenditrice, ed abita vicino al luogo che si chiama il Bissone. Informatevi di lei, cercatela, parlatele, fatevi proporre; e son certo, che se la signora Barbara vi vede, vi prende subito al suo servigio.
Zelinda. Si chiama la signora Barbara la vostra padrona?
Lindoro. Sì, questo è il suo nome.
Zelinda. E la sua condizione?
Lindoro. Il giovane suo paesano mi assicura ch’ella è la figlia unica di un negoziante di Torino, che per disgrazia ha fallito; ma trovandosi ella in necessità come noi, si approfitta della musica che ha appresa per passatempo, ed esercita la professione della cantatrice.
Zelinda. Io non disapprovo il mestiere, quando onestamente sia esercitato; ma assicuriamoci bene...
Lindoro. Giannino mi ha prevenuto, ch’ella è la più saggia e la più onesta giovine di questo mondo.
Zelinda. Quand’è così, non avrò alcuna difficoltà di propormi.
Lindoro. Oh bella cosa sarebbe che ci trovassimo nuovamente insieme!
Zelinda. Direi che la sorte mi è più favorevole che contraria.
Lindoro. Vi amo tanto!
Zelinda. Siete sì ben corrisposto!
Lindoro. Ma andate subito, cara, andate. Vi sovvenite voi di Cecchina?
Zelinda. Sì, so benissimo. Al Bissone. Non perdo tempo.... (vuol partire, poi si ferma) Ma che farò frattanto del mio baule?
Lindoro. Consegnatelo a me. Lo farò portare in casa della padrona. Dirò ch’è la roba mia.
Zelinda. Va benissimo. Ehi, galantuomo. (alla scena)
SCENA IV.
Il Facchino col baule, e detti.
Facchino. Son qui. Avete ritrovato il quartiere?
Zelinda. Andate con questo giovane. Portate il mio baule dov’egli vi ordinerà, e sarete da lui soddisfatto.
Facchino. Benissimo. Ditegli ch’abbia riguardo al tempo che mi ha fatto perdere.
Zelinda. Sì, avete ragione. (al facchino) Pagatelo generosamente. (a Lindoro)
Lindoro. Cara Zelinda, deggio dirvi una verità lagrimosa.
Zelinda. E che cosa?
Lindoro. Non ho tanto danaro in tasca per soddisfar il facchino.
Zelinda. Io ne ho veramente, ma tutto il mio è nel baule. Tenete la chiave, apritelo quando siete in casa, e pagatelo.
Lindoro. Siete pur buona! Siete pure amorosa!
Zelinda. Addio, addio. (in atto di partire)
Lindoro. Ma sentite, sentite. (la chiama indietro)
Facchino. Va lunga questa faccenda. (a Lindoro)
Lindoro. Un momento. (al facchino) Se voi venite in casa con me, com’io spero, conteniamoci con prudenza, che non si venisse a scoprire...
Zelinda. Oh sì, bisogna fingere indifferenza.
Lindoro. E anche dell’avversione, se bisogna.
Zelinda. Così, così, non tanta. Ricordatevi di quel che abbiamo passato.
Facchino. Sono stanco. Lo getto qui, e me ne vado.
Lindoro. Addio. (a Zelinda)
Zelinda. Addio, addio, a rivederci. (parte)
SCENA V.
Lindoro, il Facchino, poi don Flaminio.
Lindoro. Andiamo, andiamo. (al facchino)
Facchino. Abbiamo d’andar troppo lontano?
Lindoro. No, trenta o quaranta passi, e non più.
Facchino. Le mie spalle se ne risentono. (vanno per partire)
Flaminio. (Ah sì senz’altro; quello è il baule che appartiene a Zelinda). (da sè) Fermatevi, galantuomo. (al facchino)
Facchino. Un’altra fermativa?
Lindoro. Che cosa pretendete, signore? (a don Flaminio)
Flaminio. Dove fate voi trasportare quel baule? (a Lindoro)
Lindoro. Qual ragione avete voi di saperlo e di domandarlo?
Flaminio. Temerario! così mi rispondete?
Lindoro. Signore, io non vi perdo il rispetto, ma non sono più al vostro servigio, e non avete alcuna autorità sopra la mia persona.
Facchino. Finiamola, ch’io non posso più.
Lindoro. Seguitatemi. (al facchino, incamminandosi)
Flaminio. Fermatevi. (lo ferma con violenza)
Facchino. Eh il diavolo vi porti. (lascia cadere il baule in terra, e vi siede sopra)
Flaminio. Dov’è Zelinda? (a Lindoro)
Lindoro. Io non lo so, signore. (con sdegno)
Flaminio. Come! Avete voi in consegna il di lei baule, e non sapete ov’ella sia?
Lindoro. Non lo so, vi dico, e quando lo sapessi, non lo direi.
Flaminio. Vi farò parlare per forza. (minacciandolo)
Lindoro. Spero che vi guarderete di usarmi qualche violenza. (con spirito)
Flaminio. Giuro al cielo!... (Ma no, conviene per ora moderare la collera.) (da sè)
Lindoro. Prendete su quel baule. (al facchino)
Facchino. Lo prendo, o non lo prendo? (a don Flaminio)
Flaminio. Basta, basta... prendetelo, portatelo, non mi oppongo.
Facchino. Aiutatemi, se l’ho da rimettere in spalla. (a Lindoro)
Lindoro. (Misero me! a qual condizione son io ridotto!) (dà la mano al baule, e lo rimette in spalla al facchino)
Flaminio. (E’ meglio ch’io li lasci fare, ch’io li seguiti di lontano, e che mi assicuri s’egli lo porti in casa della cantatrice, dove mi dicono ch’ei sia ricovrato).
