Faust/Parte seconda/Atto quinto/Il gran cortile del palazzo

Atto quinto - Il gran cortile del palazzo

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Johann Wolfgang von Goethe - Faust (1808)
Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
Atto quinto - Il gran cortile del palazzo
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IL GRAN CORTILE DEL PALAZZO.


Fanali.

Mefistofele, sul proscenio in tuono d’ispettore.

       Venite, o Lemuri! o corpi sciancati,
     Ignudi scheletri, e membra recise;
     Feti, accorrete di quante son guise
     Di nervi e tendini e d’ossa informati!1

I Lemuri in coro.

       Al lavoro con teco moviam;
     Noi compreso già in parte l’abbiam;
     Questo largo paese ove siam,
     Occupar, dominare dobbiam.

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       D’aguzzi pali — la terra è piena;
     Là pel livello — v’è la catena.
     Chi n’appella e scongiura, in sì ridente
     Soggiorno omai più non abbiamo in mente.

Mefistofele. Non trattasi qui di sforzi straordinari: ciascun di voi proceda giusta le regole. — Qual è più lungo, per tutta la sua lunghezza si distenda; e voi altri svegliete l’erba intorno intorno; come s’è praticato pe’ nostri padri, facciasi uno scavo in quadro! Dal palagio alla fossa così bonariamente vassene il mondo.

I Lemuri, scavando la terra, con gesti maliziosi.

       Mentre ch’io vissi, gioventude, amore
     Eran cose per me soavi e belle;
     E dovunque rosai erano in fiore,
     O s’udieno cantar vispe donzelle,
     Così tutto prendeami un pizzicore
     Che il lascivo mio piè correva ad elle:
     Poscia a smorzar l’impetuoso ardore
     Repente mi segnò colle stampelle
     La vecchiaia importuna, e il di fu quello
     Che spalancossi l’uscio dell’avello.

Fausto, uscendo a tentoni dal palagio, mostrasi fra i pilastri della porta d’ingresso. Il rumore delle vanghe mi fa andare in visibilio! La è la moltitudine che s’affanna per me. La terra alleata con sé stessa, segna un limite al fiotto, e il mare entro a brevi ripari contiene.

Mefistofele in disparte. Colle tue dighe e co’ tuoi canali, vai lavorando per noi; e un gran festino prepari a Nettuno, il démone delle acque. E vada come ha da andare, voi siete spacciali; — gli elementi ne [p. 476 modifica]son contra;2 tutto s’incammina alla distruzione ed alla ruina.

Fausto. Ispettore!

Mefistofele. Eccomi!

Fausto. Per quanto è possibile, procaccia che il numero degli operai s’accresca; assegna ricompense, infliggi castighi, sii prodigo nelle mercedi, attira la gente, la stimola a lavorare! Ad ogni giorno che passa, intendo e voglio che mi sia detto come procedano i lavori del nostro fossato.

Mefistofele, a mezza voce. Per quel che ne intesi, non trattasi di fossati, sibbene di fossa.

Fausto. Uno stagno alle falde della montagna colle sue esalazioni m’infetta gli acquisti già fatti; l’asciugarlo è affare per me del massimo interesse. Io schiudo un territorio per miriadi d’uomini, i quali si trarranno ad abitarlo, se non rassicurati da certezza che non ammetta dubbio alcuno, con isperanza almanco di godersi la libera attività dell’esistenza. Dalle campagne verdi e feconde, uomini e greggi si conducono a bell’agio sul nuovo terreno, e vengono a stanziare lungo la collina, dove formicola una popolazione ardita e industriosa. Nel centro, qui, v’è un paradiso. Imperversi il tempestoso flutto là fuori per insino alla sponda: ma se lo pigliasse mai la [p. 477 modifica]bizzarria di rompere con violenza gli argini, s’affretta da tutte parti la folla a rinforzarli. Questa è l’idea, cui sentomi tutto quanto votato, idea che è fine ultimo d’ogni saggezza; però che degno della libertà come della vita sia quegli soltanto il quale sa conquistarsele ogni dì, ogni ora. Per tal guisa, di mezzo a’ guai che l’attorniano, il fanciullo, l’uomo ed il vecchio vedono bravamente passar gli anni loro. Oh! perchè mi si toglie di scorgere una consimile attività, di vivere in terra libera, in mezzo a un popolo libero! Non tarderei allora por un attimo ad esclamare: Sii lenta a scorrere, o vita, incantevole qual ti mostri! La traccia della mia terrestre giornata non può andar inghiottita dall’Eunoè. — Nel presentimento di questa suprema felicità, assaporo adesso il gaudio di quell’ora ineffabile. (Cade boccone; i Lemuri lo prendono e lo coricano sul terreno.)

