Faust/Parte seconda/Atto secondo
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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ATTO SECONDO.
Una camera gotica a vòlta ed angusta, abitazione un tempo di Fausto. Ogni suppellettile vi è allogata com’era a quell’epoca. Mefistofele che apparisce dietro una cortina. (Nell’atto ch’ei la solleva e si volge, vedesi Fausto steso sur un letto di antico lavoro.) Dormi ora, o miserabile! avvinto e stretto da’ lacci indissolubili dell’amore: chi fu da Elena ammaliato, non rifà senno sì tosto. (Sguardando intorno a sè.) Per quanto osservi attentamente da ogni parte, nulla venne qui disse stato nè guasto; le invetriate a colori sonosi, in vista, un pocolino appannate, numerosi più assai mostransi i ragnateli, l’inchiostro s’è ispessito, la carta ingiallita; se ciò ne togli, tutto è per appunto siccome allora. Evvi ancora la penna colla quale Fausto segnava il suo patto col diavolo, e, poffare! su in fondo al tuberello vedesi rappresa una gocciolina del sangue ch’io gli ebbi spicciato; arnese unico nel suo genere, cui con tutta l’anima vorrei cadesse in mano al più accreditato fra gli antiquari! La vecchia e logora pelliccia è appiccata tuttora al medesimo vecchio arpione: mi torna in mente al vederla la ridicola mia avventura di un tempo, e le belle teorie ch’io snocciolai a quel cotale scolaro1 che adesso fattosi uomo, vi si lambicca forse il cervello. In verità, che mi prende il ticchio, vecchio e rozzo pastrano, di provare, indossandoli per la seconda volta, il bel caldo che rimandi, e assiso in alto da dottorone, bearmi nel pensiero della mia infallibilità. E’ vuolsi essere della razza de’ sapienti per atteggiarsi al modo loro; e il diavolo ne ha perduto l’uso da lunga pezza. (Scote la pelliccia, e n’escono fuori locuste e scarafaggi d’ogni ragione.)
Coro d’Insetti. Salve! oh salve! antico signor nostro. Noi svolazziamo e ronziamo perocchè ci se’ noto e palese. Tu ci seminavi qui, uno per ciascuna specie, e veniamo, o padre, a miriadi intorno a te a farti festa. La perfidia celasi entro al caore per siffatta guisa, che più agevole riesce lo scoprire in codesti lunghi peli i pidocchi.
Mefistofele. Oh! che dolce solletico mi dà la novella vostra razza! Seminate dunque, e il tempo di raccogliere non fia per mancare. Ho un bello scuotere questo misero straccio, che da ogni scossa sempre ne scaturisce qualcuno. — Libratevi a volo, mie piccole creature, itene leste a rannicchiarvi ne’ centomila cantucci della stanza! Là tra que’ vecchi barattoli, qua in mezzo a quelle oscure pergamene, que’ cocci polverosi d’orciuoli fessi e fuor d’uso, o se vi piace entro alle vuote occhiaie di que’ teschi bianchicci. In tanta copia di lezzo e di spazzatura da ogni lato ammucchiata, i grilli possono durarla per una eternità. (Indossa la pelliccia.) Vieni, fasciami di bel nuovo le spalle! Quest’oggi torno dottore. Sì, certo, ma il nome non basta; dov’è poi chi per tale mi riconosca? (Dà di strappo al campanello, e un suono acuto e forte rintrona; le pareti ne traballano, e le porte si spalancano violentemente.)
FAMULUS, mal sorreggendosi sui tremuli ginocchi, si avanza dalla parte del corritoio lungo ed oscuro.
Qual romba maladella! Oh spavento! Le scale traballano, i muri sussultano! Traverso al fremente tintinno delle in vetriate a mille colori, miro i lampi guizzare della tempesta. L’ammattonato sobbalza, la calce scassinata cade giù dall’alto a ribocco, e la porta, tuttochè sbarrata da grosso chiavaccio, va in isconquasso spinta da una possa sopra natura. — Ah! vista orribile! un gigante s’è asfibbiata la vecchia pelliccia di Fausto! A quell’aspetto, a quella sguardatura, mi vacillano sotto le ginocchia. Debbo io fuggire? oppur rimanere? Dio! Dio! che sia dunque di me?