Lindoro. Andiamo. (al facchino, incamminandosi)
Facchino. In nome del cielo!
SCENA VI.
Don Roberto ed i suddetti.
Roberto. Alto là, alto là. (arresta il facchino)
Facchino. Cosa c’è di nuovo?
Roberto. Dove vai con quel baule?
Facchino. Domandatelo a quel galantuomo. (accennando Lindoro)
Roberto. Dov’è Zelinda? (a Lindoro)
Lindoro. Non lo so, signore. Me l’ha domandato ancora il signor don Flaminio.
Roberto. Disgraziato! Persisti ancora a disobbedirmi? (a don Flaminio)
Flaminio. Ma io vi assicuro...
Roberto. Voglio sapere dov’è Zelinda. (a Lindoro)
Lindoro. E’ inutile che a me voi lo domandiate.
Facchino. (Lo torno a gettar per terra.) (da sè)
Roberto. Troverò io la via di saperlo. Amico, voi mi conoscete; voi avete preso quel baule in casa mia; venite con me, e riportatelo ov’era prima.
Facchino. Mi pagherete?
Roberto. Vi pagherò.
Lindoro. Ma voi, signore, non avete più autorità... (a don Roberto)
Roberto. Mi maraviglio che abbiate ardire...
Facchino. Eh corpo del diavolo. Lo porterò dove l’ho trovato, (parte)
Roberto. Ci parleremo con comodo. (a Lindoro) Se Zelinda vorrà il suo baule, verrà ella a prenderlo in casa mia. (parte dietro al facchino)
SCENA VII.
Don Flaminio e Lindoro.
Lindoro. Non permetterò mai... (vuol seguitar don Roberto)
Flaminio. Fermatevi.
Lindoro. Nessuno mi potrà impedire... (vuol sforzare il passo)
Flaminio. Fermatevi, o giuro al cielo... (mette la mano alla guardia della spada)
Lindoro. (Fa lo stesso, poi si pente) (Ah se Zelinda non mi trattenesse!) (da se)
Flaminio. Ecco il bel servigio che avete reso a Zelinda.
Lindoro. Vostro padre è un uomo d’onore. Le renderà tutto quello che le appartiene.
Flaminio. Ma intanto...
Lindoro. Intanto siete voi la causa ch’ell’avrà questo spiacere.
Flaminio. Ditemi dov’ella si trova, e m’impegno di farvi avere il di lei baule.
Lindoro. V’impegnereste di questo?
Flaminio. Sì, vi do la mia parola d’onore.
Lindoro. Malgrado ai sentimenti3 di vostro padre?
Flaminio. Malgrado a tutto quello che mi potesse arrivare.
Lindoro. Signore, se mi permettete, vorrei dirvi una cosa.
Flaminio. Ditela liberamente.
Lindoro. Mi perdonerete voi s’io la dico?
Flaminio. E’ cosa che possa offendermi?
Lindoro. No, poichè non è che un sentimento onesto e sincero d’un vostro buon servitore.
Flaminio. Parlate dunque senza difficoltà.
Lindoro. Quel ch’io ho l’onore di dirvi si è, che il modo vostro di pensare fa torto all’educazione che avete avuta, fa torto a voi medesimo...
Flaminio. Mi vorreste fare il pedante?
Lindoro. Non signore. Parlo con la dovuta riverenza, e vi dico, che mancar di rispetto al padre.... Deh ascoltate pazientemente uno sfortunato che trovasi nel caso vostro. Io, signore, io stesso per secondare l’amore, la passione, o il capriccio, ho disobbedito mio padre, ho mancato al debito di rispettarlo, mi sono allontanato da lui, ed eccomi ridotto a soffrire la servitù, a soffrire l’avvilimento, il dispregio e la derisione. Ecco gli effetti della mala condotta. Prendete esempio da me, regolatevi nelle vostre intraprese, e compatitemi se ho avuto l’ardire di correggervi, e se ho la disgrazia di dispiacervi. (parte)
SCENA VIII.
Don Flaminio, poi Fabrizio.
Flaminio. Costui ha trovato la via di mortificarmi, senza ch’io possa trattarlo male. Mi ha detto la verità, mi ha convinto col suo proprio esempio. Ma le insinuazioni d’un rivale non vagliono a persuadere, e non sono in grado di cedergli tranquillamente il cuor di Zelinda. L’amo, e sono impegnato, ed ho il puntiglio per sopra carico dell’amore.
Fabrizio. (Ecco qui don Flaminio. Ho ancor bisogno di lui, e convien tentare di lusingarlo). (da sè) Signore...
Flaminio. Indegno! ardisci ancora di presentarti dinanzi a me?
Fabrizio. In verità, signore, mi fate torto.
Flaminio. Vorresti ancora inorpellarmi la verità?
Fabrizio. Ma qual verità?
Flaminio. Che! non ha parlato chiaro Zelinda?
Fabrizio. E volete credere ad una giovine innamorata che accusa tutto il mondo per coprir se medesima?
Flaminio. Non hai avuto coraggio di difenderti in faccia sua?
Fabrizio. Perchè donna Eleonora non mi ha dato il tempo di farlo.
Flaminio. Tu sei un perfido, tu m’inganni.
Fabrizio. Siete in errore, signore, ve l’assicuro. Vi darò prove della mia fedeltà. Sapete voi dove sia Zelinda?
