Gli amori di Zelinda e Lindoro/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Strada con veduta del fiume Ticino, alberi, e case, e varie barche sul fiume. Da una parte vicino al fiume un corpo di guardia con soldati e una sentinella.
Zelinda, Lindoro, tutti due melanconici, senza parlare, si guardano e sospirano.
Lindoro. Povera la mia Zelinda!
Zelinda. Ah Lindoro, cosa sarà di noi?
Lindoro. Il cielo ci provvederà.
Zelinda. Eccoci qui, senza ricovero, senz’appoggio.
Lindoro. E senza il modo di sostenerci.
Zelinda. Se potessi ricuperar la mia roba! Nel mio baule vi è del danaro.
Lindoro. Quanto danaro avrete, Zelinda?
Zelinda. Poco meno di cento scudi.
Lindoro. Oh cieli! quanto ci profiterebbero presentemente!
Zelinda. Se andassi io stessa, credete voi che il signor don Roberto mi negherebbe la roba mia?
Lindoro. Ah Zelinda, se voi ci andate, io non vi rivedo mai più.
Zelinda. Ma perchè? Non son io padrona della mia libertà?
Lindoro. No, non sarete padrona di voi medesima. Il signor don Roberto che vi ama, e crede che io possa fare la vostra rovina, può ricorrere alla giustizia, dir che siete una figliuola civile, che volete precipitarvi, e farvi chiudere in un ritiro, e far in modo che io non vi possa mai più rivedere.
Zelinda. Oh Dio! io rinchiusa? Sarebbe mai possibile che don Roberto pensasse sì crudelmente? No, non lo credo, non ne son persuasa.
Lindoro. E se vi tenesse in casa con lui, come potrei io vivere, pensando che siete unita co’ miei rivali, co’ miei nemici? Ah morrei disperato.
Zelinda. No, caro il mio Lindoro, non vi vuo’ dar questa pena. Ma ho da perdere la mia roba?
Lindoro. Si troverà qualche mezzo per ricuperarla.
Zelinda. Ma intanto?
Lindoro. Intanto... Oh cieli! non so che dire. Sono mortificato per conto vostro.
Zelinda. Bisognerebbe procurare un alloggio.
Lindoro. Lo troveremo.
Zelinda. Ma vivere insieme non è decente.
Lindoro. Lo conosco ancor io.
Zelinda. E non abbiamo il modo di mantenerci.
Lindoro. Questo è quello che maggiormente mi affligge.
Zelinda. Miseri noi!
Lindoro. Povera la mia Zelinda! (restano tutti due pensosi)
SCENA II.
Arriva un burchietto, da cui sbarca don Federico in abito da viaggio con rodengotto e bastone. Un marinaro mette in terra il baule, chiama un facchino, e viene lo stesso facchino che aveva portato il baule di Zelinda.
Zelinda, Lindoro, don Federico, Marinaro, poi Facchino.
Marinaro. Facchino. Ehi, vi è nessuno che porti?
Facchino. Eccomi, eccomi, che cosa ci è da portare?
Federico. Questo baule.
Facchino. Dove si ha da portare?
Federico. In strada Nova, dirimpetto all’università, vicino ad uno speciale da medicine.
Zelinda. Sentite? Pare che questo forastiere vada precisamente alla casa di don Roberto. (piano a Lindoro)
Lindoro. Potrebb’essere don Federico, tanto aspettato da donna Eleonora. (piano a Zelinda)
Facchino. (Vuol prendere il baule, poi si ferma) Signore, vi sarebbe pericolo che con questo baule mi succedesse qualche altro imbroglio?
Federico. Perchè? qual imbroglio può succedere? Vengo di viaggio, quella è la roba mia.
Facchino. Scusatemi, ma questa mattina per un baule preso, e portato e riportato nel medesimo luogo, ho avuto un imbarazzo del diavolo.
Federico. E in casa di chi l’avete portato?
Facchino. Di certo signor don Roberto....
Federico. Sì, è mio vicino. Lo conoscete?
Facchino. Lo conosco certo.
Federico. E che fa la signora donna Eleonora?
Facchino. Oh questa poi non la conosco per niente.
Federico. Sua moglie; non la conoscete?
Facchino. Non signore; ma se volete averne notizia, ecco lì, vedete quelle due persone? Credo siano di casa, ed esse ve lo diranno.
Federico. Voi altri siete di casa di don Roberto? (a Zelinda e Lindoro)
Lindoro. Sì, signore, siamo stati al di lui servigio, ma ora non ci siamo più.
Facchino. Signore, io non ho tempo da perdere. Se volete che io porti il baule?....
Federico. (Son curioso di saper qualche cosa). (da sè) Vi ho detto la casa mia. Tenete il mio nome. Consegnate il baule al mio fattore, se ci è, e se non ci è, aspettatemi. (al facchino)
Facchino. Oggi è la giornata dei bauli, e dell’aspettare. (parte)
Federico. Voi dunque eravate in casa di don Roberto? (a Lindoro)
Lindoro. Sì signore.
Federico. In qual figura?
Lindoro. Di segretario.
Federico. E questa giovine? (a Zelinda)
Zelinda. Di cameriera di donna Eleonora.
Federico. Come si porta donna Eleonora?
Zelinda. Benissimo.
Lindoro. Scusatemi, signore, sareste voi per avventura il signor don Federico?
Federico. Appunto, come mi conoscete?
