Faust/Parte seconda/Atto quarto/Sulla parte anteriore della montagna
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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SULLA PARTE ANTERIORE DELLA MONTAGNA.
Strepito di tamburi, e suon dimusica guerriera che vengono dal basso. La tenda dell’Imperatore è spiegata.
L’IMPERATORE, IL GENERALE IN CAPO, LANZI.
Il Generale in Capo. Risoluzione tempestiva assai e prudente parmi quella d’avere in codesta valle non poco vantaggiosa l’intero esercito ristretto; e ho grande fiducia che una tale scelta abbia a darne buoni risultati.
L’Imperatore. Che fia per succedere cel vedremo fra poco. Intanto codesta specie di fuga, codesta ritirata mi dà pena indicibile.
Il Generale in Capo. Guarda, o mio principe! alla nostra diritta. Un suolo come questo prestasi mirabilmente al piano di guerra che ci siamo formati; alture poco ripide, e tuttavia non troppo accessibili, favorevoli a’ nostri, perigliose al nemico; e noi, mezzo nascosti sur un piano pieno di solchi e di fosse, dove la cavalleria si periterà ad innoltrarsi.
L’Imperatore. Non ho che a lodarmi d’ogni cosa; qui braccia e petti avranno campo di cimentarsi.
Il Generale in Capo. Vedi tu colaggiù nell’aperta pianura la falange in duro scontro impegnata? Le picche scintillano per l’aere, di contro a’ raggi del Sole, tra le nebbie vaporose del mallino. Ve’ muoversi qua e là i negri flutti di quel quadrato formidabile! Migliaia e migliaia d’uomini si struggono quivi per desio di fatti magnanimi e grandi. Misura da ciò quanto sia per essere il nerbo dell’esercito; io tengo per indubitato ch’ei varrà a sgominare la forza nemica.
L’Imperatore. Oggi per la prima fiata m’avviene di godermi un tal colpo d’occhio; in un esercito cosiffatto ciascun milite vale per due.
Il Generale in Capo. Nulla ho a dire della sinistra, tanto son gagliardi e valorosi que’ che stanno in guardia della rocca massiccia. Quel picco di granito, da un capo all’altro luccicante di spade e di lancie, difende il passo importante della forra. Colà, prevedo che verranno disavvedutamente a rompere nel sanguinoso conflitto le falangi nemiche.
L’Imperatore. Mirali colaggiù approssimarsi quegli alleati bugiardi che mi soleano chiamare zio, cugino e fratello, e di giorno in giorno fattisi nei loro feudi piú baldanzosi, tolsero allo scettro la forza, il suo credito al trono; poi, fra loro divisi, devastarono l’Impero; ed ora, di bel nuovo riuniti, sonosi contra me sollevati! La moltitudine ondeggia indecisa, fino a che senza meno trabocca là dove il torrente ne la trascina.
Il Generale in Capo. Un de’ tuoi fidi, spedito ad esplorare, scende giù della montagna a gran passi. Oh! siagli propizia la sorte!
Primo Messo. Ben provvisti di accortezza e di coraggio, usammo le arti nostre con buon effetto, insinuandoci qua e colà: tuttavia poco ne valse. Molti e molti sono disposti a giurare a te omaggio e fedeltà, qual già ti prestano le devote tue trappe, ma in tutto ciò altro non ravviso che pretesto ad ottenere una tregua, e a suscitare l’interno fermento, e lo scompiglio fra il popolo.
L’Imperatore. Il principio dell’egoismo non è nè la gratitudine, nè la simpatia, nè il debito, nè l’onore, sì veramente la conservazion di sè stesso. Di vero, quando è colma la misura, non vi date voi a credere che l’incendio del vicino abbia a consumare pur voi?
Il Generale in Capo. Ecco il secondo messo, che scende a passi lenti, stanco e spossato: non ha membro che non gli tremi.
Secondo Messo. Dapprima ne fu scoperto con sommo nostro contento un gran parapiglia; e un momento dopo, all’impensata un nuovo Imperatore s’avanza. Sulle vie a lui segnate furiosa dal piano s’accalca la moltitudine; e tutti dànnosi a seguitare i vessilli menzogneri che sventolano: proprio come le pecore che
...ciò che fa la prima, e l’altre fanno!1
L’Imperatore. Un Imperatore rivale qui si trae pel mio pro: quest’è la prima volta ch’io sento di essere Imperatore. Mi son posta indosso l’assisa di soldato, ed ecco la porto ora per un gran colpo che vo meditando. Ad ogni festeggiamento, di mezzo alla pompa ed allo splendore, una sola cosa mancavami: il rischio. E voi tutti, quanti siete, foste a consigliarmi i giuochi cavallereschi: il cuor mi batteva, non respirava che tornei, e dove non foss’io stato sviato dalla guerra, mi cingerebbe a quest’ora una fulgida aureola di gloria, premio di eccelse intraprese. Dappoichè laggiù mi vidi entro all’impero del fuoco, sentii nel mio petto il marchio della indipendenza; quell’elemento mi assalse con quanto ha in sè di orribile e spaventoso; illusione era quella, non più che illusione; ma sublime s’altra mai. Sognava allora in confuso vittoria e fama; ed io riprendo oggi quello che a gran torto ebbi insino a qui non curato. (Gli Araldi partono per recarsi a provocare il Pseudo-Imperatore.)