Flaminio. No, non lo so. (serioso)
Fabrizio. (Questo è quello che mi dispiace.) (da sè)
Flaminio. (Scopriamo un poco l’intenzion di costui). (da sè) Perchè mi domandi tu, se io so dove sia Zelinda?
Fabrizio. Perchè ora sarebbe il tempo di guadagnarla.
Flaminio. Per chi?
Fabrizio. Per voi.
Flaminio. Per me, o per te? (con sdegno)
Fabrizio. Per voi, ve l’assicuro, per voi. Io non ci penso, e non ci ho pensato mai. Se anche avessi qualche inclinazione per lei, credete ch’io non capisca ch’ella è vana della pretesa sua nobiltà, e che non avrei in concambio che dei disprezzi? Io le ho parlato per conto vostro, ed ella ha interpretato male i miei detti. Ha preso gli elogi per dichiarazione d’amore, e le mie attenzioni civili per effetti di attaccamento. Mi dispiace che non si sa ove sia, altrimenti vi farei toccar con mano la verità.
Flaminio. Non si sa dove sia, ma si può sapere. (placidamente)
Fabrizio. Per saperlo, basterebbe rilevare dov’è Lindoro.
Flaminio. E che si potrebbe sperar da lui?
Fabrizio. Potrebbe darsi che fossero insieme, e se non lo sono ancora, mi darebbe l’animo di ricavare da lui...
Flaminio. E credi tu che Lindoro si lascierebbe indurre a scoprirlo?
Fabrizio. Ne son sicuro.
Flaminio. Ed io ti replico che t’inganni. Ho parlato io stesso a Lindoro, l’ho lusingato, l’ho minacciato; è stato inutile, non vuol parlare.
Fabrizio. Eh cospetto di bacco! Se gli parlo io, scommetto che mi dà l’animo di farlo parlare.
Flaminio. Se questo potesse essere...
Fabrizio. Sapete voi dov’egli dimora?
Flaminio. Sì, l’ho saputo per accidente.
Fabrizio. Ditemelo, e non dubitate.
Flaminio. L’amico suo, il suo paesano Giannino, l’ha collocato per cameriere in casa di certa signora Barbara cantatrice.
Fabrizio. So chi è, la conosco.
Flaminio. La conosco anch’io, ma non so ove stia di casa.
Fabrizio. Lo so io, lo so io. Anderò a ritrovarlo, e gli parlerò, e gli terrò dietro, se occorre, e farò tanto che mi riuscirà di saperlo.
Flaminio. Insegnami la casa della cantatrice.
Fabrizio. Non serve, signore, non serve che v’incommodiate. Fidatevi di me, lasciatevi servire, e vivete tranquillo. (E’ sciocco se crede ch’io voglia operare per lui.) (da sè)
SCENA IX.
Don Flaminio solo.
Il birbo non vuol insegnarmi la casa, ed io pazzamente gli ho nominato la persona. Dubito che continui a burlarsi di me. Ma non è difficile a rilevare la dimora della cantatrice. Andrò io stesso col pretesto di visitarla. Una virtuosa di musica non rifiuterà la sua porta ad un galantuomo, tanto più che ci siamo trovati insieme più d’una volta, e mi conosce. Voglio nuovamente parlare a Lindoro, voglio prevenire Fabrizio, e valermi del suo disegno, come egli si vale della mia scoperta. Amore non manca di mezzi termini e di ripieghi. È vero ch’io vado incontro alla collera di mio padre, ma egli non può sapere tutti i miei passi, e poi è troppo buono per non compatire una passione sì tenera e sì comune. (parte)
SCENA X.
Camera in casa della cantatrice, con spinetta e clavicembalo.
Lindoro solo.
Sono inquieto per la mia Zelinda. Non so s’ella avrà trovato la rivenditrice. Non la vedo ancora a venire. Ma che dirà la povera figlia, quando saprà che il baule non è più in mio potere? Sa il cielo quanto vi vorrà per riaverlo, e ch’ella non sia obbligata a rientrare... Ma no, a costo di perder tutto ella non rientrerà in quella casa, ella non mi darà più il dispiacere di vederla fra miei nemici. Soffro io per lei una condizione indegna di me, soffrirà ell’ancora egualmente finchè la sorte si cangi, finchè mio padre s’acquieti, e mi permetta di essere seco lei fortunato. Ma ecco la mia padrona.
SCENA XI.
Barbara e detto.
Barbara. Tirate innanzi, Lindoro, quella spinetta.
Lindoro. Sì, signora, subito. (eseguisce, ma con istento)
Barbara. Una sedia.
Lindoro. Eccola. (accosta una sedia alla spinetta, e sospira)
Barbara. Sapete fare il cioccolato?
Lindoro. Passabilmente; mi proverò.
Barbara. Dite la verità. Voi non siete molto avvezzo a servire.
Lindoro. Spero che non avrete a dolervi di me.
Barbara. Son sicurissima della vostra buona volontà, mi parete un giovine ben disposto, ma capisco dal poco che avete fatto finora, che non è questo il vostro mestiere.
Lindoro. Veramente nella casa da dove ora sono escito, io serviva per segretario.
Barbara. E perchè adattarvi ora ad un servigio inferiore?
Lindoro. Voi mi proverete, signora, e spero che non sarete di me malcontenta.
Barbara. La vostra fisonomia, la maniera vostra civile, mi fanno credere che siate nato in uno stato migliore.
Lindoro. Signora... Son nato galantuomo, sono sempre vissuto da galantuomo, e questo è quello di cui ambisco vantarmi.
