Faust/Parte seconda/Atto quinto/Il gran cortile del palazzo
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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IL GRAN CORTILE DEL PALAZZO.
Fanali.
Mefistofele, sul proscenio in tuono d’ispettore.
Venite, o Lemuri! o corpi sciancati,
Ignudi scheletri, e membra recise;
Feti, accorrete di quante son guise
Di nervi e tendini e d’ossa informati!1
I Lemuri in coro.
Al lavoro con teco moviam;
Noi compreso già in parte l’abbiam;
Questo largo paese ove siam,
Occupar, dominare dobbiam.
D’aguzzi pali — la terra è piena;
Là pel livello — v’è la catena.
Chi n’appella e scongiura, in sì ridente
Soggiorno omai più non abbiamo in mente.
Mefistofele. Non trattasi qui di sforzi straordinari: ciascun di voi proceda giusta le regole. — Qual è più lungo, per tutta la sua lunghezza si distenda; e voi altri svegliete l’erba intorno intorno; come s’è praticato pe’ nostri padri, facciasi uno scavo in quadro! Dal palagio alla fossa così bonariamente vassene il mondo.
I Lemuri, scavando la terra, con gesti maliziosi.
Mentre ch’io vissi, gioventude, amore
Eran cose per me soavi e belle;
E dovunque rosai erano in fiore,
O s’udieno cantar vispe donzelle,
Così tutto prendeami un pizzicore
Che il lascivo mio piè correva ad elle:
Poscia a smorzar l’impetuoso ardore
Repente mi segnò colle stampelle
La vecchiaia importuna, e il di fu quello
Che spalancossi l’uscio dell’avello.
Fausto, uscendo a tentoni dal palagio, mostrasi fra i pilastri della porta d’ingresso. Il rumore delle vanghe mi fa andare in visibilio! La è la moltitudine che s’affanna per me. La terra alleata con sé stessa, segna un limite al fiotto, e il mare entro a brevi ripari contiene.
Mefistofele in disparte. Colle tue dighe e co’ tuoi canali, vai lavorando per noi; e un gran festino prepari a Nettuno, il démone delle acque. E vada come ha da andare, voi siete spacciali; — gli elementi ne son contra;2 tutto s’incammina alla distruzione ed alla ruina.
Fausto. Ispettore!
Mefistofele. Eccomi!
Fausto. Per quanto è possibile, procaccia che il numero degli operai s’accresca; assegna ricompense, infliggi castighi, sii prodigo nelle mercedi, attira la gente, la stimola a lavorare! Ad ogni giorno che passa, intendo e voglio che mi sia detto come procedano i lavori del nostro fossato.
Mefistofele, a mezza voce. Per quel che ne intesi, non trattasi di fossati, sibbene di fossa.
Fausto. Uno stagno alle falde della montagna colle sue esalazioni m’infetta gli acquisti già fatti; l’asciugarlo è affare per me del massimo interesse. Io schiudo un territorio per miriadi d’uomini, i quali si trarranno ad abitarlo, se non rassicurati da certezza che non ammetta dubbio alcuno, con isperanza almanco di godersi la libera attività dell’esistenza. Dalle campagne verdi e feconde, uomini e greggi si conducono a bell’agio sul nuovo terreno, e vengono a stanziare lungo la collina, dove formicola una popolazione ardita e industriosa. Nel centro, qui, v’è un paradiso. Imperversi il tempestoso flutto là fuori per insino alla sponda: ma se lo pigliasse mai la bizzarria di rompere con violenza gli argini, s’affretta da tutte parti la folla a rinforzarli. Questa è l’idea, cui sentomi tutto quanto votato, idea che è fine ultimo d’ogni saggezza; però che degno della libertà come della vita sia quegli soltanto il quale sa conquistarsele ogni dì, ogni ora. Per tal guisa, di mezzo a’ guai che l’attorniano, il fanciullo, l’uomo ed il vecchio vedono bravamente passar gli anni loro. Oh! perchè mi si toglie di scorgere una consimile attività, di vivere in terra libera, in mezzo a un popolo libero! Non tarderei allora por un attimo ad esclamare: Sii lenta a scorrere, o vita, incantevole qual ti mostri! La traccia della mia terrestre giornata non può andar inghiottita dall’Eunoè. — Nel presentimento di questa suprema felicità, assaporo adesso il gaudio di quell’ora ineffabile. (Cade boccone; i Lemuri lo prendono e lo coricano sul terreno.)