Lindoro. Oh la signora donna Eleonora vi ha nominato più volte, ella era impaziente di rivedervi.
Federico. Povera signora! Ha sempre avuta della bontà per me. Ma per qual ragione siete usciti della casa di don Roberto?
Lindoro. Vi racconterò l’istoria, signore....
Zelinda. Che serve andar per le lunghe? Vi è stata qualche picciola differenza; cosa di nulla. Ma noi non possiamo dolerci de’ nostri padroni, neè essi ponno dolersi di noi.
Lindoro. Signore, siamo due sfortunati. Eccoci qui senza impiego, e senz’appoggio veruno.
Federico. Se posso giovarvi, lo farò volentieri. Parlerò col signor don Roberto, e se il motivo per cui siete sortiti di casa non è di gran conseguenza....
Zelinda. Signore, poichè avete la bontà d’interessarvi per noi, mi basta che v’adopriate presso del mio padrone, perchè si contenti di farmi avere la mia roba.
Federico. E per qual causa ve la trattiene? Gli dovete voi qualche cosa?
Zelinda. No, signore, non gli devo niente.
Lindoro. Ma vorrebbe obbligarla a tornare in casa.
Federico. Siete voi dunque che avete voluto sortire? (a Zelinda)
Zelinda. La padrona mi ha licenziato.
Federico. Per qual ragione?
Lindoro. Perchè la signora donna Eleonora.... (con calore)
Zelinda. Ha creduto bene di licenziarmi. Mi avrò demeritato la sua protezione. La servitù non si sposa, e non mi lamento di lei.
Federico. (In verità questa giovine ha degli ottimi sentimenti). (da sè) Sarete, m’immagino, marito e moglie? (alli due)
Lindoro. Non signore.
Federico. Siete fratello e sorella?
Lindoro. Nè meno.
Federico. Ma! due giovinetti insieme.... (verso Zelinda)
Zelinda. Non abbiamo a rimproverarci dalla parte dell’onestà.
Federico. Lo credo, ma non mi pare che vada bene...
Lindoro. E’ verissimo. Avete ragione. Ci vogliamo bene, desideriamo sposarci, e non abbiamo altra colpa che questa per meritare gl’insulti della fortuna.
Federico. Non ci è altro che questo? E perchè il signor don Roberto e la signora donna Eleonora non danno anzi la mano ad un matrimonio conveniente, eguale, onorato? Lasciate fare a me; voglio parlare a’ vostri padroni, voglio persuaderli a quest’opera buona, voglio procurare di vedervi uniti e contenti.
Lindoro. Oh lo volesse il cielo! (con allegrezza)
Zelinda. Il cielo vi ha mandato per noi.
SCENA III.
Donna Eleonora in mantelletta con un Servitore, e detti.
Eleonora. Che vedo! Siete ritornato, signor Federico?
Federico. Oh qual felice incontro! Sono ritornato in questo momento. (Zelinda e Lindoro si turbano)
Eleonora. Ho piacere di rivedervi. Siete qui in tempo che ho gran bisogno di voi.
Federico. Comandatemi. Ma che avete che mi parete agitata?
Eleonora. Sì, ho ragione di esserlo. Non posso reggere alle inquietudini che mi circondano. Sono sul punto di separarmi da mio marito.
Federico. E perchè mai tal cosa, ma perchè mai?
Eleonora. Per causa di quell’indegna. (accennando Zelinda)
Zelinda. Come, signora mia?
Lindoro. Che modo di parlare è il vostro? (ad Eleonora)
Federico. Dite, dite, parlate: qual soggetto avete da lamentarvi di lei? (ad Eleonora)
Eleonora. Ella è amata da mio marito....
Federico. Ora capisco. E possibile una tal cosa? (a Zelinda)
Zelinda. Mi ama, è vero, ma con amore onesto, ma con amore paterno.
Federico. Eh figliuola mia, non credo niente a quest’amorosa paternità.
Lindoro. E vorreste credere alle sue parole?....
Federico. Sì, per tutte le ragioni sono obbligato a credere più a lei che a voi.
Zelinda. Signore, non ci abbandonate per carità.
Federico. Andate, andate. Ho perduta tutta la buona opinione ch’aveva di voi. Imputate tutto il male a voi stessa, e regolate meglio la vostra condotta.
Zelinda. Misera me! Fra tante perdite mie ho da contar quella ancora del mio decoro? Signora, pensate bene alle conseguenze del discredito in cui mi mettete. Io raccomando al cielo la mia innocenza, e a lui rimetto gl’ insulti e le ingiustizie che voi mi fate.
Eleonora. Questo è il linguaggio dei colpevoli e dei temerari.
Lindoro. Non signora: questo è il linguaggio delle persone onorate. E in mezzo alle nostre miserie ci resta tanto spirito e tanto coraggio per confidare nella verità, e riderci della calunnia e dell’impostura. (partono)
SCENA IV.
Don Federico e donna Eleonora.
Eleonora. Sentite a quali impertinenze son io soggetta?
Federico. Ma, cara donna Eleonora, parlano con tale franchezza che mi pare ancora impossibile.... Siete voi ben sicura che don Roberto abbia delle cattive intenzioni, e che quella giovane vi aderisca?
Eleonora. Ne son sicurissima.
Federico. Ma se ella ama il giovane che ho qui veduto, come può nutrire per il padrone....
Eleonora. Non può ella amare il giovane per inclinazione, ed il vecchio per interesse? Ma voi non siete più per me quel vero leale amico, che mi foste per lo passato.