Barbara. Non sarebbe gran fatto che la fortuna contraria facesse un torto alla vostra nascita. Io sono nel medesimo caso. Io non era nata per professare la musica. L’ho appresa per puro divertimento, e la disgrazia del povero mio genitore...
Lindoro. E’ stato battuto, mi pare.
Barbara. Sì, andate a vedere chi è.
Lindoro. Vado subito.
SCENA XII.
Barbara, poi Lindoro.
Barbara. Quando mai si cangerà per me la fortuna? Di tanti adoratori che mi circondano, possibile che non ne ritrovi uno che pensi onorevolmente sopra di me? Il mio contegno dovrebbe pure far conoscere il modo mio di pensare, dovrebbe disingannare i male inclinati, e movere qualcheduno a levarmi da un tal mestiere, ed a credermi degna della sua mano.
Lindoro. (Eccola la mia Zelinda. Oh cieli! fate ch’ella sia ricevuta). (da sè in disparte)
Barbara. E bene, chi è?
Lindoro. E’ una giovane che vi domanda.
Barbara. La conoscete?
Lindoro. Non l’ho mai veduta.
Barbara. Sapete che cosa voglia?
Lindoro. Io credo venga ad offerirsi per cameriera.
Barbara. Può essere, perchè ho licenziata quella ch’avea, e mi sono raccomandata per averne un’altra.
Lindoro. Ma signora, se io ho l’onor di servirvi per cameriere, che bisogno avete voi di una cameriera?
Barbara. Sapete voi accomodare il capo?
Lindoro. No, veramente, non lo so fare.
Barbara. Oh bene dunque, ho bisogno di una cameriera; fatela entrare.
Lindoro. (Sì, sì, venga pure. Io ne ho più bisogno di lei). (da sè) Venite quella giovane, entrate. (alla scena)
SCENA XIII.
Zelinda e detti.
Zelinda. Serva umilissima. (con una riverenza)
Barbara. Vi saluto quella giovine. Che cosa desiderate?
Zelinda. Mi manda qui la Cecchina...
Barbara. La rivenditrice?
Zelinda. Ella appunto. Mi ha detto che la signora ha di bisogno di una cameriera...
Barbara. E’ verissimo. Che cosa sapete fare?
Zelinda. Signora, di tutto un poco.
Barbara. Assettare il capo?
Zelinda. Ardisco dire perfettamente.
Barbara. Cucire?...
Zelinda. Di bianco principalmente, e tutto quello che occorre.
Barbara. Ricamare?
Zelinda. Conosco il mestiere, ma non ne sono perfetta.
Barbara. Sapete voi accomodare i merletti?
Zelinda. Oh in questo poi mi posso vantare di non la cedere a chi che sia.
Barbara. Benissimo.
Lindoro. (Ah se sapesse tutte le virtù della mia Zelinda!) (da sè)
Barbara. Quanto pretendete voi di salario?
Zelinda. Vedrà quel che so fare, e ne parleremo4.
Barbara. (Che vi pare di questa giovane?) (piano a Lindoro)
Lindoro. (Mi par che presumi di saper troppo. Bisogna vedere, bisogna provare. Queste donne si vantano di saper tutto, e spesse volte non sanno niente). (piano a Barbara)
Barbara. (Avete ragione, la proverò). (piano a Lindoro)
Lindoro. (Se la prova, ne son sicuro). (da sè)
Barbara. Due cose mi premono sopra tutto: l’assettare il capo, e l’accomodare i merletti. Per il capo vi proverò domani. Per i merletti vedrò subito quello che saprete fare. Volete trattenervi? Volete andare e tornare?
Zelinda. Resterò, se vi contentate.
Barbara. Ho una cuffia di pizzo di qualche valore. Il pizzo è rovinato. Vorrei rimetterlo, se fosse possibile.
Zelinda. Favorite di far ch’io lo veda; vi saprò dire, se sia possibile.
Barbara. Trattenetevi, ch’ora torno. (La giovine non mi dispiace. Credo sarà il mio caso). (da sè, parte)
SCENA XIV.
Zelinda e Lindoro, poi Barbara.
Lindoro. Ah Zelinda mia, la cosa va bene che non può andar meglio. (con allegrezza)
Zelinda. Non posso spiegarvi la contentezza ch’io provo. (allegra)
Lindoro. Eccoci un altra volta riuniti insieme. (come sopra)
Zelinda. E senz’alcuno che ci perseguiti. (come sopra)
Lindoro. Fabrizio non ci farà più paura. (va crescendo l’allegrezza)
Zelinda. Don Flaminio non mi tormenterà più. (più allegra)
Lindoro. E donna Eleonora? (ridendo)
Zelinda. Oh sono sì contenta di non vederla più! (ridendo)
Lindoro. Staremo bene.
Zelinda. Lo spero anch’io.
Lindoro. Mi pare la padrona una buona giovane.
Zelinda. Sì, mi pare di buona pasta.
Lindoro. Crede che non ci conosciamo nemmeno. (ridendo)
Zelinda. E’ la più bella cosa del mondo. (ridendo)
Lindoro. Cara la mia Zelinda! (la prende per le due mani)
Zelinda. Il mio caro Lindoro! Mi giubila il cuor in petto.
Barbara. (Viene, li sorprende nel loro giubilo, e si ferma un poco indietro osservando.)