Mefistofele. Nessuna voluttà ne lo sazia, nessun godimento ne lo appaga; nella sua demenza, dassi egli ad inseguire forme impalpabili e vane; l’ultimo istante, misero al tutto e abbietto, vorrebbe lo sciaurato abbrancarlo sicchè non avesse a passare: ma quegli che parve sì prode e gagliardo nel resistermi, il tempo via sel trascina; il veglio giace là sul nudo terreno, l’oriuolo s’arresta.

Il Coro. L’oriuolo s’arresta! è silenzioso come l’ora di mezzanotte! L’ago giù cade.

Mefistofele. Cade, e tutto è consumato.

Il Coro. Tutto è finito.

Mefistofele. Finito! Scempiaggine! E perchè finito? Finito e nulla, sono per appunto una cosa! — Che significa dunque l’eterna creazione, se quanto venne [p. 478 modifica]creato ha da ridursi nel nulla? — Là tutto è finito! — Che se n’ha da conchiudere? Ch’egli è nè più nė meno come se mai stato non fosse, e tuttavia ciò s’agita e si rimescola quasi pur fosse qualche cosa. In fede mia! l’eterno mio vuoto emmi più a grato le mille volte.

canto funebre.

Un Lemure solo.

     Chi a gran colpi di vanga, un ostello
     Così fetido e vil m’apprestò?

I Lemuri in coro.

     Questo asilo gli è ancor troppo bello
     Per chi in ruvido lin si fasciò.

Un Lemure solo.

     Come denso è quest’aëre e muto!
     I domestici arnesi ove son?

I Lemuri in coro.

     Eran d’altri; ed il fitto scaduto,
     A riprenderli venne il padron.

Mefistofele.

     Giace la salma; e se lo spirto evadere
     Cerchi, dinanzi a lui tosto il chirografo
     Squaderno ch’ei m’ebbe col sangue a scrivere.
     Ma a questi di son tante le versazie
     Tentate a sveglier di mia mano le anime! —
     L’antica arte adoprar or torna inutile;
     E delle nuove abbiam ben poca pratica.
     Altra fiata potuto avrei d’impiccio
     Trarmi da solo; ed or, compagni all’opere
     Cercar m’è forza. — Oh gran miserial Al peggio
     Vanno le cose, oh! certo al peggio volgono! —

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     Come all’usanza omai fidarsi, e al pristino
     Dritto? Fin qui, metteva appena un’anima
     L’anelito supremo, io coll’artiglio
     La ghermia pronto qual la gatta il sorcio.
     Nel suo covo schifoso or si rannicchia,
     S’avvinciglia alla salma, e mai non termina
     Dall’esitar suo vano, ed i contrarii
     Elementi v’aspetta che la stringano
     Quindi a fuggir con onta ed ignominia. —
     Invan mi brigherei di trarre a calcolo
     E l’ora e’l di; quando? in che luogo? acconcio
     Qual mezzo s’offrirà? — Question difficile!
     Che sia venuto meno il subitaneo
     Strale alla morte? Da gran tempo è dubbio
     Fin anco il SI. Chi sa? Talor con avide
     Beanti canne gongolava, gelido
     Frale guatando sul terren giacentesi: —
     Baie! di tratto palpitare e moversi
     Novellamente io mel vedeva!

(Gesti di fantastici scongiuri al modo di un capo-tamburo.)

