Faust/Parte seconda/Atto quinto/Dirupi, boschi, rocce, luoghi solitari
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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DIRUPI, BOSCHI, ROCCE, LUOGHI SOLITARI.
SANTI ANACORETI, dispersi qua e là sulle altrure de’ monti, e ricoverati ne’ crepacci del granito.
Il Coro e l’Eco.
De’ turbini a seconda
Sui massi di granito il bosco ondeggia,
Ove stan le radici abbarbicate;
Espessa infino al ciel bella corona
D’alberi annosi intorno lo circonda.
Un’onda mormorando altr’onda incalza;
Nel sen d’orrida balza
Si schiude ampia caverna,
Ed il lion tacente
S’aggira intorno solitario e cheto
Portato dal desio che lo governa.
Di questo asil secreto
Quasi al sacro mistero ei renda onore,
Mister tutto d’amore!
Pater Extaticus, vagando per luoghi alti e bassi.
Dive fiamme cocenti,
D’amor vincoli ardenti,
Doglia atroce che il petto ange e martira
Anelante a quel Dio che a sè mi tira!
O folgori, o catene, o lance, o strali
Me colpite!
Me stringete!
Me ferite!
Me pungete!
Ma di colpi e di punte aspri e mortali,
Così che il periglioso
Fral nella tomba alfine abbia riposo;
Nè altro resti di me, se non la día
Ardente stella che nel ciel s’india!
Pater Profundus, da una regione al basso.1
Sulla vallea profonda
Come la rupe eternamente incombe,
Come si mesce ognor onda con onda,
Se i campi allaghi torbida fiumana;
Come per forza arcana
Sollevarsi repente
Altera quercia suol che i venti sfida,
Tale un amor simpatico, possente
Che tutto informa e nutre al ciel ne guida.
Selvaggio, immenso odo fragore intorno,
Qual se le masse del granito enormi
E le foreste andassero, simili
Ad oceáno, per lo ciel vaganti!
Pur di mezzo allo strepito, la piena
Degli agitati flutti ecco s’avanza
Gli aperti campi a fecondar rivolta.
La cascatella che di balza in balza
Frangesi spumeggiando, e la divina
Folgor trisulca che lo spazio accende,
E disperde i vapori onde coverto
Mostrasi il dì, non son dunque soavi
D’amor messaggi? All’uom d’alta, possente
Forza prenunzi e’ son, che mai non resta,
Salda, operosa, e l’universo abbraccia.
M’arda ella dunque a posta sua, chè triste
Soffre, s’accascia gelido, inquïeto
Lunge da lei lo spirto, entro la breve
Chiostra de’ sensi imprigionato, e tutto
Da’ ferrei ceppi della terra oppresso!
Pace, oh! pace una volta abbian, Signore,
I miei pensieri! e a questo cor gemente
La sospirata tua luce risplenda!
Pater Seraphicus. — Regione media.
Qual nebbia porporina
Di mezzo a’ rami degli abeti ondeggia?
Ah! il cor ben l’indovina:
Son queste le beate
Schiere de’ fanciulletti
Nel vivo lume dal desio portate; —
Il giovin coro degli Spirti eletti!
Coro di Fanciulli Beati.
Dinne, chi siamo? o a quale
Parte drizzato, o Padre, è il nostro volo!
Felice ed immortale
È ognun di noi; chè solo
Dell’esser nostro vaghi
Nulla ha il mondo oggimai che più n’appaghi!
Pater Seraphicus.
Alla dïurna luce appena usciti,
Sendo a mezzo la notte, o bamboletti,
Dal grembo della madre al ciel saliti,
Ed aggiunti allo stuol degli angioletti;
Sentite dunque voi che pien d’amore
Ente s’appressa? Ad incontrarlo accinti
Traete, nè timor vi turbi il core,
Almi fanciulli innanzi tempo estinti.
Oh de’ guai della terra affatto ignari,
Nelle pupille mie tutti scendete;
E a contemplar questa regione, o cari,
Di là, qualpiù v’èin grado, orvi ponete!
(Li raccoglie dentro di sè.)2
A voi dinanzi ecco montagne e piante,
Eccovi rupi dal nevoso dorso,
Ecco un torrente torbido, spumante
Che per aspri dirapi affretta il corso.