Zelinda. Che piacer! (a Lindoro, non vedendo Barbara)
Lindoro. Che consolazione! (a Zelinda, non vedendo Barbara)
Barbara. Da che nasce il vostro piacer, la vostra consolazione? (avanzandosi con qualche sorpresa)
Zelinda. (Povera me!) (resta mortificata)
Lindoro. Signora... non crediate già... Vi dirò, mi domandava questa giovane se io era contento di voi. Io le diceva che sono poche ore che ho l’onor di servirvi, ma che sperava5 di aver trovato la miglior padrona del mondo.
Zelinda. Questa è una gran consolazione per me. (a Barbara)
Lindoro. Questo è il maggior piacere che può aver chi serve. (a Barbara)
Barbara. Va benissimo, e credo non sarete mal contenti di me, ma vi avverto che in casa mia si vive onestamente, e non permetterò certe confidenze...
Zelinda. Nè io le amo sicuramente.
Lindoro. Scusatemi, se per un trasporto di gioia...
Barbara. Basta così. Se sapete il vostro dovere, tanto meglio per voi. (Non voglio esser rigorosa, ma vedrò, se potrò fidarmi). (da sè) Quella giovane, come vi chiamate?
Zelinda. Zelinda, per obbedirvi.
Barbara. Ecco qui, Zelinda, la cuffia di cui vi ho parlato. Vedete come un picciolo cane l’ha lacerata. Ditemi se è possibile d’accomodarla. (le fa vedere la cuffia, cioè il pizzo)
Zelinda. Qui e qui si può accomodare, ma qui ve ne manca un pezzo.
Barbara. Aspettate. Credo di averne, ma non so se sarà bastante. Lo cercherò, e ve lo porterò a far vedere. (parte)
SCENA XV.
Lindoro, Zelinda, poi Barbara.
Zelinda. Siate più cauto, quasi più ci siamo scoperti.
Lindoro. E’ vero, quest’esempio mi servirà di regola in avvenire.
Zelinda. (Guardando se è osservata) Ditemi, ove avete messo il baule?
Lindoro. Il baule? (rattristandosi)
Zelinda. Sì, se resto qui ne avrò di bisogno.
Lindoro. Ah Zelinda mia! (guardando se è osservato)
Zelinda. Cosa è stato? (guardando anch’essa)
Lindoro. Il baule... (con afflizione)
Zelinda. Oimè! cosa è divenuto?
Lindoro. Il padrone...
Zelinda. Qual padrone? (affannata)
Lindoro. Il signor don Roberto...
Zelinda. Ebbene.
Lindoro. L’ha veduto per via, l’ha riconosciuto, ed ha obbligato il facchino...
Zelinda. A che fare? (affannata)
Lindoro. A riportarlo da lui.
Zelinda. Ah meschina di me! la mia roba. Tutto quello che ho al mondo, che mi ho guadagnato con tanti stenti. Perchè? Con qual’autorità? (agitata)
Lindoro. Non vi affliggete, mia cara.
Zelinda. Come? che non mi affligga? Volete voi che io perda la roba mia? o che vada a ridomandarla per avere de’ dispiaceri? Oh questa cosa non me la sarei aspettata.
Lindoro. Maledetto don Flaminio, è stato egli la causa.
Zelinda. No, la vostra poca attenzione.
Lindoro. Ma perchè mi mortificate?
Zelinda. Sono io la mortificata. Sono io che ne risento il danno, il dispiacere, il dispetto. (piange di rabbia)
Lindoro. La rabbia mi divora, maladetto il destino. (si agita e batte i piedi)
Barbara. (Li sorprende in quest’atto, e si ferma un poco.)
Zelinda. (Che farò ora senz’aver da mutarmi?) (da sè, piangendo)
Lindoro. (Tutte le disgrazie si affollano per tormentarmi!) (batte i piedi, come sopra)
Barbara. Come! Che stravaganza è questa? (li due restano mortificati) Poc’anzi eravate ridenti, giubilanti, ed ora Zelinda piange, e Lindoro batte i piedi, e s’adira?
Lindoro. Scusatemi... (Non so che dire).
Barbara. Che avete voi che piangete? (a Zelinda)
Zelinda. Signora... parlava con questo giovane di una padrona che ho avuto l’onor di servire. La poverina è morta, e quando me ne rammento, non posso trattenere le lacrime. (piange un poco)
Barbara. Lodo il vostro buon cuore. Ma voi qual soggetto avete di smaniare in tal modo? (a Lindoro)
Lindoro. Vi dirò... Zelinda mi ha raccontato la malattia della sua padrona. Era una cosa di niente, e il medico... Sì, assolutamente il medico l’ha ammazzata. Sono così arrabbiato contro i cattivi medici, che vorrei esser medico per ammazzarli.
Barbara. Non vorrei che le vostre lacrime e le vostre collere nascondessero qualche mistero.
Zelinda. Signora, scusatemi, qual mistero ci può essere fra due persone che per la prima volta si vedono?
Lindoro. In verità... signora, voi mi mortificate.
Barbara. (Se è vero il mio sospetto, me ne chiarirò facilmente). (da sè) Ecco il pezzo che ho ritrovato. Vediamo se può esser bastante. (fa vedere a Zelinda un pezzo di merletto)
Zelinda. Mi par di sì, signora, ma per assicurarmi, permettete che io lo esamini meglio.
Barbara. Fate così. Ritiratevi in quella stanza, e là potrete osservarlo a vostro bell’agio.