Mefistofele. Nessuna voluttà ne lo sazia, nessun godimento ne lo appaga; nella sua demenza, dassi egli ad inseguire forme impalpabili e vane; l’ultimo istante, misero al tutto e abbietto, vorrebbe lo sciaurato abbrancarlo sicchè non avesse a passare: ma quegli che parve sì prode e gagliardo nel resistermi, il tempo via sel trascina; il veglio giace là sul nudo terreno, l’oriuolo s’arresta.
Il Coro. L’oriuolo s’arresta! è silenzioso come l’ora di mezzanotte! L’ago giù cade.
Mefistofele. Cade, e tutto è consumato.
Il Coro. Tutto è finito.
Mefistofele. Finito! Scempiaggine! E perchè finito? Finito e nulla, sono per appunto una cosa! — Che significa dunque l’eterna creazione, se quanto venne creato ha da ridursi nel nulla? — Là tutto è finito! — Che se n’ha da conchiudere? Ch’egli è nè più nė meno come se mai stato non fosse, e tuttavia ciò s’agita e si rimescola quasi pur fosse qualche cosa. In fede mia! l’eterno mio vuoto emmi più a grato le mille volte.
canto funebre.
Un Lemure solo.
Chi a gran colpi di vanga, un ostello
Così fetido e vil m’apprestò?
I Lemuri in coro.
Questo asilo gli è ancor troppo bello
Per chi in ruvido lin si fasciò.
Un Lemure solo.
Come denso è quest’aëre e muto!
I domestici arnesi ove son?
I Lemuri in coro.
Eran d’altri; ed il fitto scaduto,
A riprenderli venne il padron.
Mefistofele.
Giace la salma; e se lo spirto evadere
Cerchi, dinanzi a lui tosto il chirografo
Squaderno ch’ei m’ebbe col sangue a scrivere.
Ma a questi di son tante le versazie
Tentate a sveglier di mia mano le anime! —
L’antica arte adoprar or torna inutile;
E delle nuove abbiam ben poca pratica.
Altra fiata potuto avrei d’impiccio
Trarmi da solo; ed or, compagni all’opere
Cercar m’è forza. — Oh gran miserial Al peggio
Vanno le cose, oh! certo al peggio volgono! —
Come all’usanza omai fidarsi, e al pristino
Dritto? Fin qui, metteva appena un’anima
L’anelito supremo, io coll’artiglio
La ghermia pronto qual la gatta il sorcio.
Nel suo covo schifoso or si rannicchia,
S’avvinciglia alla salma, e mai non termina
Dall’esitar suo vano, ed i contrarii
Elementi v’aspetta che la stringano
Quindi a fuggir con onta ed ignominia. —
Invan mi brigherei di trarre a calcolo
E l’ora e’l di; quando? in che luogo? acconcio
Qual mezzo s’offrirà? — Question difficile!
Che sia venuto meno il subitaneo
Strale alla morte? Da gran tempo è dubbio
Fin anco il SI. Chi sa? Talor con avide
Beanti canne gongolava, gelido
Frale guatando sul terren giacentesi: —
Baie! di tratto palpitare e moversi
Novellamente io mel vedeva!
(Gesti di fantastici scongiuri al modo di un capo-tamburo.)
In guardia
Però, signori miei, se pur vi piaccia;
Voi dal diritto, e voi dal corno a chiocciola,
Voi di vetusto pel veraci diavoli,
Tosto d’Inferno qui traete il báratro;
Chè di báratri e gole e pozze inopia
Non ha l’Inferno, nel cui sen precipiti
In vario modo l’alme si travolgono:
Su ciò men l’avvenire avrà di scrupoli.
(La gola dell’Inferno schiudesi orribile a sinistra.)
L’immenso ardente gorgo ecco spalancasi! —
A torrenti fuor fuor vampe traboccano
Di vorticose fiamme, e in mezzo a’ turbini
Di negro fumo il ribollir continuo
Della città del foco a me s’affaccia.
Ondeggia e tuona e sibila l’incendio;
Ed a bisdosso, alme dannate, orribili
Dal gorgozzule urla mettendo e rántoli
Pur fiduciosi del perdon, sul vertice
Della voragin cupa a nuoto salgono. —
Ma quella rinchiudendosi gli stritola;
Ed essi allora in fra le grida e i gemiti
Per la via dolorosa all’imo tornano.
Oh! quante ne son pur doglie in quest’andito
Ov’io mi tuffo! Oh quanta in breve margine
Onda di foco e di martíri! Egregia-
mente operate voi cotal nell’intimo
De’ peccatori alto sgomento a incutere!