I Fanciulli Beati, dal fondo del suo cervello.
Bello a veder, ma di mestizia pieno
Luogo ne pare orribile, selvaggio!
Trema di freddo e di paura il seno;
O buon padre, ne dà che il bel viaggio
Ricominciam per l’etere sereno!
Pater Seraphicus, ridonando a’ pargoli il volo.
A’ più sublimi vertici movele
Insino a’ cerchi della luce estremi,
E attoniti del come, a tutti ignoto,
Qual fra’ celesti avvien, sempre crescete.
Per l’azzurrino vuoto
Itene ognor più ratti
Dalla divina attratti
Somma virtù ch’è pascolo dell’alma!
Dessa è colei che in viva fiamma rota
Su per l’etere accenso;
Dessa è colei che al senso
Ottuso de’ mortali i santi apprende
Pensier, chi ben l’intende;
Dessa è colei che sola
Il vase appresta ov’è che si diffonda
Del primo vero l’estasi gioconda.
Coro de’ Fanciulli Beati che sorvolano a tondo le alture più sublimi.
Ridutti a cerchio,
O garzonetti,
Delle manine
Formiam calena!
E senza fine
Da’ nostri petti
Escan divote
Celesti note.
Noi di supreme
Gioie beati!
Noi dalla speme
Rassicurati!
Il Re de’ Santi
Sempre si celebri,
Sempre si canti;
Fin che gli piaccia
Al beatifico
Della sua faccia
Eterno riso
Noi pur raccogliere
In Paradiso
Gli Angioli aggirandosi in un’atmosfera superiore, seco traendo la parte immortale di Fausto.
Osanna, e gloria! alfin ritorna in vita
Chi già stelle agli Spiriti in balia;
Sol questa a chi l’età non ha compita
Noi rechiam di salvezza unica via.
E se la grazia di lassú lo invita,
Di beati ver lui schiera s’avvia;
E scioglie all’alta sua ventura un canto
Colla gioia nel cor, negli occhi il pianto.
Gli Angioli Novizi.
Le rose — ragiadose
Che vostra man cogliea,
O eletti, a cui l’amore
Il cielo un dì schiudea,
Ben fur mezzi possenti
Per noi Cherubi ardenti
Onde al supremo Amore
Quest’alma sollevar.
Dell’anime tesoro
Che ci rechiamo a vanto
De’ Santi innanzi al Santo
In coro — accompagnar.
Elle vincean le squadre
Degli angioli rabelli:
Chè invece dell’eterno
Foco che li divora,
I luridi demóni
Sentîr, ma per brev’ora,
Gli spasimi d’amor.
Satana che superbo
S’infinge indifferente
Non resse al primo assalto,
E divampò repente.
Or nel perpetuo orrore,
Negl’infiniti pianti
Lo ricacciò il Signore.
Alleluia! si canti;
Ei solo il vincitor.
Gli Angioli Primitivi.
Dura impresa è nostra a trar codesto
Velo mortal su per l’eterea via;
Foss’ei pure d’asbesto,
Impuro è tuttavia.
Quando la possa arcana
Dello Spirto immortal che fonda e crea
Gli elementi d’un mondo a sè rappella,
Rotte mandar le anella
Di loro stretta e duplice natura
Agli angioli del ciel non è concesso;
Chè solo all’increato
Perfetto amor di svincolarle è dato.
Gli Angioli Novizi.
Di mezzo alla leggera
Nebbia e a’ vapori onde ricinte sono
Codeste rocce di granito, un suono
Parte, qual d’una schiera
Di spirti che qui presso errando vada.
Ma vie più si dirada
Il vel frapposto, e a noi l’avventuroso
De’ beati fanciulli eletto stuolo
Rivelasi, che a volo
Si distende pel liquido sereno.
D’ogni affanno terreno
Francato il gentil coro
Mostra i lucidi e tersi
Vanni, e ’l bel manto di rugiada aspersi;
E già delle superne
Sfere pregusta le dolcezze eterne.
Or che pronto è a salir, lasciam, fratelli,
Che il suo cammin misto agli eletti imprenda
E le prime con lor rote trascenda.