Federico. Signora, sono sempre il medesimo, ed ho per voi la medesima stima; ma sono un uomo d’onore, e non ho animo per compiacervi di fomentare la disunione d’un matrimonio.
Eleonora. Oh, per questa parte ho deciso. Voglio ritornare in casa co’ miei parenti. Non voglio più vivere con mio marito.
Federico. Riflettete che questo è l’estremo dei disordini d’una famiglia; che è l’ultimo eccesso a cui possa arrivare una moglie; che farete ridere il mondo, e che vi pentirete d’averlo fatto.
Eleonora. Sono risolutissima, e vi potete risparmiare l’inutile fatica di dissuadermi.
Federico. Ma che dice il signor don Roberto? Sa egli la vostra risoluzione?
Eleonora. Sì, certo, gliel’ho detta e ridetta.
Federico. E come l’ha ricevuta?
Eleonora. Ha fatto di tutto per acquietarmi. Mi ha pregato, mi ha fatto pregare, ma inutilmente.
Federico. (Ecco il male che ha fatto don Roberto. Se non l’avesse pregata, si sarebbe da se pentita).
Eleonora. Non voglio più vivere con un uomo che vuol favorire una serva a dispetto mio.
Federico. Ma io vorrei pur vedere di accomodarvi....
Eleonora. Non sarà possibile....
Federico. Con decoro vostro....
Eleonora. E’ inutile che me ne parliate.
Federico. Quando è così, non so che dire, fate tutto quel che vi aggrada.
Eleonora. Oh sì, lo farò certamente.
SCENA V.
Fabrizio e detti.
Fabrizio. Oh signora, veniva appunto in traccia di lei.
Eleonora. E dove mi andavate voi ricercando?
Fabrizio. Alla di lei casa paterna. Ho piacere d’averla qui ritrovata.
Eleonora. Vi manda forse il carissimo signor consorte.
Fabrizio. Per l’appunto, è il padrone che manda da lei.
Eleonora. Che dice? Che pretende da me? Vuol persuadermi? vuol obbligarmi a ritornare in casa? Vuol promettermi delle cose grandi? Vuol lusingarmi? Vuol ch’io creda alle sue promesse, al suo pentimento? Via parlate, che cosa vuole da me?
Fabrizio. Signora, nessuna di queste cose. Egli mi ha ordinato, credendo ch’io la trovassi in casa de’ suoi parenti, egli mi ha ordinato dirle, ch’ella è padrona di starvi, e che domani le manderà la sua roba.
Eleonora. Che mi manderà la mia roba? (mortificata)
Federico. (Bravo don Roberto, questa è la maniera di mortificarla).
Eleonora. Che dite voi della tranquillità del mio caro signor consorte? (a don Federico, ironicamente)
Federico. Egli non fa che secondare la vostra risoluzione.
Eleonora. E’ un manifesto dispregio che fa della mia persona.
Federico. Dopo che vi ha pregato, e che vi ha fatto pregare...
Eleonora. Un marito che manca al suo dovere, non prega mai abbastanza una moglie offesa.
Federico. Prima di tutto bisogna vedere s’egli ha mancato, e poi un marito è sempre marito.
Fabrizio. Dunque, senza ch’io l’incomodi d’avvantaggio, domani avrò l’onore di consegnarle la sua roba. (a donna Eleonora)
Eleonora. Lo so, lo so che nessuno mi può vedere. Tutta la servitù mi disprezza, perchè il padrone mi odia. Vorrebbero che io non ci fossi per vivere a modo loro. Ma giuro al cielo! se ritorno in casa....
Fabrizio. Per me, l’assicuro, signora mia...
Federico. Amico, dite al vostro padrone che avrò io l’onore di vederlo fra poco. Signora donna Eleonora, favorite di venire con me.
Eleonora. E dove pensate voi di condurmi?
Federico. A casa mia, se vi contentate.
Eleonora. Se voleste mai condurmi da mio marito, avvertite che siano salve le mie convenienze.
Federico. Sì, sì, andiamo, (sorridendo. Dà la mano a Eleonora e partono)
SCENA VI.
Fabrizio solo.
Ci scommetto che ora che il padrone dice davvero, è ella la prima a raccomandarsi. Le donne fanno dello strepito quando si vedono accarezzate. Ma ecco Zelinda e Lindoro. Vengono a questa volta. L’accidente è per me favorevole. Vuo’ tentar d’obbligarli con delle esibizioni, con delle finezze. Lo stato in cui s’attrovano1 li renderà, io spero, meno orgogliosi.
SCENA VII.
Zelinda, Lindoro, Fabrizio in disparte.
Zelinda. Oh quest’ultimo insulto mi ha avvilita del tutto.
Lindoro. Finalmente la verità deve trionfare, e il mondo vi dovrà render giustizia.
Zelinda. Eh Lindoro mio, le macchie che si fanno all’onore si cancellano difficilmente. Vi protesto che non ho più faccia da comparire; andiamo via, andiamo lungi da questa città, qui non posso più tollerarmi.
Lindoro. Sì, andiamo altrove a cercar miglior destino. Vediamo se vi è occasione per imbarcarci.
Zelinda. Ma la roba mia?
Lindoro. Vi sta sul cuore, vi compatisco.
Zelinda. Mi costa tanti sudori, mi costa tante mortificazioni, e ho da perderla miseramente?
Lindoro. Andiamo a ricorrere alla giustizia.