Zelinda. Farò tutto quello che comandate. (in atto di partire) (Ah la mia povera roba! Non mi poteva arrivare maggior disgrazia). (da sè, entra in una camera laterale)
Barbara. Non so se le finestre di quella camera siano aperte, o serrate. (verso Lindoro)
Lindoro. Volete che io vada a vedere? (in atto di andare)
Barbara. No, no, andatemi a fare una tazza di cioccolato, e quando è fatto, portatelo.
Lindoro. Sì, signora. (Poverina! vorrei vedere di consolarla). (da sè, guardando dov’è Zelinda, e parte)
SCENA XVI.
Barbara, por don Flaminio.
Barbara. Veramente tener in casa due giovani di questa sorte è una cosa un poco pericolosa. Bisognerà che mi disfaccia di un di loro. Ma tutti due mi paiono si propri e civili... Se potessi assicurarmi della loro buona condotta... Farmi di sentir qualcheduno. Chi è di là? (verso la scena)
Flaminio. Scusate, signora: non ho trovato nessuno in sala.
Barbara. Serva umilissima. La porta adunque era aperta?
Flaminio. Sì, certamente.
Barbara. Che cosa ha ella da comandarmi?
Flaminio. Signora, io ho avuto l’onore di vedervi più d’una volta a qualche Accademia.
Barbara. Sì certo, mi sovviene benissimo di aver avuto questa fortuna.
Flaminio. Sono ammiratore del vostro merito e della vostra virtù.
Barbara. Ella mi onora per effetto di gentilezza.
Flaminio. E mi son presa la libertà di venirvi ad assicurare della mia stima e del mio rispetto.
Barbara. Sono sensibile alla di lei bontà. Favorisca di accomodarsi.
Flaminio. Voi siete ben alloggiata.
Barbara. Signore, non è una gran casa, ma per me è bastante.
Flaminio. Voi siete turinese6 non è egli vero?
Barbara. Sì, signore, per obbedirla.
Flaminio. E mi fu detto che la vostra famiglia...
Barbara. Di grazia, vi supplico, non mi parlate della mia famiglia. Vorrei potermene dimenticar affatto, se non fossi obbligata a pensar sovente a mio padre.
Flaminio. In fatti è dura cosa il doversi adattar ad uno stato che non conviene alla propria nascita. Ma il decoro e l’onestà con cui solete condurvi...
Barbara. Oh in questo poi non tradirò l’esser mio.
Flaminio. Voi meritate miglior fortuna.
Barbara. Io non merito niente, ma vi assicuro che non ne son contenta.
Flaminio. Se mai potess’io contribuire a’ vostri vantaggi, vi assicuro che lo farei col maggior piacere del mondo.
Barbara. Sono obbligata alla vostra cortese disposizione.
Flaminio. Davvero, sull’onor mio. Conosco il vostro merito, e vorrei potervi dare qualche prova della mia stima.
Barbara. (Le solite esibizioni che non conchiudono niente). (da sè)
Flaminio. (Vorrei assicurarmi se vi è Lindoro, e non so come fare.) (da sè)
Barbara. Signore, la supplico dirmi con chi ho l’onor di parlare.
Flaminio. Don Flaminio del Cedro, vostro buon servitore.
Barbara. Ah sì, ora mi sovviene. Mi consolo di conoscere particolarmente un cavaliere di merito e di qualità.
Flaminio. Consideratemi come vostro amico, disposto a tutto quello che vi può far piacere.
Barbara. (Eh se dicesse davvero! ma non me ne fido). (da sè)
Flaminio. Ditemi, signora Barbara, siete sola? non avete nessuno con voi?
Barbara. Non ho che un servitore, e una cameriera.
Flaminio. A proposito: mi era stato detto che avevate licenziato il vostro cameriere.
Barbara. E’ verissimo, ma ne ho preso un altro.
Flaminio. So che ve n’era uno che aspirava a venir da voi... Come si chiama quello che avete preso?
Barbara. Lindoro.
Flaminio. Non è quello che io diceva. (Anzi è quello che io cercava). (da sè)
Barbara. Non mi pare cattivo giovane.
Flaminio. E come passate il vostro tempo, signora?
Barbara. Un poco leggere, un poco cantare...
Flaminio. Sarebbe troppo ardire pregarvi di una qualche picciola arietta?
Barbara. Vi servirò col maggior piacere del mondo.
Flaminio. Siete amabile, siete gentile.
Barbara. Faccio il mio debito con chi mi onora. (si alza, e va a sedere alla spinetta)
Flaminio. (Se non vedrò oggi Lindoro, lo vedrò un altro giorno; anzi lo vorrei vedere in presenza della sua padrona). (da sè)
Barbara. Ecco qui una nuova raccolta di arie che mi sono state mandate. Ve ne sono delle buone, e delle cattive.
Flaminio. Voi le renderete tutte perfette.
Barbara. Oh, non ho tanta abilità. (va cercando un’aria per cantare)
SCENA XVII.
Zelinda col pizzo in mano, e detti.
Zelinda. Le farò veder quel che ho fatto... Oh cieli! chi vedo mai. (vede don Flaminio e subito si ritira)
Flaminio. (Qui Zelinda! Qual fortuna! Qual avventura!) (da sè)
Barbara. Ecco: questa non mi pare cattiva. (a don Flaminio, guardando sulle carte di musica)
Zelinda. (Non so se io parta, o se io resti). (da sè)
Barbara. E’ un mezzo cantabile assai gentile. (come sopra)
Flaminio. (Bisogna profittare dell’occasione. Se Zelinda ha giudizio, non si scoprirà). (da sè)
Barbara. Ma, signore, che vuol dire che mi parete agitato, e non mi abbadate nemmeno?