(Trasmettono la parte immortale di Fausto a’ Fanciulli Beati, i quali s’incaricano d’iniziarla.)
I Fanciulli Beati.
E a noi questa crisalide
Raccogliere non pesa,
Che a glorïosa e splendida
Opra miriamo intesa;
Dessa ne fia mirabile
Pegno del vostro amor.
Ma perchè in tutto sciolta
Non si palesa ancora,
Togliete via que’ bioccoli,
Strappateli una volta;
Che dell’eterna aurora
Le arrida lo splendor.
Doctor Marianus.3 nell’interno della cella più elevata e più pura.
Quinci il guardo spazia a tondo,
E lo spirito fra il mondo
E l’Eterno ondeggia.
Ma, nel sen di nube accesa,
Volto al ciel mi si palesa
Stuol di sante femmine.
D’alma luce irradïata
Una è in mezzo coronata
D’astri fulgidissimi.
Dell’Empiro è la Reina!
Il mio cor ben l’indovina
A quel raggio vivido.
O immaculata, eletta
Donna dell’universo,
Lascia che sotto alla stellata volta
De’ cieli, e nella schietta
Luce dell’äer terso
A legger sia quest’anima rivolta
Il tuo divin mistero,
Madre possente dell’Eterno Vero!
Il grave austero affetto
Venga per te sacrato
Che i più gelidi cori agita e alluma;
E innanzi al tuo cospetto
Quegli ti sia portato
Che in estasi ed in preci il dì consuma:
Indomabil tu dài
Coraggio al petto ove a regnar ten vai.
Ogni nostra baldanza
Acchetasi repente
Come flutto in furor lambe la riva.
Vergine, in le sua stanza
Ponea l’Onnipotente
Che te fra tutte a tanto onor sortiva!
Prima di te non vedi
Altri che Dio sulle stellate sedi!
A lei d’intorno ardenti
S’aggiran senza posa,
Intese a darle onor, vaghe fiammelle:
Son alme penitenti
Che spiran l’odorosa
Aura che da lei parte, e nelle belle
Pupille intente e mute
Chieggono in alto umíl grazia e salute.
Di purità reina!
O d’ogni labe esente
Vergine al mondo sola, o tutta santa!
Perché ti si avvicina
Chi fiacca ebbe la mente,
E svelse il pomo dalla mala pianta,
Di che temer non hai
Or che pentiti in te fisano i rai.
Cedendo all’appetito
Ed alle voglie prave
Trassero i giorni lor men puri e casti:
Al seducente invito
Di voluttà soave
A resister da sè nullo è che basti;
Pel lubrico pendio
Corre, ahi facile troppo! uman desio.
Ne lega ed incatena
Un guardo od un sorriso
Che a vaga donna disfavilli in viso;
E tosto l’ebbro core
Arde alle vampe di lascivo amore.
(Mater Gloriosa si aggira per l’atmosfera.)
Coro di Penitenti.
Dall’alto Empireo
Ove risplendi,
Vergin sovrana, i nostri voti intendi,
Eletto giglio,
Rosa gentile,
O tu cui non fu mai par nè simile!
Magna Peccatrix.5
Per quel tenero affetto
Che delle ingiurie a scorno
Dell’imprecata farisaica rabbia,
Qual di balsamo eletto
Al Redentore un giorno
Bagnò di caste lagrime le piante;
Per quell’urna profonda
Che essenze riversò d’ambra soavi;
Per la diffusa, bionda
Chioma che terse le sue membra sante; —
Mulier Samaritana.6
Per quella ove traea
Abramo in allra elate
Fredda cisterna a pascolar l’armento;
Pel vase che porgea
Ristoro alle assetate
Labbra del Figlio a mia salvezza intento;
Per la viva fontana
Che di là tosto uscita
Perenni in su l’umana
Progenie verso poscia acque di vita; —
Maria Ægyptiaca.7
Pel freddo, sanguinoso
Sasso che un dì raccolse
Del martire divino i membri lassi;
Pel braccio poderoso
Che a minacciar si volse,
Tal che dal loco santo i piè ritrassi;
Per quell’acerbo strazio
Cui dolente e pentita
Ben otto lustri colaggiù sostenni
Coll’error primo e con me stessa in guerra,
Di che ’l Sommo Fattor laudo e ringrazio;
Per quell’addio che innanzi la partita
Scritto lasciava in terra; —
A Tre. O tu che all’alme peccatrici, mai
Su in cielo penetrar non dinegasti;
Tu che al pentirsi generoso dài
Col Maligno a lottar forza che basti,
Diva Patrona, tu non niegherai —
A costei che del mondo in fra’ contrasti
Ignara di fallir perdė sua via,
E or geme e plora — il tuo perdon, Maria!