Zelinda. A ricorrere? Contro di chi? Contro d’un padrone sì buono, che mi ha teneramente amata, e che m’è contrario soltanto perchè mi desidera fortunata?2
Lindoro. I vostri riflessi sono assai ragionevoli. Ma che faremo noi qui, se non abbiamo un ricovero? Se tutto il mondo ci scaccia, c’insulta e ci perseguita?
Zelinda. Sono in un mare di confusioni. (restano pensosi)
Lindoro. Non trovo la via di risolvermi ad alcun partito.
Fabrizio. (Ecco il tempo opportuno per abbordarli. La loro situazione mi è favorevole). (da sè in disparte, e si avanza)
Lindoro. Ma qualche cosa convien risolvere. (si volta) Che pretendete da noi? (a Fabrizio)
Zelinda. Non siete ancora sazio di perseguitarci? (a Fabrizio)
Fabrizio. Mi dispiace nell’anima d’aver contribuito all’ultima vostra disavventura. Ma, cari amici, vedete bene, io non ne ho colpa. Il padrone mi ha comandato....
Zelinda. Eh dite che avete soddisfatto la vostra collera.
Fabrizio. No, vi giuro onoratamente, non ho alcuna collera contro di voi, non ho alcuna idea che vi offenda. Vi compiango, vi compatisco, e se vi ho fatto innocentemente del male, spero di essere in caso di potervi far del bene.
Lindoro. Non è sì facile che io vi presti fede.
Zelinda. E sarebbe per me una nuova disgrazia, se dovessi dipendere da’ vostri soccorsi.
Fabrizio. Io non voglio nè che mi crediate, nè che dipendiate da me. Ho parlato per voi con una persona di qualità, gli ho raccontato il caso vostro, e l’ho persuasa della vostra onestà. Questa persona non è sì sofìstica come molti altri. Spero vi riceverà tutti due al suo servigio senz’alcuna difficoltà.
Zelinda. No, no, vi ringrazio, non ne son persuasa.
Lindoro. Ma vediamo chi è la persona....
Zelinda. Ora siamo scoperti, e non è da sperare che nessuno ci voglia uniti.
Lindoro. Perchè? Se si persuadono del nostro contegno....
Zelinda. No, vi dico, non faremo niente.
Lindoro. Ma voi vi volete abbandonare alla disperazione. (con un poco di caldo)
Zelinda. Via, non v’inquietate. Provate se sia possibile, ed io son pronta a seguirvi. (dolcemente)
Fabrizio. (Eh, a poco a poco si ridurranno). (da sè)
Lindoro. Chi è questa persona? Si può sapere? (a Fabrizio)
Fabrizio. Ve la farò conoscer domani. Ma intanto dove vi ricovrerete voi questa notte? (verso Zelinda)
Zelinda. Qualche ricovero non ci mancherà.
Lindoro. Per altro l’ora si avanza, e converrebbe pensarci.
Fabrizio. Ho parlato ancora per questo. Vi è una mia parente, donna di tempo, conosciuta, onorata, che a mio riguardo vi riceve.
Lindoro. Come! Pretendereste che io conducessi Zelinda in una casa che vi appartiene per aver la libertà di vederla?....
Zelinda. Vedete, se ci possiamo fidare di lui? (a Lindoro)
Fabrizio. Ma voi prendete tutto in sinistra parte. V’insegnerò la casa di mia cugina. Non verrò nemmeno con voi, e vi prometto sull’onor mio, che fin che ci siete voi, non ci metterò piede. Non vi costerà niente, non ispenderete un quattrino, ed io non ci metterò piede.
Lindoro. Quando la cosa fosse così....
Zelinda. No, non ci dobbiamo fidare. (a Lindoro)
Lindoro. No dunque? (a Zelinda)
Zelinda. No, vi dico, assolutamente no.
Lindoro. Zelinda non vuole, e credo abbia ragione di non volerlo. (a Fabrizio)
Fabrizio. (La giovane la sa più lunga di lui). (da sè)
Lindoro. E’ vero che lo stato nostro ci dovrebbe far prendere qualche partito. Ma Zelinda pensa bene, non ci conviene la vostra proposizione.
Fabrizio. Non so che dire, fate quel che volete, ma io non ho cuore di vedervi nella necessità. Non volete passare da mia cugina? Avete paura che io manchi alla mia parola? Che io venga ad importunarvi? Ebbene, soffrite che in qualche modo io possa sollevarmi dal mio rimorso. Ricevete dalla mia amicizia questo lieve soccorso. Ecco in questa borsa quattro zecchini. (tira fuori la borsa, e la fa vedere) Accettateli senz’alcun obbligo di restituzione.
Zelinda. Li accetterei per carità da ogn’altro; non l’accetto da voi, perchè la vostra mano è sospetta.
Fabrizio. Ebbene dunque, se ricusate un benefizio che vien da me, vi svelerò il mistero, e parlerò benchè abbia ordine di non parlare. Questi quattro zecchini vengono dalle mani di don Roberto. Egli mi ha dato ordine di darveli segretamente. (tiene la borsa in atto di presentarla a Zelinda)
Zelinda. Sì, ora li prendo. (prende la borsa con violenza) Il signor don Roberto ha tanto del mio nelle mani che può mandarmi un sì piccolo sovvenimento; e quando anche non avesse del mio, la sua bontà, la sua onestà, non mi metterebbero in pena per ricevere un benefizio dalle sue mani.