Ei ciò menzogna e gherminelle appellano.
(Ai diavoli corpacciuti dal corno breve e diritto.)
E voi melensi dalla gran ventraia,
Dalle tumide gole, o porci stupidi,
Grassi bracati pel cibar soverchio
Di bitume e di zolfo, o vive fiaccole,
Cui nelle spalle s’incaverna il lumido
Proteso collo, che non mai vi veggia
Dallo spiar laggiù gli occhi rimuovere! —
Se cosa alcuna evvi che laca, o vivida
Una scintilla, o palpitar di fosforo
Vi si palesi, un’alma ell’è, sappiatelo!
Psiche è colei che a vol batte le roride
Penne, raggiante farfalletta, nobile
Aggraziata fanciulla; in lei s’incarnino
Vostr’ugne, e di repente ella fia lurido
Verme. Del mio segnarla incancellabile
Marchio vogl’io; poi ratto in mezzo a’ turbini
Di fiamma, in volta accanto ad essa corrasi!
E voi ventracci — otri, infuocate,
Il basso fondo — della voragine:
A voi s’aspetta — ben sorvegliate.
Se colà dentro l’anima sta
Forse un bel giorno lo si saprà.
Ma l’umbilico la mostrerà;
Chè ben laggiuso trovasi. — Olà!
Siate guardinghi adesso,
Che non v’esca pel fesso.
(A’ diavoli sciancati dal corno lungo ed attorto.)
E voi, caporïoni — mirabili scrocconi,
Manovali d’inferno — allo scandaglio attenti!
Le braccia protendete — spingete — fuorgli unghioni,
E, se lottante in aria — a voi si rappresenti,
Voi l’afferrate a volo! — A volo! — Io vel comando!
Nel vecchio bugigattolo — certo ella stassi in duolo;
Ma se lo porti in pace! — tra poco andrannein bando;
Che impazïente è il genio — di spiccar alto il volo.
(Spiriti celesti che scendono dalle regioni superiori a dritta.)
Coro. Falangi beate,
Arcangeli santi,
Essenze leggere
Di ben messaggere,
Sollecita aita
Recate — a’ mortali
Che oppressi da’ mali
Gementi — preganti
Trascinan la vita!
Giù rapidi a volo
Scendete — accorrete!
Al gelido frale
Rendete — o celesti
Lo spirto immortale!
E al vostro passaggio
Lo spazio s’accenda
Di vampe d’amor;
E amica discenda
La grazia nei cor.
Mefistofele.
To’, quai stridule grida, e quai malèdiche
Voci, da suso per sentier qui scendono
Di mal augurio! — Cinguettio spiacevole,
Canti d’ermafrodito onde letizia
Solo un sagrista aver potria! V’è cognito
Qual nelle nostre ore dannate l’intimo
Del cor alta n’invada ansia di struggere
L’universo quant’è; ma perchè il fervido
Immaginar più di arti ree si studii
Più alla vostra pietà gioco e’ diventano.
Quatti, quatti — io li sento — ecco s’avanzano.
Canaglia! — È duro a ricordar che tornano
Spesso in pro loro i miei travagli, e a svellere
Le tante volte di mia mano e’ giunsero
La già ghermita preda! Eppur dissimili
Non son tra noi l’arti, gl’ingegni, e identiche
L’armi ch’entrambi adoperiamo; e spiriti
Quali siam noi, son essi pur; ma spiriti
Che la zucca melensa incapperucciano.
Onta! grande onta qui sarebbe il cedere;
Alla fossa, or parrassi! e saldi all’opera.
Coro d’Angeli, spargendo rose a piena mano.
Rose purpuree,
Candide rose,
Che i venti aggirano
Vaghe, odorose;
Immacolate,
Di verdi gemme
Rose adornate;
Rose di fiamma
Per che lo spirito
Forte s’infiamma;
Per che si destano
I bei desir;
Il vago calice
Un po’ schiudete,
E in larga piova
Quivi traete,
Rose, a fiorir.
Fresco, gentile
Spunti l’aprile;
Chiase a beato
Sonno ha le ciglia!
Di sparse foglie
La terra veggasi
Tutta giuncata,
Tutta vermiglia:
E gl’ineffabili
Gaudi ed il riso
Che l’alme godono
In paradiso
Trovi al destarsi
D’intorno sparsi!
Mefistofele, ai diavoli.
