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346 fausto.

Proteo, in dignitoso aspetto. Ah! li ricordi tu ancora delle malizie del mondo?

Talete. E tu, non hai ancora perduto il ticchio di mutar forma? (Scopre Homunculus.)

Proteo, maravigliato. Un piccolo nano sfolgorante di luce! Non vid’io mai nulla di simile!

Talete. Ei ti domanda consiglio, mentre si terrebbe a ventura di esistere. Per quel che n’udii, gli è venuto al mondo nel modo più bizzarro, e, come vedi, solo per metà. L’intelligenza non gli fallisce; ciò che al postutto gli manca, è il solido, il palpabile. Finora ebbe dalla guastada un po’ di gravità, e non gli dorrebbe d’assumere un corpo al più tosto.

Proteo. Figliuolo verace di una vergine, prima che tu debba esistere già esisti.

Talete, a voce bassa. Parmi dubbio non poco un altro punto: ho forte sospetto, non sia egli un essere ermafrodito.

Proteo. E ciò renderàgli più spedito il riuscire nell’intento: nasca poi quel che sa nascere, l’affare s’acconcerà. Ma non trattasi qui di deliberare; chè tu dèi avere origine dal vasto mare! Là s’incomincia da piccolo, e pigliando gusto ad inghiottire gli esseri anche più piccoli, crescesi poco alla volta, e s’informa per fini più dignitosi e più alti.

Homunculus. Quivi spira una dolce brezza, quel prato s’infiora, e l’olezzo m’inebbria.

Proteo. Te lo credo, mio vezzoso fanciullo, e colaggiù ti piacerà a mille doppi, su quella stretta lingua di terreno dove la dolcezza dell’atmosfera è ineffabile; là dinanzi a noi mirasi il corteggio che