Lindoro. Ha ragione ed ha fatto bene a riceverli. (a Fabrizio)
Fabrizio. (Tento tutte le vie per guadagnare un poco di confidenza), (da sè)
Zelinda. E aveste l’ardire d’offrirmi questo danaro, come un effetto della vostra liberalità?
Fabrizio. Finalmente non è poi sì gran cosa di fare per conto mio...
Zelinda. No, non siete capace d’un’azion generosa.
Fabrizio. Voi mi trattate male fuor di proposito.
Zelinda. Un’anima bassa che ha avuto cuore di esporci al rossore ed alla miseria, non può concepire nè pietà, nè rimorso.
Lindoro. Mi pareva impossibile che foste capace d’una buona azione.
Fabrizio. Voi mi offendete, e per confondervi, vi dico, e vi sosterrò, che il signor don Roberto non ne sa niente, e che sono io che vi ho regalato i quattro zecchini.
Zelinda. Quando è così, tenete la vostra borsa. (getta la borsa a’ piedi di Fabrizio)
Lindoro. (Zelinda ha parlato troppo). (da sè)
Fabrizio. La vostra superbia, la vostra ingratitudine, vi ridurrà all’estrema miseria. (a Zelinda)
Zelinda. No, grazie al cielo, non sono nè superba, nè ingrata. Ma vi conosco, so il motivo che vi anima e che vi sprona, e mi vergognerei di ricevere alcun soccorso da un uomo col dubbio ch’egli potesse formare qualche disegno sopra di me.
Fabrizio. Ma io non ho disegno veruno.
Zelinda. Basta così, non m’inquietate, vi supplico, d’avvantaggio.
Fabrizio. Restate dunque nella vostra miseria. Nutritevi di sì bell’eroismo, ed aspettate che un’altra mano vi porti que’ soccorsi che non meritate. Per me mi fate più ira che compassione. Non ho mai più veduto persone di tal carattere, indocile, orgoglioso, ostinato. Vi pentirete, e vi ricorderete di me. (va per partire, e lascia la borsa)
Zelinda. Non mi pentirò mai d’aver deluso l’inganno.
Lindoro. Ha lasciato la borsa.... (vuol prenderla, torna Fabrizio e la lascia)
Fabrizio. Questo danaro servirà a miglior uso. Voi non lo meritate, ed io ve l’offriva senza ragione. (prende la borsa, e parte)
SCENA VIII.
Zelinda e Lindoro.
Zelinda. Con quale intenzione volevate voi raccogliere quella borsa? (a Lindoro)
Lindoro. Il danno che colui ci ha recato non merita forse un qualche risarcimento? (mortificato)
Zelinda. Ah Lindoro, Lindoro, pur troppo è vero. La miseria talvolta fa commettere delle bassezze.
Lindoro. Sì, è vero; ma non è per me che io cerchi i sovvenimenti. Siete voi che mi fate pietà.
Zelinda. Oh cieli! cosa sarà di noi? Se la fortuna continua a perseguitarci, a quali pericoli andremo incontro? Credetemi, quest’esempio mi fa tremare: il bisogno ci può lusingare; e come fidarci della buona intenzione di chi benefica senza conoscerne il fondo?
Lindoro. E’ vero, Zelinda, è verissimo. Ma facciamo così. Mi viene ora un pensiere. Credo che il cielo me lo suggerisca. Andiamo a Genova, andiamo a presentarci a mio padre. Possibile ch’egli mi scacci villanamente, ch’egli non si mova a pietà?
Zelinda. Questo è un passo che si potrebbe tentare, ma come intraprendere il viaggio? Sono novanta miglia, si dee passar la Bocchetta, vi sono delle altre montagne incomode. A piedi, io non ho coraggio di farle, e per calesse ci manca il modo.
Lindoro. Poveri noi! il nostro male non ha rimedio.
Zelinda. Ve ne sarebbe uno, un solo ve ne sarebbe per noi.
Lindoro. E quale, mia cara Zelinda?
Zelinda. Eccolo qui, ascoltatemi. Non vi è altro caso, non vi è altra speranza per noi, se non che io vada a gettarmi nelle braccia del signor don Roberto. Sapete l’amore, la bontà che ha per me, e siete sicuro ch’egli pensa da uomo onesto, e colla più rigorosa delicatezza. Don Flaminio e Fabrizio sono scoperti, li temo meno, ed il padrone saprà assicurarmi dalle loro molestie. La padrona, o non è più in casa, o se vi torna, sarà probabilmente con delle condizioni che la renderanno meno orgogliosa. Tutta la difficoltà è per voi. Non posso lusingarmi che il signor don Roberto vi riceva in casa con me, ma posso bene colla roba mia, col mio danaro e co’ miei profitti soccorrervi fin che ne avete bisogno, finchè sappiate le ultime risoluzioni di vostro padre, o che troviate un onesto impiego in Pavia. Saprò almeno che siete qui, vi vedrò qualche volta, mi può riuscir di persuader il padrone in vostro favore. S’ei venisse a morire, che il cielo non lo voglia, mi ha promesso beneficarmi. Così, il mio caro, il mio adorato Lindoro, soccorriamo decentemente la nostra miseria, metto in sicuro il mio decoro e la mia onestà. Vi amerò sempre colla sola pena di non vedervi, e colla dolce speranza che possiamo essere un dì contenti. (con tenerezza)
Lindoro. (Piange, e non risponde.)
Zelinda. Anima mia, che dite? Oh Dio! piangete? Non rispondete?