Ma donde avvien che dalle piante al vertice
Tremar vi miro e abbrividir? Costumasi
Forse questo in inferno? Oh scempi, oh stupidi,
Durate immoti ad affrontarli e intrepidi.
I clericucci d’irretirne or pensano;
E già con quelle frascherie di fracidi
Fiori che d’alto sulla terra gittano
Di noi vittoria riportar si vantano!
Di noi diavoli al foco usi a resistere!
Attenti! attenti! Forte un buffo mandino
Vostre mascelle, tal che si sparpaglino
Tutti questi nonnulla! — Basta! — Il canchero
Vi colga! Basta! I giovincelli pallido
Han fatto il viso. — Rinchiudete or l’orride
Boccacce, e queto stia ciascuno e mogio! —
Troppo soffiaste, o tangheri! — Che limite
Mai non sappiate nell’agir conoscere?
Maledizion! ciò ch’era d’uopo sperdere
Arde, divampa, e già la fiamma eterea,
Presta a inondarci, turbina per l’aria.
A posto! via! leal certame imprendasi!...
Stremi di forze e di coraggio i démoni,
Sotto all’influsso d’esto carezzevole
Intenso foco, omai si stanno ed ebbrii.
Gli Angioli. O fiori lucenti,
O fiamme felici,
In queste pendici
Recate l’amor!
Di gioia languenti
Si mostrano i cor.
Del giorno la luce
Per tutto riluce;
Del Verbo si spandono
Sull’alme i tesor!
Mefistofele.
Ve’ i cani! ve’ i babbioni! Oh bile! Oh scandalo!
Sgominati sul mio capo volteggiano,
Fan per aria la ruota, e a capitombolo
Giù per di dietro nell’Inferno piombano!
Itene, maladetti! e vi sia gioia
Entro alle fiamme diguazzarvi. — Impavido
Io solo, io sol fermo a pugnar rimangomi.
(Dibattendosi fra un denso nuvolo di rose.)
O fuoco fatuo, indietro! oh val risplendere
Potrai, carino, a tuo piacer: si provino
Quanto più sanno a scintillar piú vivide
Queste fiammelle! Alfin se’ mio, capocchio!
Ah! vorrestù divincolarti, e riedere
Nell’aria tu! ma nol.... Misericordia!
Ahi! s’incolla il folletto al mio cocuzzolo;
Ahi! ahi! la è pece! è zolfo.... Inferno! oh spasimo!
Gli Angioli. (Coro.)
All’astro felice,
Fratello, ten vai
Che sol ti si addice.
Non prendati mai
Vaghezza di quanto
Di pianto — è cagione
A quel che ripone
Sua speme lassù.
E allora se accada
Che tedio t’invada,
Noi spirti celesti,
Apostoli sanli,
Farem che si desti
Correndo a’ tuoi pianti
L’antica virtù.
Chè sol si consente
L’eterno splendor
All’animo ardente
Nel foco d’amor!
Mefistofele.
Tutto il cerebro è in fiamme, il sangue bollemi
Entro le vene; inver più che diabolico
Elemento è cotesto! assai men cuocono
Le vampe istesse che i dannati cruciano! —
Ben ora intendo che in amor si spasimi.
Poveri amanti! or dato emmi conoscere
Quanto sia quel martir che vi dilania;
O voi che a un motto, a un atto, o al sol sorridere
Di lei che idolatrate il cor vi sanguina;
Voi che, turbati in vista e melanconici,
Torcete il collo, e di perdono e grazia
Supplicate a colei quando più sdegnavi.
Ed io, per qual destino al vostro misero
Stuolo m’aggiungo? O amor, odio implacabile
Non ti giurai fors’io? Quel tuo svenevole
Sguardo, atroce non m’è forse supplizio?
Qual di repente mi penetra incognita
Dolcezza! Or donde vien questo che sorgere
In me sento piacer, mirando il nobile
Aspetto, il volto, e le venuste, candide
Membra di questi garzoncei dall’aureo
Crin? Perchè il labbro proferir bestemmia
Non potrebbe oggimai? — Ma d’arte magica
Se oggi così son io fatto ludibrio,
Chi in avvenir sarà che più farnetichi? —
Non calmi, troppa que’ bricconi han grazia
Che sinora abborrii!
(Agli Angioli.) Vaghi i miei giovani,
Oh! non v’incresca un tratto a me rispondere:
Della razza pur voi non siete — ditemi —
Di Lucifero? or via! fate ch’io v’abbia
Più daccosto, più ancor; chè in dolce abbraccio
Stringermi a voi freschi e bellocci io voglio.