                          In guardia
     Però, signori miei, se pur vi piaccia;
     Voi dal diritto, e voi dal corno a chiocciola,
     Voi di vetusto pel veraci diavoli,
     Tosto d’Inferno qui traete il báratro;
     Chè di báratri e gole e pozze inopia
     Non ha l’Inferno, nel cui sen precipiti
     In vario modo l’alme si travolgono:
     Su ciò men l’avvenire avrà di scrupoli.

(La gola dell’Inferno schiudesi orribile a sinistra.)

     L’immenso ardente gorgo ecco spalancasi! —

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     A torrenti fuor fuor vampe traboccano
     Di vorticose fiamme, e in mezzo a’ turbini
     Di negro fumo il ribollir continuo
     Della città del foco a me s’affaccia.
     Ondeggia e tuona e sibila l’incendio;
     Ed a bisdosso, alme dannate, orribili
     Dal gorgozzule urla mettendo e rántoli
     Pur fiduciosi del perdon, sul vertice
     Della voragin cupa a nuoto salgono. —
     Ma quella rinchiudendosi gli stritola;
     Ed essi allora in fra le grida e i gemiti
     Per la via dolorosa all’imo tornano.
     Oh! quante ne son pur doglie in quest’andito
     Ov’io mi tuffo! Oh quanta in breve margine
     Onda di foco e di martíri! Egregia-
     mente operate voi cotal nell’intimo
     De’ peccatori alto sgomento a incutere!
     Ei ciò menzogna e gherminelle appellano.

(Ai diavoli corpacciuti dal corno breve e diritto.)

     E voi melensi dalla gran ventraia,
     Dalle tumide gole, o porci stupidi,
     Grassi bracati pel cibar soverchio
     Di bitume e di zolfo, o vive fiaccole,
     Cui nelle spalle s’incaverna il lumido
     Proteso collo, che non mai vi veggia
     Dallo spiar laggiù gli occhi rimuovere! —
     Se cosa alcuna evvi che laca, o vivida
     Una scintilla, o palpitar di fosforo
     Vi si palesi, un’alma ell’è, sappiatelo!
     Psiche è colei che a vol batte le roride
     Penne, raggiante farfalletta, nobile
     Aggraziata fanciulla; in lei s’incarnino

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     Vostr’ugne, e di repente ella fia lurido
     Verme. Del mio segnarla incancellabile
     Marchio vogl’io; poi ratto in mezzo a’ turbini
     Di fiamma, in volta accanto ad essa corrasi!
        E voi ventracci — otri, infuocate,
        Il basso fondo — della voragine:
        A voi s’aspetta — ben sorvegliate.
        Se colà dentro l’anima sta
        Forse un bel giorno lo si saprà.
        Ma l’umbilico la mostrerà;
        Chè ben laggiuso trovasi. — Olà!
        Siate guardinghi adesso,
        Che non v’esca pel fesso.

(A’ diavoli sciancati dal corno lungo ed attorto.)

   E voi, caporïoni — mirabili scrocconi,
 Manovali d’inferno — allo scandaglio attenti!
 Le braccia protendete — spingete — fuorgli unghioni,
 E, se lottante in aria — a voi si rappresenti,
 Voi l’afferrate a volo! — A volo! — Io vel comando!
 Nel vecchio bugigattolo — certo ella stassi in duolo;
 Ma se lo porti in pace! — tra poco andrannein bando;
 Che impazïente è il genio — di spiccar alto il volo.

(Spiriti celesti che scendono dalle regioni superiori a dritta.)

Coro. Falangi beate,

           Arcangeli santi,
           Essenze leggere
           Di ben messaggere,
           Sollecita aita
           Recate — a’ mortali
           Che oppressi da’ mali
           Gementi — preganti

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           Trascinan la vita!
           Giù rapidi a volo
           Scendete — accorrete!
           Al gelido frale
           Rendete — o celesti
           Lo spirto immortale!
           E al vostro passaggio
           Lo spazio s’accenda
           Di vampe d’amor;
           E amica discenda
           La grazia nei cor.