Mefistofele fa un cenno colla mano. Apprèssati, amico! — Hai tu nome Nicodemo?
Famulus. Così in fatti mi chiamano, o nobile ed onorevole signore. — Oremus.
Mefistofele. Lasciam questo per ora!
Famulus. Ho molto a caro che mi conosciate!
Mefistofele. Troppo bene ti conosco, vecchio, e sempre a studio, maestro inverniciato! Un uom di dottrina non rifinisce mai di studiare, dacchè non sa altro fare che questo. Per tal modo vassi egli costruendo un mediocre castello di carte, cui il più gran genio del mondo non arriva a compiere giammai. Il tuo padrone, oh quello sì ch’è uomo meraviglioso! Evvi forse alcuno il quale non conosca il nobile dottor Wagner, il maggior sapiente ond’oggi vantisi il mondo? — quegli che tutto sostiene da solo, quegli che di giorno in giorno i tesori accresce della scienza? Tutti accorrono intorno a lui smagiosi di ascoltare le sue dottrine. Egli è il solo che faccia spicco dalla cattedra; che usi a talento delle chiavi di San Pietro, e vi disserri ad un tempo i due mondi, l’alto ed il basso. Tali e cosiffatti sono la sua gloria e lo splendore che l’accompagna per tutto, da vincere al paragone qual è più chiara ed insigne rinomanza; lo stesso Fausto n’è sopraffatto. — Egli solo, in breve, trionfa.
Famulus. Perdonate, onorevole signore, se ardisco contraddirvi: ma gli è tutt’altro che ciò; sappiate il primo vanto di lui essere la modestia. Egli non sa darsi pace della incredibile scomparsa del grand’uomo, ed ogni sua grande consolazione ed ogni salute nel ritorno di esso unicamente ha riposta. Codesta camera, tale oggidì quale per punto mostra vasi a’ tempi del dottor Fausto, e dove non pure un bruscolo venne toccato dall’ora del suo dipartire, è sempre in attesa dell’antico signore; e appena è ch’io rischi m’arrischi di mettervi piede. Quai venture fia mai che n’arrechi la costellazione di questo istante? — Le pareti paiono tremolanti, gli usci si smossero, i chiavacci andarono in pezzi: e, se ciò non era, come avreste voi medesimo potuto entrar qui?
Mefistofele. Ove diamine s’è dunque il tuo padron rintanato? Guidami a lui, o piuttosto fa di condurlo ov’io sono.
Famulus. Oh! questo poi no! La risoluzione di non varcare mai più codesta soglia è severa, così ch’io non vo’ azzardare di tentarlo. Occupato da mesi e mesi nella grand’opera, passa la sua vita in silenzio e in un totale isolamento. Quest’uomo il più schifiltoso di quanti mai fossero gli scienziati, l’avreste in conto di un carbonaio; tutto pien di fuliggine dagli orecchi al naso, cogli occhi rossi come bragia pel continuo divampare del fornello, esaltato dalle sue scientifiche speculazioni, va continuo struggendosi, lo scricchiolare delle molle reputando qual musica grata e soave.
Mefistofele. Può egli mai ricusar di vedermi? Io son tale che valgo ad accelerare la buona riuscita della sua intrapresa.
(Famulus esce; Mefistofele va a sedere con sussiego.) Sono appena al mio posto, ed ecco, dietro a me, affrettarsi un ospite che non mi è punto sconosciuto; questa fiata poi, s’è fatto de’ più smaniosi fra gl’iniziali, e mi aspetto vederlo uscir fuori de’ gangheri.
Un BACCELLIERE entra a passi concitati dalla parte del corritoio.
Il portone e l’uscio spalancati. Ciò mi dà a sperare che l’uomo ancora vivente non voglia oramai più persistere nella mattìa di tenersi sepolto al pari di un morto nella polvere, a logorarsi, come ha fatto sinora, a muffare, anzi a venir meno nel maggior rigoglio della vita.