Una Penitentium, altre volte per nome Gretchen, o Ghila, in atto umile.
Dègnati, Immacolata,
Volger pietosi a me tuoi divi rai,
A me santa e beata — in cotal giorno!
Colui che in terra amai
Scevro di lutli guai — fa a Dio ritorno.
I Fanciulli Beali, intanto che si accostano levemente roteando.
Già di quella virtude
Cui nessun uom mortale
Ad intender non vale
Ei tanto in sè racchiude,
Che ciascuno in fra noi di troppo avanza.
Di zelo e di costanza
Premio daranne al certo
Qual conviensi a fratel fedele e degno.
Noi del terrestre regno
Presto, ben si può dir, fummo rapiti:
Ma questi, ch’è del mondo assai più esperto,
Di quanto ei vide e sa
Notizia ne dará.
La Peccatrice, della prima d’ora Gretchen.
Cinto da cori angelici
Il Novizio beato,
Se vegli o dorma a giudicar non vale.
Nell’aër diradato
Batte, salendo a vol, rapide l’ale;
Del Paradiso appena
Il sacro limitar tocca col piede,
Tramutarsi in Arcangiolo si vede,
Come di tratto in tratto
D’ogn’impaccio terreno ei si disveste!
Giovin qual pria rifatto,
Beltà tutta celeste
Lo adorna, e di fiammante
Velo ricinge le sue membra sante.
Oh! dammi, dolce Madre, oh! dammi il vanto
D’apprendergli il tuo santo
E puro amor, chè inferma ha la pupilla
Pel vivo raggio che quassú sfavilla!
Mater Gloriosa. Più alto ognora
Vêr la divina
Sfera sen va;
Senza dimora,
Se l’indovina,
Ti seguirà.
Doctor Marianus, boccone sul suolo pregando.
In que’ soavi e cari
Sguardi onde solo vien grazia e salute
Ricerchiam la virtute
Che meglio il cor prepari,
Si che le eterne fiamme in sè ricetti;
Si che gli umani affetti
Volgansi verso le con fede viva,
Vergine, Madre, Imperatrice e Diva!
Propizia a noi ti mostra
Dalla sublime lua stellata chiostra.
Ciò che trapassa e muore
Altro non è che simbolo e follia;
Del celeste, immortale
Soggiorno a chi men vale
Pentimento e dolor schiude la via;
L’inesplicabile
Compiuto fu;
L’inenarrabile......
La parte femmina eterna.
Ci trae lassú!
Note
- ↑ In queste indicazioni: Regione bassa, Regione media è probabile che si alluda alle abitudini di certi Ordini Religiosi che si stabiliscono di preferenza nelle valli o sopra le alture:
Bernardus valles, colles Benedictus amabat.