Al diletto che ho in me solo in veggendovi
Parmi che tante fiate in compagnevole
Vita con voi già mi trovassi! Oh! l’occhio
Più vi contempla, o maliardi amabili,
Più sedacenti, ed aggraziati, e teneri
Sempre ei vi trova, e le ritonde e morbide
Forme che ammiro in voi più e più vagheggio;
E più le ardenti mie vene divampano
De’ segreti desir che il micio scòtono?3
Quando va in frega. Di grazia! appressatevi;
Un guardo almen de’ vostri occhietti vividi!
(Gli Angioli si sparpagliano da ogni parte nello spazio.)
Gli Angioli.
Or come va, che tu ci chiami, e poi
Fuggi il nostro drappel che ti circonda,
E viepiù ti si accosta? Or sta, se puoi!
(Gli Angioli si avvicinano occupando tutto quanto lo spazio.)
Mefistofele, indietreggiando fin sul proscenio.
Ah! fattucchieri, voi chiamarne dèmoni
Solete — come ciò, se furbi e pratici
Siete cotanto sortilegi a tessere,
O incantatori al par d’uomini e femmine?
Oh caso malandrin! — D’amor solletico
Questo forse saría? D’amor? Se struggemi
I nervi e l’ossa un cosiffatto incendio,
Che il tristo diavolío quasi insensibile
Emmisi reso del tizzon cadutomi, —
Ahi! tradimento infame! — in sull’occipite
Che d’indi in poi non rifinisce d’ardere. —
Voi gironzate qua e colà pel candido
Fulgore, ma un tal po’ quindi abbassatevi
Pur, come suole augel da’ rami scendere.
Oh! l’alma voluttà che di voi piovere
Sento nel petto, o vaghi, o perfettissimi
Angioli! Sol vorrei vedervi prendere
Atteggiamenti più mondani e languidi.
Quel severo contegno a’ vostri rosei
Membri bene vi sta, ned io contrastolo;
Ma, per mia fè, che un bel sorriso andrebbevi
Meglio di molto, e tanta in sen delizia
Ne proverei da non aver mai termine.
Sorriso intendo quella gaia smorfia
D’innamorati che sottecchi sguardano, —
Leve la bocca corrugando, e studio
Nessun v’ha parte, chè da sè già formasi. —
Ohe! ohe! d’un vagheggin m’hai l’aria,
Pretto e sputato, tu, mio gran furbaccio!
E quanto più tue legïoni avanzano,
Più in tutto ti vegg’io fatto a mio genio:
Sebbene quel tuo far da cherco ho in uggia.
Più ghiotto, via, più smaliziato guardami!
Certo potresti senza fare ingiuria
Del pudore alle leggi, o mio bel zanzero,
Un po’ più denudarti, e dell’impaccio
Sbarazzarti di questa immensa tonaca
Che tutto quanto l’avviluppa e soffoca.
E’ si volgono.... oh ben! — Bel garbo! tengasi
Chi può... l’amor mi dà tale una smania....
E i cattivelli in tale atto m’accendono
Per guisa che ne vo tutto in solluchero!
Coro di Angioli. Viva fiammella
Di puro ardor,
L’ala tua bella
Volgi al soggiorno
Del santo amor!
Per quanto il mondo
Girasi allondo,
Del giusto sola
Può la parola
Un cor redimere
Dal suo fallir.
Del tentatore
Sfugga agli agguati
Chi anela vivere
In fra’ beati!
Mefistofele, rientrando in sè.
Or donde questo? Che m’avvenne? ahi misero!
Tutta una piaga ecco son fatto, e gli ulceri
Veggonsi pullular come fior d’acero;
Qual Giobbe un dì, fo schifo a me medesimo.
Non monta! io sol trionfo, e ancor son diavolo.
Lo smarrito mio senno a me quest’orrido
Spettacolo ridona.... e profittevole
Fia la lezione, o sciagurati: in guardia
Noi sarem quind’in poi. Salva ho di Satana
La miglior parte; sol la cute aggiungere
Può la febbre d’amor, e l’esecrabile
Flagel di questa atroce fiamma spegnersi
Già miro, e ben poss’io, come tu meriti,
Razza d’ermafroditi, il vituperio
E la bestemmia ancor lanciarti in faccia.
Coro di Angioli. Mirabil estasi!
Chi in te s’accende
Nel miro incendio
Già Dio comprende.
A schiere a schiere
Riedasi al ciel!