Mefistofele.

     To’, quai stridule grida, e quai malèdiche
     Voci, da suso per sentier qui scendono
     Di mal augurio! — Cinguettio spiacevole,
     Canti d’ermafrodito onde letizia
     Solo un sagrista aver potria! V’è cognito
     Qual nelle nostre ore dannate l’intimo
     Del cor alta n’invada ansia di struggere
     L’universo quant’è; ma perchè il fervido
     Immaginar più di arti ree si studii
     Più alla vostra pietà gioco e’ diventano.

     Quatti, quatti — io li sento — ecco s’avanzano.
     Canaglia! — È duro a ricordar che tornano
     Spesso in pro loro i miei travagli, e a svellere
     Le tante volte di mia mano e’ giunsero
     La già ghermita preda! Eppur dissimili
     Non son tra noi l’arti, gl’ingegni, e identiche
     L’armi ch’entrambi adoperiamo; e spiriti
     Quali siam noi, son essi pur; ma spiriti
     Che la zucca melensa incapperucciano.

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     Onta! grande onta qui sarebbe il cedere;
     Alla fossa, or parrassi! e saldi all’opera.

Coro d’Angeli, spargendo rose a piena mano.

          Rose purpuree,
        Candide rose,
        Che i venti aggirano
        Vaghe, odorose;
        Immacolate,
        Di verdi gemme
        Rose adornate;
        Rose di fiamma
        Per che lo spirito
        Forte s’infiamma;
        Per che si destano
        I bei desir;
          Il vago calice
        Un po’ schiudete,
        E in larga piova
        Quivi traete,
        Rose, a fiorir.
          Fresco, gentile
        Spunti l’aprile;
        Chiase a beato
        Sonno ha le ciglia!
        Di sparse foglie
        La terra veggasi
        Tutta giuncata,
        Tutta vermiglia:
        E gl’ineffabili
        Gaudi ed il riso
        Che l’alme godono
        In paradiso

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        Trovi al destarsi
        D’intorno sparsi!

Mefistofele, ai diavoli.

    Ma donde avvien che dalle piante al vertice
    Tremar vi miro e abbrividir? Costumasi
    Forse questo in inferno? Oh scempi, oh stupidi,
    Durate immoti ad affrontarli e intrepidi.
    I clericucci d’irretirne or pensano;
    E già con quelle frascherie di fracidi
    Fiori che d’alto sulla terra gittano
    Di noi vittoria riportar si vantano!
    Di noi diavoli al foco usi a resistere!
    Attenti! attenti! Forte un buffo mandino
    Vostre mascelle, tal che si sparpaglino
    Tutti questi nonnulla! — Basta! — Il canchero
    Vi colga! Basta! I giovincelli pallido
    Han fatto il viso. — Rinchiudete or l’orride
    Boccacce, e queto stia ciascuno e mogio! —
    Troppo soffiaste, o tangheri! — Che limite
    Mai non sappiate nell’agir conoscere?
    Maledizion! ciò ch’era d’uopo sperdere
    Arde, divampa, e già la fiamma eterea,
    Presta a inondarci, turbina per l’aria.
    A posto! via! leal certame imprendasi!...
    Stremi di forze e di coraggio i démoni,
    Sotto all’influsso d’esto carezzevole
    Intenso foco, omai si stanno ed ebbrii.

Gli Angioli. O fiori lucenti,

        O fiamme felici,
        In queste pendici
        Recate l’amor!
          Di gioia languenti

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        Si mostrano i cor.
          Del giorno la luce
        Per tutto riluce;
        Del Verbo si spandono
        Sull’alme i tesor!

Mefistofele.