Fausto coperto d’un’armatura, colla visiera calata a metà.
I Tre Campioni equipaggiati e vestiti come fu detto a suo luogo.
Fausto. Noi ci avanziamo senza temere di biasimo; eziandio quando la necessità non dà la spinta, l’essere antiveggenti frutta benone. La gente di montagna, medita, come ben sai, e fa senza posa suoi sperimenti, deciferando le note della Natura e del granito. Gli Spiriti, lasciata da lunga pezza la pianura, son ora più che mai infervorati delle alture. Agiscono eglino in silenzio, nel labirinto delle voragini, e fra le considerevoli esalazioni de’ ricchi vapori metallici; analizzando continuamente, esaminando, raffrontando, vogliono ad ogni costo scoprire alcun che di nuovo. Scòrti dalla mano leggera delle soprannaturali potenze, dispongono delle forme diafane, e poscia, nel cristallo, tenendosi in perpetuo silenzio, contemplano gli eventi d’un mondo superiore.
L’Imperatore. L’intesi a dire, e vo’ credere che sia; ma, dimmi, caro mio, com’entra qui tutto questo?
Fausto. Il Negromante di Nurcia,2 il Sabino è tuo servo fedele e rispettoso. Un bel giorno videsi minacciato da un’orribile disgrazia; già le fascine crepitavano; già la fiamma levavasi in lingue voraci, zolfo e pece meschiavansi alle aride legna accatastate intorno a lui; nè uomo, nè Dio, nè diavolo bastavano a salvarlo; e tu, sire, spezzavi quelle ardenti catene. — Il caso successe in Roma. Or egli che ti rimase per questo infinitamente obbligato, nè mai da quell’ora lasciò un attimo di osservare ansioso le tue pedale, dimentico al tutto di sè medesimo, altro non fa che esplorare per te gli astri e gli abissi: ed è egli appunto che ne diè l’incarico di assisterti al più tosto, mercè le forze imponenti della montagna. Colà opera la natura con tale una esuberanza di libertà che la buaggine de’ sagrestani taccia le opere sue di fattucchieria.
L’Imperatore. Ne’ giorni di gala, quando siamo sul complimentare gli ospiti, che ilari in viso traggono a partecipare alla nostra letizia, n’è dolce assai il vedere accorrer tutti e affollarsi e gremire i saloni insufficienti a contenere sì numeroso corteggio: ma, più d’ogni altra cosa riesce ben accetto l’uomo di gran cuore, che spontaneo muove ad assisterci in sul mattino del giorno gravido di grandi avvenimenti, e quando sta in alto sospesa la bilancia del fato. Ciò nondimeno rimovete, in codest’ora solenne, rimovete la mano ardita dall’impaziente giavellotto; e si onori l’istante in cui mille e mille armati s’avanzano per o contro di me. L’uomo sta tutto quanto dentro da sè. Chi ambisce trono e corona, diasi individualmente a conoscere meritevole di tanto; ed è per questo ch’io vo’ ricacciare col proprio braccio nel regno de’ morti il fantasma in sorto a muovermi guerra, il fantasma che si fa dire imperatore, padrone de’ nostri stati, condottiero e capo dell’armata, feudatario e signore de’ più distinti vassalli!
Fausto. Per quanta gloria possa venire a te dal compiere la grande impresa, hai però torto di esporre così la sacra tua persona. Non vedi tu come il cimiero sormonti l’elmo e lo copra? Esso ne ripara la testa infiammata dal valor che n’accende. Senza capo che far potrieno le membra? S’addormenta, ed esse tosto s’accasciano; è ferito, ed esse languiscono e gemono, rinvigorendosi sol quando sano e salvo ei ritorni. Il braccio sa usar con destrezza della forte sua vigoria, e leva in alto lo scudo a proteggere il cranio: nè è tarda la scimitarra, consapevole del suo debito, a sviare il fendente con forza, e a ribattere i colpi; e il piede entra a parte di lor fortuna, e schiaccia prepotente la nuca al nemico che morde la polvere.
L’Imperatore. Tale è appunto il furore che mi strugge, così, così vo’ trattarlo, e del tracotante e superbo capo di lui farmi a’ piedi sgabello!
Gli Araldi di ritorno. Scarse onoranze, e ben poco credito ne venne fatto di trovare laggiù. Alle nostre energiche e calde insinuazioni, fecero risposta di sghignazzate e di beffe: «Il vostro Imperatore, diceano, ha finito di esistere! Egli non è dappiò di un vano eco laggiù in fondo alla valle! Se facciamo ancora menzione di lui, ciò è per dire come in capo ad un racconto: — C’era una volta....»