- ↑ Visse nello scorso secolo un uomo, fornito di grand’erudizione e di non poca esperienza, il quale sognava di mezzo giorno gli abitatori de’ pianeti e degli astri. Teneva egli commercio cogli Spiriti, e secoloro parlava una lingua ideale: ed essi vedevano per mezzo degli occhi di lui (chè altrimenti, come andava egli stesso dicendo, delle cose del mondo nulla avrebbon potuto vedere); finalmente accorgevasi della loro presenza in tale o tal altra parte del proprio corpo, in particolare entro al cervello: questo suo stato di mente durò per trent’anni. Parlo di Emmanuele Swedborg (che nel 1719, insieme co’ titoli di nobiltà, ricevette il nome di Swedenborg) figliuolo di un vescovo svedese, e nato nel 1689. Era egli fanciullo ancora, e già correa voce ch’avesse colloqui famigliari cogli angeli; e ne lasciò descritto egli stesso quanto avvenivagli di provare nel tempo delle sue visioni. Erano queste di tre sorte, la prima, (cui potrebbesi denominare la visione ordinaria, pacifica nella quale si tratteneva cogli Spiriti che gli comparivano, o traevano a dimorare in alcuna parte del suo corpo. La seconda, meno comune e nella quale tutti i sensi di lui si commovevano grado a grado fino all’entusiasmo profetico. La terza finalmente, e la più rara, quando, rapito dallo Spirito, scorreva ad un batter d’occhio, colla rapidità del lampo, materie o regioni senza numero. Chi non ravvisa in codesto illuminato dello scorso secolo il tipo del mistico personaggio di Goethe, che ricetta del proprio cervello l’anime de’ Fanciulli e fa loro vedere il mondo ch’eglino sconoscono a traverso de’ suoi occhi, e poscia le rimanda a volo? Simbolo mirabile del puro amore che obblia se medesimo, e nella sublime sua annegazione ingegnasi a tutt’uomo di altrui levare in alto! Ed ecco, grazie ad un tal senso da Goethe posseduto in grado così squisito, e ch’io appellerei di buon grado il senso della località, ecco come la poesia de’ più strani traviamenti della ragione umana si giova. Per vero, gli atti della pazzia altra cosa in fondo non si hanno a dire, salvo atti fuor di luogo operati. Traeteli dal centro dove si compiono, per trasportarneli in un punto di azione regolare, e li vedrete mutar faccia di netto. Veruno al mondo ebbe mai compresa meglio di Goethe codesta impassibilità del gran poeta, seduto in fondo al suo Olimpo, e che piglia qua e colà, nel caosse, gli elementi per coordinarli e classarli.
- ↑ Il Dottore Mariano, Scozzese, nacque del 1022, e nel 1051 si rese monaco in Alemagna. Scrisse una cronaca del mondo dalla creazione fino al 1083 in tre libri, e consumò la vita, da vero claustrale, in fondo ad una celletta isolata, non punto comunicando cogli altri monaci, assorto nello studio, e nella pietà. Fondò il chiostro di San Pietro de’ Benedettini a Regensbourg, e ci narra la leggenda che venutagli meno una sera la lucerna, e seguitando egli a scrivere al buio, le tre dita della mano non occupate a trattare la penna presero subitamente a splendere come fossero tre ceri, e ne fu tutta la cella irradiata. Viene altresì appellato Doctor Subtilis, l’apologista ingegnoso ed acuto dell’Immacolata Concezione.
- ↑ I concetti affettuosi e dilicati della presente Canzone faranno rammentare a’ lettori quella al tutto mirabile del Petrarca:
- ↑ S. Luca, VII, 36.
- ↑ S. Giovanni, IV.
- ↑ Di questa Maria Egiziaca non si fa alcuna menzione nelle sante Scritture, e certo Goethe l’ebbe nelle Leggende (Acta Sanctorum) rinvenuta. Se ne fa per lo più la festa nel giorno istesso in cui ricorre quella di S. Zosimo, segnatamente presso i Greci Cattolici o Latini. Qualche volta le vien dato in Occidente il nome di Maria la Nera per la sua origine egiziana, e per gli anni molti passati da lei nel deserto. Molti l’ebbero confusa colla Madre del Cristo, donde la ridicola tradizione che la S. Vergine sia di color nero, o per lo meno abbronzato, e la pretesa di fare una Negra della più avvenente, leggiadra e perfetta creatura che giammai ne fosse da’ cieli largita. — Ecco ora come nella Leggenda narrasi l’incontro di lei con Zosimo nel deserto; cito qui il testo di Sofronio, vescovo di Gerusalemme, tradotto di greco in latino dal celebre Paolo Diacono a’ tempi di Carlo Magno. Si accenna pure questa Leggenda nelle Probatæ Sanctorum Historiæ di Lorenzo Surio (Carthus. Col. Agripp. 