Codesti muri maestri, e codeste pareti, oggimai fuori di squadra, minacciano ruina, e un dì o l’altro, se non vi si abbada, vi rimarrem sotto sfracellati, Coraggioso io mi sono al pari di chicchessia, pur pure nessuno farebbemi porre un sol piede più in là.
Ma che mi tocca mai oggi a vedere? Non è egli qui, dove molti anni addietro traeva pauroso ed allenato, imberbe sempliciotto, ad ascoltare con piena fidanza gl’insegnamenti di codesto vecchio barbogio, e a trar motivo di edificazione dalle sue chiappolerie?
Sepolti in mezzo a’ loro libracci, mi spacciavano eglino frottole in buondato e bugie — ch’e’ sapevano senza crederne boccicata — sprecando così la mia vita e insieme la loro. Che è? che non è? Laggiù in fondo, su quella scranna tiensi oggi pure un di questi parabolani seduto!
Ma, quanto più me gli appresso, e più l’aspetto di lui mi sorprende; è proprio desso! Ravvolto, or come allora, nella sua lurida pelliccia; per appunto quale me l’ebbi lasciato! S’ho a dire il vero, parevami a que’ di ch’e’ la sapesse lunga, però che io non era per anco al grado di ben capirlo. Oggidì poi, e’ non varrà più ad accalappiarmi. All’erta dunque, avviciniamoci a lui!
Mio vecchio messere, se i pantanosi flutti di Lete non hanno affatto sommerso il vostro capo calvo e pesante, dovete ravvisare in me uno scolaro che ha trascorsa l’età delle discipline accademiche. Voi mi parete essere tal quale vi lasciai; io all’incontro vi torno dinanzi tutt’altro da quello che fui.
Mefistofele. Reputo a ventura che il mio scampanellare v’abbia qui tratto. Non poca stima per lo addietro ebbi giả di voi concepita: e l’involucro e la crisalide ne stanno mallevadori della bellezza e leggiadria che avrà un dì la farfalla. L’infantile vostra gloriuzza stava a quel tempo nella chioma ricciuta, e nel collarino di ricco e fino merletto. — Anzi, o prendo abbaglio, neppure foste mai veduto colla coda. Ed oggi all’incontro, veggovi con un bel berretto ben complesso, aitante e pien d’ardimento; noto solo, che al postullo, voi non siete più in casa vostra.
Il Baccelliere. Mio vecchio messere, ciascuno di noi occupa l’istesso luogo; nondimeno ponete mente a’ tempi che sono trascorsi, e lasciate andare, ve ne prego, i molti equivoci, però ch’io potrei risentirmene. Vi piaceste in antico a dileggiare giovinetti semplici e schietti: ma se il farlo riusciva agevol cosa a que’ dì, nessuno vorrebbe cimentarvisi al di d’oggi.
Mefistofele. Quando si cantano certe verità ai giovani, la è indubitata che abbiano gli sbarbatelli a dolersene e a prenderlo in mala parte: come poi, coll’andare degli anni, dovettero apparare il vero alle proprie spese, e’ stimano che una tal conoscenza sia scaturita fuori del loro cervello, e ricisamente sentenziano essere stato il maestro un imbecille.
Il Baccelliere. O fors’anco un mariuolo! — imperocchè dove rinvenire un maestro che ne dica in faccia la verità? Ciascuno l’amplifica o l’attenua quando in aria severa, quando con piglio dolce e discreto, giusta la maggiore o minore ingenuità de’ garzoni co’ quali ha che fare.
Mefistofele. Una sola età, in vero, è acconcia ad imparare; per ciò poi che spetta all’insegnare, rilevo essere voi medesimo già più che disposto. Parecchie lune e pochi soli bastarono a darvi cosiffatta esperienza, che mai la maggiore.
Il Baccelliere. Or quali sono le opere della esperienza? Nebbia! fumo, e non più! E chi è che nascendo sia da meno del suo genio? Eh! confessate per lo meglio, che tutto quanto giammai non si seppe, non val la pena d’apprenderlo.
Mefistofele, dopo una pausa. E così pure la penso da lunga pezza. Un folle er’io, e adesso, a ben considerare, rassembro a me medesimo non più che un imbecille, uno stolido.