Lindoro. Che volete che io dica? Avete ragione; andate che il ciel vi benedica.
Zelinda. Ah no, se ciò vi fa tanta pena, non anderò, resterò con voi.
Lindoro. E a far che? Poverina! a penare? a patire? Ah no, andate, ne son contento, ma non m’impedite almeno di piangere il mio destino.
Zelinda. Ma io non ho cuor di lasciarvi in uno stato sì doloroso.
Lindoro. No, cara, non vi affliggete, non vi arrestate per me. So che mi amate, e ciò mi basta per consolarmi. (procura di rasserenarsi)
Zelinda. Andrò dunque.... (parte)
SCENA IX.
Lindoro, poi Zelinda.
Lindoro. Misero me! non so in che mondo mi sia. Come mai potrò vivere da lei lontano? Numi, assistetemi per pietà. (s’appoggia ad una scena per afflizione)
Zelinda. Ah Lindoro, Lindoro. (affannata)
Lindoro. Che ci è, mia vita? Siete voi cangiata di sentimento? (con forza)
Zelinda. Ho veduto don Flaminio da quella parte, mi ha scoperta. Tremo, pavento, vorrei nascondermi, e non so dove.
Lindoro. Là, là, non temete.
Zelinda. Là, nel corpo di guardia?
Lindoro. No, diavolo, fra i soldati; colà fra quegli alberi, dietro di quella catasta di legna. Se ardirà seguirvi, avrà che far con me.
Zelinda. Non vi esponete, per amor del cielo....
Lindoro. Non temete di nulla; eccolo, eccolo, andate.
Zelinda. Quando mai finirò di tremare? (parte)
SCENA X.
Lindoro, poi don Flaminio.
Lindoro. Ecco la ragione de’ miei timori.
Flaminio. Crede ella che non mi dia l’animo di arrivarla? (correndo dietro a Zelinda)
Lindoro. Dove andate, signore?
Flaminio. Voi in disposizione d’impedirmi il passo?
Lindoro. Sì, signore, lo qui, disposto di tutto perdere, piuttostochè abbandonarvi Zelinda.
Flaminio. Prosontuoso che siete! Io mi rido di voi, e la raggiungerò vostro malgrado. (si avanza)
Lindoro. Giuro al cielo! voi passerete3 per questa spada. (mette mano alla spada)
Flaminio. Temerario! in faccia al corpo di guardia! (mette mano per difendersi)
SCENA XI.
Il Caporale con sei Soldati
Caporale. Alto, alto. Cosa è quest’impertinenza?
Flaminio. Io non fo che difendermi dagl’insulti d’un forsennato.
Caporale. Lo so benissimo. E voi, sugli occhi medesimi della sentinella?.... (a Lindoro)
Lindoro. Ah signore, scusate l’amore, il timore, la disperazione.
Caporale. Rendete la spada.
Lindoro. Eccola. (dà la spada ad un soldato)
Caporale. Conduciamolo alla gran Guardia. (ai soldati)
Lindoro. Numi, vi raccomando la mia Zelinda. (parte scortato dai soldati e dal caporale)
SCENA XII.
Don Flaminio, poi Zelinda.
Flaminio. Suo danno, non m’impedirà più di rintracciare Zelinda... Ma eccola a questa volta.
Zelinda. Ah barbaro! sarete ora contento? Il povero mio Lindoro è arrestato. Ma che credete perciò? di avermi in vostra balìa? V’ingannate. Morirò piuttosto che soffrire la vista di un oggetto che io abborrisco, che io odio. Non vi lusingate di trionfare di me, e non isperate d’andar esente da quella pena che meritate. Sì, donna qual mi vedete, avrò spirito, avrò coraggio per ricorrere, per farmi intendere, per domandare, per ottenere giustizia. Sarà il mio primo giudice vostro padre; s’ei non mi ascolta, saprò ricorrere a’ tribunali, e se tutto il mondo mi manca, colla mia mano, sì colla mia mano medesima, vendicherò Lindoro, vendicherò me stessa, punirò un ingiusto, punirò un persecutore dell’onestà, del decoro, dell’innocenza. (parie)
SCENA XIll.
Don Flaminio solo.
Costei è una vipera, è una furia, è un demonio, e tal la rende un vero amore, una perfetta costanza. Che dirà mio padre di me e della mia condotta, dopo le proibizioni ch’egli mi ha fatte? Sono perduto, se io non impetro il di lui perdono. Ma convien meritarlo. Sì, andrò4 io stesso a gettarmi a’ suoi piedi. Gli prometterò il pentimento, il cambiamento di vita, l’abbandono totale d’ogni pensiero sopra Zelinda.... Ma sarò io in istato di mantenerlo? Sì, certo; lo manterrò. L’ho detto, son galantuomo, non vi penserò più. Ma un’altra cosa mi sta sul cuore. Il trattamento villano che ho usato alla cantatrice. Ella non lo merita, ed io ne sono mortificato; ma andrò a vederla, farò seco lei il mio dovere, e cercherò ogni strada per compensare colle attenzioni la pena che a quella buona giovane ho cagionata. Amore mi avea acciecato. La ragione m’illumina, e mi consiglia. (parte)
SCENA XIV.
Camera di don Roberto.
Don Roberto e don Federico.
Roberto. Orsù, signor don Federico, non voglio parere ostinato. Mia moglie non merita ch’io mi scordi sì presto le inquietudini che mi ha dato, ma son di buon cuore, e in grazia vostra son pronto a riceverla, e a perdonarle.