1578, fol. T. II, p. 662-72.); e in un MS. del decimoquinto secolo, ricco di stupende miniature: «In un monistero della Palestina viveva un uomo di illibati costumi, di fede sublime, e di un’austerezza di vita senza pari, per nome Zosimo; il quale fiu da fanciullo erasi dato alla pietà, e compiera a que’ dì l’anno suo cinquantesimo terzo. Un bel giorno, gli entrò nel capo il pensiero d’essere oramai all’apice della scienza e dell’annegazione pervenuto, e di non avere altro più da imparare sulla terra. Ma una voce gl’imponeva tosto d’uscire e di mutar paese; chè la perfezione non è cosa di quaggiù, dove una lotta fatale, eziandio a nostra insaputa, ve sta d’innanzi. Ed egli usciva tantosto, e guidato dal Signore, ad un chiostro avviavasi in riva situato del santo fiume Giordano. Accolto colà dentro in qualità di ospite, vide praticarvisi le penitenze più rigide che fossero mai: il digiuno e la preghiera, sacre salmodie fosse di fosse notte, e l’inesorabile disprezzo di quanti beni ha la terra. Le porte del chiostro mai non si schiudevano, salvo che una volta nell’anno, verso il principio della quaresima, epoca nella quale ciascuno s’industriava di prepararsi con macerazioni ognor più rigorose a’ gaudi della santa Pasqua. Allora in pieno coro cantavano: Il Signore mia luce e mia salute: chi ho io da temere? (Sal. 26,). E provveduti di scarso viatico, si rintanavano chi qua chi là nel deserto, dove pregavano e digiunavano a lungo. Prima però della domenica delle Palme erano tutti di ritorno, e nessuno interrogava il fratel suo intorno all’uso che avesse fatto del suo tempo, ed a’ luoghi da lui visitati. E così pure facea Zosimo, il quale, camminando tutta quanta la giornata, dormendo sulle arene infocate, e trattenendosi in continue preci ed aspirazioni, chiedeva al cielo la grazia di poter abbattersi in cotale anima che a maggiore edificazione lo conducesse. Or avvenne che nel vigesimo dì del suo pellegrinaggio, sull’ora di festa gli apparve d’improvviso, a diritta, come l’apparenza d’umana creatura. Sbigottì sulle prime tenendo quella essere diabolica illusione mossa a tentarlo; ma, poi che si fu segnato, fattosi animo, prese a seguitare la fantasima che precipitosa correva da Oriente. Oh prodigio! la era quella una doona, annerita in tutte le membra dalla sferza del sole, e co’ capegli increspati, e candidi come bioccoli di lana intorno alla nuca. Zosimo allora s’allegrò non poco d’aver trovata un’umana creatura, dopo corsi tanti giorni senza scorgere pur solo per quelle tetre solitudini una fiera o un augello, e bramò di conoscere quella femmina chi fosse. Se non che ella, quanto più il vecchio affannavasi per correrle dietro, tanto più veloce e affrettata correndo, cacciavasi a furia per la deserta landa. “Qual timore può ingerirti un gramo e debole vecchio, gridava Zosimo, che mi fuggi così? Fèrmati, te ne scongiuro, e dammi una preghiera e la tua benedizione nel Signore che non rigetta alcun peccatore.” Ed allora fecero alto in riva ad una secca sorgente, di qua il vecchio, e quella apparenza umana al di là. “Abbate Zosimo, cominciò questa a dire, perdonami in nome di Dio; però ch’io non posso mostrarmi a te, essendo donna, e spoglia di tutte vestimenta; gittami il tuo mantello sicchè possa coprire la mia nudità ed arrendermi alla tua preghiera.” Rimase attonito Zosimo all’udirsi chiamare per nome, e movendosi all’indietro lasciò sopra di lei il mantello cadere. Dopo ciò prese quella a dirgli: “Che vuoi tu da una femmina peccatrice?” A tali parole cadde egli sui ginocchi, e le chiese la sua benedizione; altrettanto fece la donna, lui scongiurando che la benedicesse. — Così durarono gran tempo, e pur finalmente colei ripiglio: “A te, o Zosimo, s’aspetta il benedire e il pregare; a te che sei sacerdote, e ministro a’ divini altari.” e l’altro rispose: “La grazia del Signore è sopra di te, che sai il nome mio, senza avermi visto giammai: e però dègnati di benedirmi.” Allora quella il benedisse, e levaronsi in piedi ambedue. Ciò fatto la donna, voltasi all’Oriente, e sporgendo verso il cielo le mani, diessi a pregare senza muover labbra; e Zosimo stupiva in veggendola, colta da estasi, sollevata da terra un cubito, e tutto impaurito e tremante, cadde boccone in sul terreno, gridando: “Signore, abbiate pietà di noi!” poichè faceva pensieri, più che umana creatura, quello essere un Angelo. A quelle voci la sembianza, volgendoglisi: Chi è, disse, che ti scandolezza? Non che io mi sia un Angelo, sono anzi una femmina peccatrice, battezzata in nome del Signore.” Riavutosi allora il vecchio, le tornò a dimandare chi fosse, e come in quella solitudine venuta; ed ella non fu schiva di narrare la propria istoria, anzi che per suo gran vanto, per andarne al postutto raumiliata e confusa, non altro conoscendosi che un vaso di lordura sul quale avea la grazia divina operato di grandi prodigi.