Il Baccelliere. Ecco una proposizion che mi garba! Pur finalmente trovo che dirittamente ragiona; gli è questo il primo veglio che mostri avere un po’ di senso comune.
Mefistofele. Andava io in cerca di un mucchio d’oro nascosto, e ne trassi non più che cenere e carboni luridi e spenti.
Il Buccelliere. Dite pur francamente che il vostro calvo cocuzzolo vale poco più di que’ cranii vuoti laggiù riposti.
Mefistofele, con piglio franco e cordiale. E tu, mio buon amico, tu non sai certo sino a qual punto sii zotico e rozzo.
Il Baccelliere. In idioma alemanno l’usar corte sia è un mentire.
Mefistofele, spingendo la scranna a rotelle fin sul proscenio, e indirizzandosi alla platea. Qui mi si tolgono l’aria e la luce; troverò io bene tra voi chi seco mi pigli. Che ne dite, o signori?
Il Baccelliere. Rilevo essere non poco prosuntuoso colui, il quale, alla più meschina epoca pervenuto, si ostina ancora a volersi dare per un barbassoro, intanto ch’e’ non è più buono da nulla. La vita dell’uomo sta nel sangue: or dov’è che il sangue discorra così ratto come nelle arterie dei giovani? Colà entro esso bolle impetuoso e forte; colà, dove una vita novella dall’istessa vita s’informa. Ivi tutto si muove, ivi sta la possente virtù dell’operare; la fiacchezza giù cade, e la vigoria s’avanza a gran passi. Nell’atto che noi conquistavamo mezzo il mondo, che avete voi fatto di bello, voi altri? Voi avete sonnecchiato, ponderato, sognato, pesato; progetti e calcoli, e poi sempre calcoli e progetti! La vecchiaia è, senza fallo, una febbre fredda e lenta nell’assideramento d’una fantastica necessità. Trascorsi i trent’anni, avrebbe l’uomo pel suo meglio a morire; e la sarebbe provvidenziale al tutto l’accopparvi quanti siete dal primo all’ultimo.
Mefistofele. Al diavolo non riman qui più altro da dire.
Il Baccelliere. Il diavolo punto non c’entra, se non in quanto io lo consenta.
Mefistofele. Bada veh! che il diavolo non ti dia il gambello, e più tosto che non l’immagini!
Il Baccelliere.
O gioventù bollente mia! Sublime
Vocazïon che a sè m’attira! Innanzi
Di noi, di me non era il mondo; il Sole
Dall’abisso io traea; de’ miei compassi
A mio talento in sulle punte il disco
Lunar si sta. Me scorge appena, e nova
Bellade a un punto il Gran Pianeta acquista;
Di verde il suolo e di bei fior s’ammanta;
E le miriadi d’auree stelle, quando
L’etere imbruna di mia mano al cenno,
Splendono tosto pel divino azzurro
De’ firmamenti. Oh! chi — chi, se non io,
A dispezzar valea delle meschine
Leggi le sbarre ond’era oppresso il mondo?
In quanto a me — vo libero, dovunque
Il cor mi spinga. Ebbro di gioia al verbo
Interiore in balia, movo a gran passi
Inverso l’avvenir, e sempre stammi
Luce dinanzi, e le tenèbre a tergo. (Esce.)
Mefistofele. Vanne in malora, baggiano prosontuoso! — Quanto cruccio non li arrecherebbe questo secondo riflesso: Nessuno vale a concepire un pensiero stupido o saggio, che non sia stato prima di lui concepito! — Guardiamoci però dall’abusare di un cotal principio; chè al volgere di pochi anni andranno le cose ben altrimenti: imbizzarrisca quanto sa il mosto in fermentazione, dovrà pur sempre la tinozza dar vino qual ch’egli sia. (A’ giovani della platea, che non applaudiscono.) Voi rimanete freddi alle mie parole, ed io vo’ scusarvene, bravi ragazzi. — È da por mente che il diavolo è vecchio: invecchiate quindi per mettervi al grado di bene intenderlo!
Note
- ↑ Vedi Parte Prima.