Federico. Vi lodo e vi ringrazio per conto mio. Mi permettete ch’io vada a prenderla, e che ve la conduca immediatamente?
Roberto. Sì, tutto quel che volete.
Federico. Circa alle scuse ch’ella vi dovrebbe fare....
Roberto. No, no, la dispenso da questo cerimoniale; venga con animo d’esser buona, e mi troverà amoroso per lei.
Federico. Bravo, così va bene. (Manco male che l’ha esentata dagli atti di sommissione. E’ la miglior donna del mondo, ma è un poco troppo ostinata). (da sè, parte)
SCENA XV.
Don Roberto, poi Zelinda, poi Fabrizio.
Roberto. Tutto potrei sopportare. Ma l’astio, la persecuzione a quella povera figlia, mi passa l’anima, mi affligge infinitamente.
Zelinda. (Eccolo. Oh cieli! non ho coraggio di presentarmi). (da sè indietro, piangendo)
Roberto. Dove mai sarà la povera mia Zelinda? che farà la povera sfortunata? (Zelinda piange) Chi sa, se la vedrò più! Chi sa che quell’ardito di Lindoro non abbia finito di precipitarla!
Zelinda. (Piange forte, e don Roberto si volta.)
Roberto. Oh cieli! eccola qui. Eccola, eccola, la mia Zelinda. (le corre incontro con allegrezza)
Zelinda. Signore, vi domando perdono. (piangendo)
Roberto. Sì, cara figliuola, vi perdono assai volentieri. Ero in pena per voi; mi consolo di rivedervi. Il cielo finalmente vi ha illuminata. Siete ritornata con me, spero che non mi abbandonerete mai.
Zelinda. Ah signore, le mie disavventure si aumentano, la mia miseria è estrema, per colmo della mia disgrazia, il mio povero Lindoro è prigione.
Roberto. In prigione Lindoro! Che cosa ha fatto quel disgraziato?
Zelinda. Non ha altra colpa il meschino che avermi difesa dalle persecuzioni di vostro figlio.
Roberto. Ah figlio indegno, disobbediente, ribaldo!
Zelinda. Se avete ancora della pietà per me, accordatemi una sola grazia, vi prego.
Roberto. Povera figlia! dite, che posso fare per voi?
Zelinda. Datemi il mio poco danaro, datemi la mia roba, per carità.
Roberto. E che vorreste voi farne?
Zelinda. Vender tutto, impiegar tutto, per liberare Lindoro5.
Roberto. Ed è possibile che non vogliate disingannarvi? che vogliate amarlo ostinatamente? perdervi per sua cagione? perdere l’amor mio, le speranze ch’avete sopra di me, la vostra pace, la vostra tranquillità?
Zelinda. Perderei me stessa per liberare Lindoro. (piange)
Roberto. (Che amore è questo! che costanza inaudita, che tenerezza, che fedeltà! Ed io sarò sì barbaro per oppormi ad un tal legame? Diffiderò che la provvidenza non sia per favorire un affetto sì puro, sì costante, sì virtuoso?) (da sè)
Zelinda. Eccomi a’ vostri piedi, signore.... (s’inginocchia)
Roberto. Alzatevi. (inquieto) In qual prigione è Lindoro?
Zelinda. Non lo so, signore.
Roberto. Chi l’ha arrestato? (inquieto)
Zelinda. La guardia ch’è destinata al Ticino.
Roberto. Quanto tempo sarà?
Zelinda. Mezz’ora appena.
Roberto. Sarà tuttavia alla gran Guardia.... Il capitano è mio amico. Ma che ha egli fatto contro mio figlio? lo ha insultato? lo ha ferito? lo ha maltrattato?
Zelinda. Nulla di ciò, signore, non ha che messo mano alla spada. Deh perdonategli questo giovanile trasporto. (vuole inginocchiarsi)
Roberto. Fermatevi. (Non ho cuor di resistere più lungamente). (da sè) Ehi, chi è di là?
Fabrizio. Signore.
Roberto. Andate subito alla gran Guardia. Riverite il capitano per parte mia, e se Lindoro è tuttavia in suo potere, ditegli.... Sì, ch’egli è il mio segretario, ch’io ne sarò risponsabile, e che mi rendo cauzione per lui.
Fabrizio. Sì signore....
Zelinda. Oh me felice! Ditegli ch’è il segretario del signor don Roberto, del mio caro padrone, che perdona a me, che perdona a lui, che si è mosso a pietà delle mie lagrime, e delle nostre sventure. (a Fabrizio)
Roberto. Chi può resistere a una sì bella passione? (a Fabrizio)
Fabrizio. Avete ragione, signore. Ella merita tutto. Zelinda, vi domando scusa, e vi prometto di non inquietarvi mai più. (Bisogna farsi un merito della necessità). (da sè, parte)
Zelinda. Oh quante grazie! oh quante obbligazioni! oh quanta bontà che voi avete per me!
Roberto. Non so che dire. Voi persistete a voler Lindoro. Io lo6 faccio mal volontieri.
Zelinda. Perchè, signore, mal volentieri? Oh se sapeste quanto egli è amabile! quanto è egli buono.... Ma oh cieli! Ecco qui la padrona. (timorosa)
Roberto. Non temete di nulla. Spero che la troverete più docile, e meno austera.
SCENA XVI.
Donna Eleonora, don Federico e detti.