Flaminio. Niente, niente. Favorite, che vi sentirò con piacere.
Barbara. Ma voi guardate piuttosto da quella parte.
Flaminio. Vi dirò. Ho veduto sortire da quella camera una giovane con de’ merletti alla mano, e quando mi ha veduto, è fuggita. Mi parve strana una tal ritirata. Io non sono qui per importunare nessuno.
Barbara. Signore, è una cameriera che è venuta poco fa ad esibirsi. Le ho data per prova da accomodare certi merletti...
Zelinda. (la chiama)
Zelinda. Signora. (esce un poco timorosa)
Barbara. Volevate voi qualche cosa?
Zelinda. Voleva farvi vedere, come ho trovato il modo di accomodare... (timorosa)
Barbara. Avanzatevi. Che cos’avete? di che tremate?
Zelinda. Vedo un signore, che io non sapeva che ci fosse... (timorosa)
Barbara. E per questo vi mettete in tanta apprensione? Non siete avvezza a vedere degli uomini?
Zelinda. Sì, signora, ma il mio rispetto... (Povera me! qual incontro, sono perduta). (da sè)
Barbara. Via, via, il rispetto va bene. Ma la rustichezza non è degna del vostro spirito. Avanzatevi, lasciatemi veder quel che avete fatto.
Flaminio. Venite, venite, non abbiate soggezione di me. (a Zelinda, le passa dietro, e le dice piano) (Non temete, vi prometto che non vi scoprirò).
Zelinda. (Prende coraggio, e parla con brio) Ecco qui, signora, da questa parte l’ho accomodato in maniera che non si conosce, e da quell’altra ho principiato ad incassare il pezzo che mi avete dato.
Barbara. Va benissimo. Sono contenta. Vedo che lo sapete fare perfettamente.
Flaminio. Mi par bellissimo cotesto pizzo.
Barbara. E’ un punto d’Inghilterra che ha qualche merito.
Flaminio. Con permissione. (si accosta a Zelinda per vedere il pizzo, e le tocca le mani)
Zelinda. Che sfacciato! (ritira le mani con dispetto)
Barbara. Ma perchè queste male grazie? (a Zelinda)
Zelinda. Oh io sono delicata, signora.
Barbara. (Io dubito vi sia dell’affettazione). (da sè)
Flaminio. È così, signora Barbara, se volete onorarmi di farmi sentire un’arietta...
Barbara. Subito vi servo. (a don Flaminio) Procurate che incassando da questa parte s’incontrino questi rami. (a Zelinda)
Zelinda. Sicuramente.
SCENA XVIII.
Lindoro colla sottocoppa con una tazza di cioccolato, e detti.
Lindoro. Ecco il cioccolato... Oimè! (vede don Flaminio, e tremando lascia cader tutto in terra)
Barbara. Cosa avete fatto? (a Lindoro)
Lindoro. Scusatemi... (timoroso)
Barbara. Via, via, non è niente.
Lindoro. Ne andrò a sbattere un’altra tazza...
Barbara. No, no, l’ora è avanzata, non serve più.
Lindoro. (Il diavolo lo ha qui portato). (da sè)
Zelinda. (E’ un prodigio se non si scopre ogni cosa). (da sè)
Flaminio. E’ questi il giovane che avete preso per cameriere? (a Barbara)
Barbara. Sì, signore.
Flaminio. Mi pare un giovane di garbo.
Barbara. Lo conoscete?
Flaminio. Non l’ho mai veduto.
Lindoro. (Manco male, respiro un poco). (da sè)
Flaminio. Voi meritate d’esser ben servita, e vedo che avete scelto assai bene. Specialmente l’abilità di questa giovane è singolare. Non si possono meglio accomodare i merletti. Permettetemi che io vegga quell’incassatura. (col pretesto le tocca le mani)
Zelinda. (Ma signore...) (piano a don Flaminio)
Flaminio. (Tacete, o vi scoprirò). (piano a Zelinda)
Zelinda. (Povera me! in qual imbarazzo mi trovo!) (da sè)
Lindoro. (E ho da soffrire che don Flaminio usi a Zelinda delle confidenze?) (da sè)
Barbara. Zelinda, mi pare che la vostra delicatezza...
Zelinda. In verità, signora, se non fosse per voi... (a Barbara)
Barbara. Per me dico che il signor don Flaminio abusa un poco troppo della convenienza.
Flaminio. Vi domando perdono...
Lindoro. Veramente nelle case onorate... (a don Flaminio riscaldandosi un poco)
Flaminio. A voi non conviene parlare. (a Lindoro)
Lindoro. (Ha ragione; ma non lo posso soffrire). (da sè)
SCENA XIX
Fabrizio e detti.
Fabrizio. Con permissione.
(Zelinda, Lindoro e don Flaminio si turbano alla vista di Fabrizio)
Barbara. Che maniera è questa d’entrare?
Fabrizio. Domando perdono. Ho trovata la porta aperta.
Zelinda. (Povera me!) (da sè)
Lindoro. (Siamo precipitati). (da sè)
Flaminio. (Con qual’intenzione sarà venuto costui?) (da sè)
Fabrizio. (Zelinda! Lindoro! il padrone! a me, a me. Sono capitato in buon punto.)
Barbara. Ebbene, chi siete? chi domandate? cosa volete? (a Fabrizio)
Fabrizio. Scusatemi, sono venuto qui per il mio padrone. (a Barbara, accennando don Flaminio)
Barbara. E’ il vostro servitore? (a don Flaminio)
Flaminio. Sì, signora: che cosa vuoi? (a Fabrizio)
Fabrizio. Signore, vostro padre vi cerca e vi domanda. Ha saputo che siete qui, ha saputo che correte dietro a Zelinda, che volete amarla e seguirla a dispetto suo, e vi fa sapere per bocca mia...