    Ve’ i cani! ve’ i babbioni! Oh bile! Oh scandalo!
    Sgominati sul mio capo volteggiano,
    Fan per aria la ruota, e a capitombolo
    Giù per di dietro nell’Inferno piombano!
    Itene, maladetti! e vi sia gioia
    Entro alle fiamme diguazzarvi. — Impavido
    Io solo, io sol fermo a pugnar rimangomi.
    (Dibattendosi fra un denso nuvolo di rose.)
    O fuoco fatuo, indietro! oh val risplendere
    Potrai, carino, a tuo piacer: si provino
    Quanto più sanno a scintillar piú vivide
    Queste fiammelle! Alfin se’ mio, capocchio!
    Ah! vorrestù divincolarti, e riedere
    Nell’aria tu! ma nol.... Misericordia!
    Ahi! s’incolla il folletto al mio cocuzzolo;
    Ahi! ahi! la è pece! è zolfo.... Inferno! oh spasimo!

Gli Angioli. (Coro.)

          All’astro felice,
        Fratello, ten vai
        Che sol ti si addice.
        Non prendati mai
        Vaghezza di quanto
        Di pianto — è cagione
        A quel che ripone
        Sua speme lassù.
          E allora se accada

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        Che tedio t’invada,
        Noi spirti celesti,
        Apostoli sanli,
        Farem che si desti
        Correndo a’ tuoi pianti
        L’antica virtù.
          Chè sol si consente
        L’eterno splendor
        All’animo ardente
        Nel foco d’amor!

Mefistofele.

     Tutto il cerebro è in fiamme, il sangue bollemi
    Entro le vene; inver più che diabolico
    Elemento è cotesto! assai men cuocono
    Le vampe istesse che i dannati cruciano! —
    Ben ora intendo che in amor si spasimi.
    Poveri amanti! or dato emmi conoscere
    Quanto sia quel martir che vi dilania;
    O voi che a un motto, a un atto, o al sol sorridere
    Di lei che idolatrate il cor vi sanguina;
    Voi che, turbati in vista e melanconici,
    Torcete il collo, e di perdono e grazia
    Supplicate a colei quando più sdegnavi.

    Ed io, per qual destino al vostro misero
    Stuolo m’aggiungo? O amor, odio implacabile
    Non ti giurai fors’io? Quel tuo svenevole
    Sguardo, atroce non m’è forse supplizio?
    Qual di repente mi penetra incognita
    Dolcezza! Or donde vien questo che sorgere
    In me sento piacer, mirando il nobile
    Aspetto, il volto, e le venuste, candide

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    Membra di questi garzoncei dall’aureo
    Crin? Perchè il labbro proferir bestemmia
    Non potrebbe oggimai? — Ma d’arte magica
    Se oggi così son io fatto ludibrio,
    Chi in avvenir sarà che più farnetichi? —
    Non calmi, troppa que’ bricconi han grazia
    Che sinora abborrii!
           (Agli Angioli.) Vaghi i miei giovani,
    Oh! non v’incresca un tratto a me rispondere:
    Della razza pur voi non siete — ditemi —
    Di Lucifero? or via! fate ch’io v’abbia
    Più daccosto, più ancor; chè in dolce abbraccio
    Stringermi a voi freschi e bellocci io voglio.
    Al diletto che ho in me solo in veggendovi
    Parmi che tante fiate in compagnevole
    Vita con voi già mi trovassi! Oh! l’occhio
    Più vi contempla, o maliardi amabili,
    Più sedacenti, ed aggraziati, e teneri
    Sempre ei vi trova, e le ritonde e morbide
    Forme che ammiro in voi più e più vagheggio;
    E più le ardenti mie vene divampano
    De’ segreti desir che il micio scòtono?3

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    Quando va in frega. Di grazia! appressatevi;
    Un guardo almen de’ vostri occhietti vividi!

(Gli Angioli si sparpagliano da ogni parte nello spazio.)

Gli Angioli.

    Or come va, che tu ci chiami, e poi
    Fuggi il nostro drappel che ti circonda,
    E viepiù ti si accosta? Or sta, se puoi!

(Gli Angioli si avvicinano occupando tutto quanto lo spazio.)

Mefistofele, indietreggiando fin sul proscenio.