Federico. Venite, signora, che il signor don Roberto desidera di abbracciarvi.
Eleonora. S’ei lo desidera.... (Ma qui ancora costei!) (da sè)
Roberto. Consorte carissima, è inutile l’esaminare se voi od io7 lo desideriamo. In ogni caso facciamo tutti due il nostro dovere. Una sola condizione io pongo al piacer della nostra unione, ed è che tolleriate in pace questa buona, questa savia, quest’onorata fanciulla.
Eleonora. (Il sottomettermi è cosa dura, ma la necessità mi consiglia). (da sè)
Federico. Che dite, signora mia? avete obietti in contrario?
Eleonora. No, sono ragionevole.... sono umana.... Mi fido del buon carattere di mio consorte.... la credo onesta.... la credo innocente.... Resti pure ch’io ne sono contenta, (dissimulando)
Zelinda. Lodato il cielo. Vi ringrazio di cuore, e vi prometto tutta l’attenzione e il rispetto.... Sento gente. Sarebbe mai il mio Lindoro?... (Ah no, è quell’importuno di don Flaminio). (da sè)
SCENA XVII.
Don Flaminio e detti.
Flaminio. Deh caro padre....
Roberto. Temerario! ardisci ancora comparirmi dinanzi?
Flaminio. Vi domando perdono. So che non lo merito, ma siete troppo buono per negarlo ad un figlio ch’è di cuore pentito, e che vi giura di non disgustarvi per l’avvenire.
Roberto. Vedi tu questa giovane? (accennando Zelinda)
Flaminio. La veggo, la rispetto, la stimo, e vi prometto di non molestarla mai più.
Roberto. Se così è, ti perdono.
Zelinda. Oh quante consolazioni per me! ma quando verrà la maggiore? Quando verrà il mio caro.... Ecco Fabrizio. Oh cieli! non vi è Lindoro.
SCENA XVIll.
Fabrizio, il Caporale e detti.
Fabrizio. Ecco qui il caporale che ha arrestato Lindoro. (a don Roberto)
Zelinda. Oh Dio! cos’è di lui? Dov’è? non lo vedo. Perchè non viene? (a Fabrizio)
Fabrizio. Aspettate un momento, e lo vedrete.
Zelinda. Lo vedrò? (con allegrezza)
Fabrizio. Lo vedrete.
Zelinda. Oh cieli! non vedo l’ora.
Roberto. Ebbene, signor caporale?
Caporale. Quando mi lascieranno parlare, parlerò. Il signor capitano che vi stima e rispetta, vi manda il segretario sulla vostra parola....
Zelinda. Ma dov’è? (al caporale)
Caporale. Un momento di tempo. (a Zelinda) Basta che voi promettiate di rimetterlo, se bisogna, per gli effetti della giustizia. (a don Roberto)
Roberto. Sì signore, prometto....
Zelinda. Di rimetterlo alla giustizia? (a don Roberto, agitata)
Roberto. Non dubitate, lasciate la cura a me. (a Zelinda) Prometto di rimetterlo, se bisognerà. (al caporale)
Caporale. Quand’è così, ve lo rilascio subito in libertà. Elà, soldati, lasciate libero il prigioniero. (alla scena)
Zelinda. Eccolo, eccolo. (gli corre incontro)
SCENA ULTIMA.
Lindoro e detti.
Lindoro. Ah cara Zelinda! | (s’abbracciano modestamente) |
Zelinda. Ah il mio adorato Lindoro! |
Lindoro. Che piacer! | (piangono d’allegrezza, e restano ammutoliti) |
Zelinda. Che consolazione! |
Roberto. E avrete cuore d’insultarli? d’offenderli? di perseguitarli? (a donna Eleonora, a don Flaminio e a Fabrizio)
Zelinda. Eccolo, eccolo il nostro protettore, il nostro8 amorosissimo padre, il nostro liberale benefattore. (a Lindoro, accennando don Roberto)
Lindoro. Ah signore.... (s’inginocchia a’ piedi di don Roberto)
Zelinda. Ah il mio caro padrone.... (s’inginocchia dall’altra parte)
Roberto. Non posso trattenere le lagrime. (s’asciuga gli occhi) Alzatevi, figliuoli miei, alzatevi. Veggo benissimo che i vostri amori sono innocenti, sono approvati dal cielo, e mi sento mosso a favorire la vostra unione. Non so chi sia vostro padre. (a Lindoro) Voi me lo confiderete, ed io m’impegno di scrivergli, e di persuaderlo. Restate meco frattanto, riprendete l’uno e l’altro il posto in casa, nell’amor mio, e nel mio cuore. Amatevi sempre, e poichè pare che il cielo vi voglia uniti, sposatevi, ch’io v’acconsento.
Zelinda. Caro Lindoro! | (s'abbracciano.) |
Lindoro. Oh amor mio! |
Roberto. E voi rispettate il decreto del cielo, e l’opera della mia mano. (a donna Eleonora e a don Flaminio)
Eleonora. Ne sono anch’io penetrata, ve l’assicuro.
Flaminio. Contribuirò anch’io, quanto posso, alla loro felicità.
Zelinda. Benedetto il cielo che ci ha assistiti, benedetto il padrone che ci ha protetti. Signori miei, voi che siete sì teneri e sì gentili, consolatevi del lieto fine degli amori di Zelinda e Lindoro, ed onorateli, se ne sono degni della vostra umanissima approvazione.
Fine della Commedia.