Barbara. Come, signore? venite in casa mia col pretesto di far a me una finezza, e vi servite della mia buona fede per soddisfare la vostra indegna passione? Vergognatevi di un tal procedere, indegno d’un cavaliere d’onore, e contentatevi di ritirarvi...
Flaminio. Avete ragione. Vi domando mille perdoni. Parto pien di rossore e di confusione; ma tu, scellerato, tu me la pagherai. (a Fabrizio, e parte)
SCENA XX.
I suddetti, fuori di don Flaminio.
Fabrizio. Io faccio il mio dovere, e nè più, nè meno...
Barbara. E voi, colla vostra delicatezza... (a Zelinda)
Zelinda. Signora, vi giuro che io non ne ho colpa.
Fabrizio. Anche a voi, Zelinda, deggio dir qualche cosa da parte del padrone. Egli vi fa sapere che sarà sempre lo stesso per voi, che vi riceverà nuovamente in casa, anche a dispetto di sua consorte, ma col patto che abbandoniate Lindoro, essendo una vergogna che una giovane come voi, voglia precipitarsi per uno che se vi sposerà, non vi potrà mantenere. Ho eseguita la mia commissione. (li due restano mortificati) Servitor umilissimo di lor signori. (parte)
Barbara. Oh cieli! posso sentir di peggio? Indegni! escite subito di casa mia. (a Zelinda e Lindoro)
Zelinda. Signora, per carità...
Barbara. Andate, che non meritate pietà.
Lindoro. Un amore innocente...
Barbara. Che amore innocente? chiamate voi innocenza l’imposture, la menzogna, la falsità?
Zelinda. Ah, se sapeste le circostanze delle nostre disavventure...
Barbara. Mi maraviglio di voi: con chi credevate di aver che fare? L’esser io d’una professione ch’esercito per mia disgrazia, vi faceva forse sperare di trovarmi indulgente alla vostra passione? No, il teatro non guasta il cuore a chi lo ha fortificato dalla prudenza e dall’onestà. Pensaste male, vi regolaste assai peggio. Partite subito che non voglio più tollerarvi.
Zelinda. Oh Dio! pazienza l’andarmene. Il cielo mi provvederà. Ma l’essere da voi scacciata con questa macchia al decoro mio, è un tal dolore per me, è una sì fiera pena, che non avrò coraggio di tollerarla, che mi farà soccombere, che mi darà miseramente la morte.
Lindoro. Una povera giovine, nata bene, perseguitata dalla fortuna, fugge dai persecutori della sua onestà. Si ricovera in casa vostra, in compagnia d’uno, è vero, ma di un uomo onorato e civile, che abbandona tutto per lei, che si riduce a servire unicamente per lei, e sarà il nostro amore colpevole a questo segno? e saremo tutti due vilipesi, scacciati, e sì barbaramente trattati? (patetico)
Barbara. Non so che dire. Voi mi movete tutti due a compassione, ma non posso niente in vostro avvantaggio. Il decoro mio non vuole che io vi soffra in mia casa. Vi compatisco, vi compiango, ma vi prego d’andarvene, e di scusare la delicatezza del modo mio di trattare.
Lindoro. Sì, avete ragione, e partirò meno afflitto, se voi non vi7 mostrate sdegnata.
Zelinda. La vostra compassione consola in parte il mio rammarico, la mia pena.
Lindoro. Addio, signora, vi domando perdono.
Zelinda. Scusatemi per carità. (piangendo)
Barbara. Andate, che il cielo vi consoli e vi benedica. (piangendo)
Zelinda. Povera sfortunata! (piangendo parte)
Lindoro. Quando mai si cangierà la mia sorte? (afflitto parte)
Barbara. Chi può trattenersi di piangere a fronte di due poveri afflitti? Chi è sventurato sente meglio le sventure degli altri8. Sì, essi sono degni di compassione. Chi merita d’essere rimproverato è don Flaminio. Egli si è abusato della mia buona fede. Mi ha trattato in una maniera indegna di lui, indegna di me. Ah, ciò sempre più mi convince della poca stima in cui sono in faccia del mondo, dell’oltraggio che io faccio a me stessa e alla mia famiglia, esponendomi sola agli insulti, ai disprezzi, alla derisione. Ah sì, ho meditato più volte di ritirarmi: quest’incontro mi fa risolvere in sul momento. Vo’ abbandonare la professione, vo’ ritornare nel mio paese. Viver povera, ma quieta. Mendicar il pane, se occorre, ma non espormi ad arrossire tutto il giorno, ed a bagnar colle lagrime il poco danaro che si ricava da un mestiere difficile e pericoloso.
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Nelle ristampe: le sovrasta.
- ↑ Ed. Zatta: camariere. Ma poi stampa cameriere e cameriera.
- ↑ Nelle ristampe: risentimenti.
- ↑ Ed. Zatta: parlaremo.
- ↑ Ed. Zatta: spero.
- ↑ Così nel testo.
- ↑ Ed. Zatta: se voi vi.
- ↑ Così corregge, per esempio, il Cameroni (Capolavori dì C. Goldoni, serie seconda: Trieste, 1658). Nell’ed. Zatta e nella maggior parte delle ristampe si legge: sente meglio le sue sventure degli altri.