    Ah! fattucchieri, voi chiamarne dèmoni
    Solete — come ciò, se furbi e pratici
    Siete cotanto sortilegi a tessere,
    O incantatori al par d’uomini e femmine?
    Oh caso malandrin! — D’amor solletico
    Questo forse saría? D’amor? Se struggemi
    I nervi e l’ossa un cosiffatto incendio,
    Che il tristo diavolío quasi insensibile
    Emmisi reso del tizzon cadutomi, —
    Ahi! tradimento infame! — in sull’occipite
    Che d’indi in poi non rifinisce d’ardere. —
    Voi gironzate qua e colà pel candido
    Fulgore, ma un tal po’ quindi abbassatevi
    Pur, come suole augel da’ rami scendere.
    Oh! l’alma voluttà che di voi piovere

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    Sento nel petto, o vaghi, o perfettissimi
    Angioli! Sol vorrei vedervi prendere
    Atteggiamenti più mondani e languidi.
    Quel severo contegno a’ vostri rosei
    Membri bene vi sta, ned io contrastolo;
    Ma, per mia fè, che un bel sorriso andrebbevi
    Meglio di molto, e tanta in sen delizia
    Ne proverei da non aver mai termine.
    Sorriso intendo quella gaia smorfia
    D’innamorati che sottecchi sguardano, —
    Leve la bocca corrugando, e studio
    Nessun v’ha parte, chè da sè già formasi. —
    Ohe! ohe! d’un vagheggin m’hai l’aria,
    Pretto e sputato, tu, mio gran furbaccio!
    E quanto più tue legïoni avanzano,
    Più in tutto ti vegg’io fatto a mio genio:
    Sebbene quel tuo far da cherco ho in uggia.
    Più ghiotto, via, più smaliziato guardami!
    Certo potresti senza fare ingiuria
    Del pudore alle leggi, o mio bel zanzero,
    Un po’ più denudarti, e dell’impaccio
    Sbarazzarti di questa immensa tonaca
    Che tutto quanto l’avviluppa e soffoca.
    E’ si volgono.... oh ben! — Bel garbo! tengasi
    Chi può... l’amor mi dà tale una smania....
    E i cattivelli in tale atto m’accendono
    Per guisa che ne vo tutto in solluchero!

Coro di Angioli. Viva fiammella

                Di puro ardor,
                L’ala tua bella
                Volgi al soggiorno
                Del santo amor!

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                  Per quanto il mondo
                Girasi allondo,
                Del giusto sola
                Può la parola
                Un cor redimere
                Dal suo fallir.
                  Del tentatore
                Sfugga agli agguati
                Chi anela vivere
                In fra’ beati!

Mefistofele, rientrando in sè.

   Or donde questo? Che m’avvenne? ahi misero!
   Tutta una piaga ecco son fatto, e gli ulceri
   Veggonsi pullular come fior d’acero;
   Qual Giobbe un dì, fo schifo a me medesimo.
   Non monta! io sol trionfo, e ancor son diavolo.
   Lo smarrito mio senno a me quest’orrido
   Spettacolo ridona.... e profittevole
   Fia la lezione, o sciagurati: in guardia
   Noi sarem quind’in poi. Salva ho di Satana
   La miglior parte; sol la cute aggiungere
   Può la febbre d’amor, e l’esecrabile
   Flagel di questa atroce fiamma spegnersi
   Già miro, e ben poss’io, come tu meriti,
   Razza d’ermafroditi, il vituperio
   E la bestemmia ancor lanciarti in faccia.

Coro di Angioli. Mirabil estasi!

                Chi in te s’accende
                Nel miro incendio
                Già Dio comprende.
                A schiere a schiere
                Riedasi al ciel!

[p. 491 modifica]

        In laudi e cantici
        L’ardor disfoghisi
        Che il gaudio inspira!
        Azzurro è l’etere,
        Alfin respira
        L’alma fedel!

(S’ergono a volo, seco recando la parte immortale di Fausto.)

Mefistofele, volgendo intorno lo sguardo.