In laudi e cantici
L’ardor disfoghisi
Che il gaudio inspira!
Azzurro è l’etere,
Alfin respira
L’alma fedel!
(S’ergono a volo, seco recando la parte immortale di Fausto.)
Mefistofele, volgendo intorno lo sguardo.
Ed ora, ove son elli? — O sciocco, o zotico!
Che da breve drappel così sorprendere
Di fanciulli ti lasci! osserva! e’ fuggono!....
E quel tesoro colassù si portano
Cui mal sapevi tu, folle, difendere.
Chiaro t’è alfin che da orïente mossero
Tratti all’odor questo ghiotto frustolo.
L’alma che un patto a te stringeva, seppero
A te di cheto que’ cialtroni svellere,
E de’ tuoi beni ecco tu perdi il massimo!
E lo perdi per sempre! Oh! chi, chi rendere
Ti saprebbe il tuo dritto, o miserabile?
Come, d’anni già vecchio, or fosti, o Satana,
Ingannato, deriso! E ben tel meriti....
Di chiaro e tondo che in codest’impiccio
Contegno avesti da melenso e stupido.
O mie fatiche indarno spese! O inutili
Cure e fastidi! E tutto, oh mia vergogna!
Tutto il mio danno oggi mi vien da un futile
Desio, da un amorazzo inconcepibile
Entratomi nel cor — a me, di ragia
E pece tutto intonacato e lurido!
Or può trarsi da ciò, se bene immagino,
Che l’uomo accorto, se un bel di si lascia
Follemente sedur da questi stupidi,
E’ dovrà alfin di sua stoltezza piangere.
Note
- ↑ I Lemuri sono spettri famigliari, una specie d’Ombre, cui gli antichi davano apparenza di scheletri, e de’ quali il superstizioso Medio Evo ebbe fatto gli Spiriti dell’aria, che la scienza scongiura e si sottomette. (Oraz., Epist. II; Apuleio, De Deo Socratis, pag. 110. — Lessing, Sotto qual forma gli antichi si rappresentassero la morte, S. 222. — Teofrasto Paracelso, Phil. Sagax, lib. 1, 89.) — Goethe, il cui genio plastico si rivela fin ne’ minimi particolari, ha qui ricorso, ond’esprimere l’idea della servitù, a scheletri che muovono le membra ai lavori per un moto meccanico e limitato, nè oggimai più diretto dall’azione dell’anima già esalata, nè tampoco dagli appetiti della carne ridotta in polvere. Qual più evidente oggettività potevasi dare al nulla della servitù?
- ↑ Gli elementi avversano l’opera dell’uomo. (Schiller’s Glocke.) «Mi sanguina il cuore allo scorgere codesta forza divoratrice che sta in seno alla Natura, la quale nessuna cosa ha produtto che non istrugga cogli anni quanto le sta vicino, e ad un tempo sè stessa: e quando nel mio vertiginoso turbamento contemplo i cieli e la terra e le forze loro instancabili, altro non vedo che un mostro che eternamente inghiotte e rumina eternamente.» (Goethe, Werther’s Leiden, T. 1.)
- ↑ Goethe insiste sopra quest’umore lascivo del gatto, ch’egli attribuisce a Mefistofele, come già nella prima parte si legge: «Io muoio di voglia come il mucino che s’inerpica di nascosto su per la scala a canto al fuoco, e poi va via stropicciandosi alla parete. Provo anch’io non so che rimordimenti di coscienza, sol che non avessi addosso un po’ del pizzicore de’ ladri, e un po’ della fregola de’ gatti.» Mefistofele è qui il vero diavolo de’ cattolici; ei non ha pur ombra intorno alla fronte di quella benda tenebrosa, di quel segno di fatalità che il vago Lucifero di Milton toglie a prestito dal paganesimo de’ Greci. Non lega egli, non seduce, non attrae le anime verso l’abisso per una specie d’influenza simpatica; me ve le caccia con forza e rozzezza. Vediamo in lui il genio del male astretto a subire una incarnazione bassa e grossolana; l’angelo caduto impastoiato nel materialismo dell’animale. Se ciò non fosse, se codesta bestialità non l’opprimesse, il male sarebbe il solo donno del mondo, che tutto quanto avrebbelo invaso a quest’ora. Per ventura, e ciò nelle sue più ardite intraprese, la sua natura abbietta e degradata trapela sempre da qualche punto. Ora è il piè di cavallo, ora ne lo scopre il fetore del becco, e quando la lussuria del gatto ec.