“Nacqui in Egitto, donde, abbandonati in sui dodici anni i parenti, mi recai in Alessandria. Non dirò, com’io abbia la mia innocenza perduta, e come, di vizio in vizio, trascorressi nella più abbominosa dissolutezza, chè il solo pensiero degl’insaziabili appetiti cui era in balía, mi trae le fiamme in sul viso. Codesto vivere licenzioso durò ben diciassette anni, e più ancora. Nè a prezzo d’oro fu già compra la mia vergogna, nè pur solo ebb’io accettato alcuno de’ mille presenti ch’altri farmi volesse, pensando, nella sfrenata libidine che mi struggeva, di crescere, così facendo, ogni dì più il numero de’ miei amanti. Pertanto, di poche radici silvestri cibandomi, consumava nell’inopia l’età, e nondimanco pareami nella pienezza della voluttà essere oltremodo ricca e felice. Un giorno, al tempo della marèa, mi fu veduta gran moltitudine di Lesbi e di Egiziani in porto raccolta. — Dove vanno costoro? dimandai al vicino; ed egli rispondeva: Vanno essi a Gerusalemme per assistere alla festa dell’Esaltazione della Santa Croce. — Credi tu, ripigliai io, ch’eglino mi volessero condurre, s’io avessi talento di partire con loro? — E colui: Se hai danaro per pagarne l’imbarco, nessun certo te lo impedirà. — Ed io replicai: Non ho dì che pagare il nolo, e tuttavia son deliberata di partire sur una di quello navi. Converrà bene ch’altri suo malgrado facciami le spese, però ch’io mi darò loro in braccio, e i miei vezzi saranno la moneta con cui soddisfarò al mio passaggio. — Abbimi per iscusata, venerabile vecchio, e non volere ch’io enumeri uno ad uno i disordini della mia vita. Dio sa che tremore ne provi ora pensando come ti offenda il mio dire, e come tutto ne sia quest’aere contaminato.” E supplicandola Zosimo a proseguire, la donna ripigliò: “Quel giovane si ritrasse col sogghigno sulle labbra; ed io, gittata via la conocchia, corsi alla riva dove stavano a crocchio parecchi giovinastri, che mi parvero acconci mirabilmente pel caso mio, e fattomi largo fra loro sfrontatamente: Fate ch’io siavi compagna, dovunque abbiate intenzione di recarvi, ed io non sarovvi sconoscente del beneficio. — E tenendo secoloro mille altri laidi propositi, di che ridean essi sgangheratamente, si pose il piè sulla nave che non tardò a staccarsi dalla riva. Qual lingua varrebbe a dire, e quale orecchio ad intendere quanto successe lungo il viaggio? Trovai nuovi artifizi a sedurre que’ medesimi che di me non eran vogliosi; e de’ più svergognati misteri mi fei loro maestra. Chiedo oggi ancora a me stessa, come mai abbia potuto il mare sostenere in sul dorso tai mostri di lascivia, e come non siasi spalancata la terra ad inghiottirmi tutta viva ne’ suoi abissi. Ma pieno è il Signore di misericordia, e la morte non vuole del peccatore. Così arrivammo in Gerusalemme, dove i miei giorni trascorsero ad una medesima guisa fino a quello della festa: le infami tresche della nave si ripetevano colà, ed altre peggiori se ne aggiungevano forso, riuscendo io ad allacciare indigeni e forastieri. Frattanto, la santa festa della Esaltazione della Croce era venuta; ed io mossi di buon mattino al tempio, dove il popolo accorreva in gran folla. Fra gli spessi urtoni della calca, giunsi a penetrare fin del vestibolo, e presso alla porta. Quivi, oh