   Ed ora, ove son elli? — O sciocco, o zotico!
   Che da breve drappel così sorprendere
   Di fanciulli ti lasci! osserva! e’ fuggono!....
   E quel tesoro colassù si portano
   Cui mal sapevi tu, folle, difendere.
   Chiaro t’è alfin che da orïente mossero
   Tratti all’odor questo ghiotto frustolo.
   L’alma che un patto a te stringeva, seppero
   A te di cheto que’ cialtroni svellere,
   E de’ tuoi beni ecco tu perdi il massimo!
   E lo perdi per sempre! Oh! chi, chi rendere
   Ti saprebbe il tuo dritto, o miserabile?
   Come, d’anni già vecchio, or fosti, o Satana,
   Ingannato, deriso! E ben tel meriti....
   Di chiaro e tondo che in codest’impiccio
   Contegno avesti da melenso e stupido.
   O mie fatiche indarno spese! O inutili
   Cure e fastidi! E tutto, oh mia vergogna!
   Tutto il mio danno oggi mi vien da un futile
   Desio, da un amorazzo inconcepibile
   Entratomi nel cor — a me, di ragia
   E pece tutto intonacato e lurido!
   Or può trarsi da ciò, se bene immagino,

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   Che l’uomo accorto, se un bel di si lascia
   Follemente sedur da questi stupidi,
   E’ dovrà alfin di sua stoltezza piangere.



Note

  1. I Lemuri sono spettri famigliari, una specie d’Ombre, cui gli antichi davano apparenza di scheletri, e de’ quali il superstizioso Medio Evo ebbe fatto gli Spiriti dell’aria, che la scienza scongiura e si sottomette. (Oraz., Epist. II; Apuleio, De Deo Socratis, pag. 110. — Lessing, Sotto qual forma gli antichi si rappresentassero la morte, S. 222. — Teofrasto Paracelso, Phil. Sagax, lib. 1, 89.) — Goethe, il cui genio plastico si rivela fin ne’ minimi particolari, ha qui ricorso, ond’esprimere l’idea della servitù, a scheletri che muovono le membra ai lavori per un moto meccanico e limitato, nè oggimai più diretto dall’azione dell’anima già esalata, nè tampoco dagli appetiti della carne ridotta in polvere. Qual più evidente oggettività potevasi dare al nulla della servitù?
  2. Gli elementi avversano l’opera dell’uomo. (Schiller’s Glocke.) «Mi sanguina il cuore allo scorgere codesta forza divoratrice che sta in seno alla Natura, la quale nessuna cosa ha produtto che non istrugga cogli anni quanto le sta vicino, e ad un tempo sè stessa: e quando nel mio vertiginoso turbamento contemplo i cieli e la terra e le forze loro instancabili, altro non vedo che un mostro che eternamente inghiotte e rumina eternamente.» (Goethe, Werther’s Leiden, T. 1.)
  3. Goethe insiste sopra quest’umore lascivo del gatto, ch’egli attribuisce a Mefistofele, come già nella prima parte si legge: «Io muoio di voglia come il mucino che s’inerpica di nascosto su per la scala a canto al fuoco, e poi va via stropicciandosi alla parete. Provo anch’io non so che rimordimenti di coscienza, sol che non avessi addosso un po’ del pizzicore de’ ladri, e un po’ della fregola de’ gatti.» Mefistofele è qui il vero diavolo de’ cattolici; ei non ha pur ombra intorno alla fronte di quella benda tenebrosa, di quel segno di fatalità che il vago Lucifero di Milton toglie a prestito dal paganesimo de’ Greci. Non lega egli, non seduce, non attrae le anime verso l’abisso per una specie d’influenza simpatica; me ve le caccia con forza e rozzezza. Vediamo in lui il genio del male astretto a subire una incarnazione bassa e grossolana; l’angelo caduto impastoiato nel materialismo dell’animale. Se ciò non fosse, se codesta bestialità non l’opprimesse, il male sarebbe il solo donno del mondo, che tutto quanto avrebbelo invaso a quest’ora. Per ventura, e ciò nelle sue più ardite intraprese, la sua natura abbietta e degradata trapela sempre da qualche punto. Ora è il piè di cavallo, ora ne lo scopre il fetore del becco, e quando la lussuria del gatto ec.