prodigio! mentre ad ogni altro venía dato l’ingresso, me riteneva a forza una mano divina, quasi che volesse interdirmi l’entrata nel santuario: e quante fiate m’industriava a varcare alla mia volta la soglia, altrettante una man di ferro aggravavasi sopra di me, a tale ch’io sola rimasi dentro al vestibolo. Traendomi allora in disparte, mi diedi tra me ad investigare la cagione del prodigioso avvenimento, e perchè mi si togliesse l’assistere al lieto spettacolo di quella Croce che è fonte di vita. E com’io scandagliava gli abissi della mia coscienza, profondi sospiri mi uscirono fuori del petto, e gli occhi si sciolsero in amarissimo pianto. E dal luogo ove stava, mi si diè a vedere, nell’alto del muro, entro ad una nicchia, l’immagine della Madre di Dio, verso la quale colle tese braccia gridai in suon dilamento: Voi siete la purissima in fra le verigini, ed io miserabile sono ravvolta da capo a’ piedi nel fango del peccato. Pietà d’una sciagurata, e fate ch’io possa per la mia salute venerare la croce del vostro divino Figliuolo. — E di tratto acchetavasi lo spirito, e mista un’altra fiata alla calca de’ fedeli, non più da forza alcuna rattenuta, entrai nel tempio quasi spintavi da un’onda propizia. “A questo punto della Leggenda allude Goethe in que’ versi:
Pel freddo, sanguinoso
Sasso che un diraccolse
Del martire divino i membri lassi;
Pel braccio poderoso
Che a minacciar si volse
Tal che dal loco santo i piè ritrassi.La peccatrice allora sfogasi in vivi e caldi ringraziamenti appiè della Madre di Dio, che l’ebbe sulla scandalosa sua vita illuminata, e ne riceve l’eccitamento a ritrarsi nel deserto. Ed ella, tolti tre pani in una bisaccia, va in riva al Giordano, dove consuma quarantasette anni nella più rigida solitudine, mortificandosi con dure ed aspre penitenze, e penetrando por divina ispirazione il senso delle sante Scritture.
Per quell’acerbo strazio
Cui dolente e pentita
Ben otto lustri colaggiù sostenni
Coll’error primo e con me stessa in guerra,
Di che ’l Sommo Fattor laudo e ringrazio.E colà Santo Zosimo la incontra. Ed ella ne lo supplica a non iscoprire il suo ritiro a chi che sia, ed a venirla a visitare tutti gli anni. Or ecco che un giorno, mentre il sant’uomo stavasene assiso in riva al Giordano, pensando appunto a recarsi da essalei, se la vede venire incontro, portata sulle onde. Tre anni dopo, ito Zosimo nel deserto, trovolla morta, e lesse pur finalmente scritto sulla rena il nome di lei, cui ella non avea mai voluto, viva, manifestare.
Per quell’addio che innanzi la partita
Scritto lasciava in terra.Allora diede opera a scavarle la fossa. Ma duro troppo era il terreno, e le deboli sue forze stavano per abbandonarlo, quand’ecco, videsi da lato, sulla sabbia disteso, un forte lione, che l’andava tranquillamente guardando. Tosto il vecchio fessi a scongiurare la fiera con un segno di croce, ordinandole di scavare colle ugne la terra: e in questa guisa compose le membra di Maria nel sepolcro. Fatto ciò, il lione cacciavasi in fondo al deserto, e Zosimo tornavasene al chiostro, dove racconto tosto ogni cosa a’ monaci, i quali presero a celebrare e magnificare i miracoli del Signore. E Zosimo, dopo aver vissuto nel chiostro fino a cent’anni, addormentavasi da ultimo nella pace de Santi.