Fausto. Il tutto è disposto secondo piacque a’ migliori, che saldi e leali, ti stanno da fianco. Intanto avanza il nemico, e i tuoi lo attendono impazienti; ordina l’attacco, l’istante è propizio.
L’Imperatore. Or qui mi spoglio del comando. (Al Generale in capo.) Principe, ogni cosa sta in tua mano.
Il Generale in Capo. Il corno destro dunque si avanzi! L’ala sinistra del nemico, che si affanna ora ad inerpicarsi in sull’altura, innanzi che muova l’ultimo passo, dee cedere alla specchiala fedeltà de’ nostri giovani agguerriti e valorosi.
Fausto. Permetti, s’ella è così, che questo eroe, giovine anch’egli, entri incontanente nelle file, e aggregato a’ tuoi battaglioni vi porti il nerbo del robusto suo braccio. (Accenna a dritta.)
Raufebold s’avanza. Chi mi guarda in faccia, lasci ogni speranza di ritorno, o s’aspetti d’uscirne colle mascelle spaccate! chi mi volge le spalle, sentirà tosto il collo, il capo ed il ciuffo cadersi ansante giù per la nuca! E se, visto com’io m’arrabatti, i tuoi guerrieri tempesteranno colla spada e colla mazza a quel modo, cadrà a terra il nemico, uomo sovr’uomo, affogato in un mare di sangue dalle lor vene spicciato. (Exit.)
Il Generale in Capo. Segua da presso la falange del centro, e affronti il nemico, con prudenza insieme, e con quanto ha d’impeto e di forza! Un po’ sulla diritta, laggiù, mirate come l’inasprita gagliardia de’ nostri soldati sventi e disperda ogni lor piano!
Fausto additando l’uomo di mezzo. E costui non meno sia presto a’ tuoi cenni!
Habebald si avanza. Alla valentía delle imperiali legioni bene sta che si aggiunga la sete del bottino. Eccovi la mira che a voi tutti propongo; quella è la tenda del Pseudo-Imperatore. Non isfoggerà egli gran tempo su quel trono mal fermo, s’io pongomi alla testa della falange.
Eilebeute vivandiera, facendogli vezzi. Tuttochè non siami secolui maritata, è pur sempre vero che di quanti v’ha fantaccini questo è che più dàmmi nell’occhio. Ecco i frutti che per noi si maturano! Terribile è la donna, quand’ella piglia; più dura d’un macigno, quando la ruba. Alla vittoria dunque! e tutto è per bene. (Exeunt.)
Il Generale in Capo. A mancina, com’era da prevedere, il corno destro si precipita a furia. Fia che s’oppongano corpo a corpo al disperato lor tentativo di portar via d’assallo la forra.
Fausto indicando a sinistra. Ti consiglio, o signore, di por mente a costui. Non fia cosa mal fatta che a’ prodi un altro prode si unisca a viemmeglio afforzarli.
Haltefest s’avanza. Pensiero alcuno non vi pigli dell’ala sinistra! Là dov’io sono, è assicurato e saldo il possesso; non manca al vecchio fermezza; e sfido persino la folgore a strapparmi di mano ciò ch’io tengovi serrato. (Exit.)
Mefistofele scendendo dalle alture della montagna. Mirate adesso, come in fondo ad ogni gola gli armati si accalchino, occupando gli strelli viottoli! D’elmi e di corazze, di lancie e di scudi han fatto un muro dietro a noi, in attesa del segnale per ballersi. (Con voce bassa, agl’iniziali.) Onde ciò, nol chiedete. Con tutta schiettezza, non ho perduto pure un istante; e quante sale d’armi son ne’ dintorvi, le ho saccheggiate e vuotate. Teneansi là ritti, in sella; e avresti detto esser eglino pur sempre i padroni della terra. Cavalieri un tempo, re, imperatori, adesso gusci vuoti di chiocciole, dentro cui più d’uno spettro cacciavasi, risuscitando con ciò il Medio Evo. Sien pure di qualsivoglia razza i diavoletti che sonvisi oggi intanati, non mancheranno certo in tal incontro di far buona presa. (Forte.) Odi come urlano nello avanzarsi, e qual tintinnío di ferri percossi diffondesi intorno mentre s’urtano un contro l’altro! Sui tuoi stendardi sventolano bandiere lacere e cenciose che sospiravano già è gran tempo ad un buffo di aria viva. Pensa essere costoro antichi popoli belli e apparecchiati, che di buon grado occuperebbono un posto nel moderno conflitto. (Bande clamorose e assordanti dall’alto; gran disordine e confusione nell’armata nemica.)
Fausto. L’orizzonte s’è coperto, e solo qua e colà splende una luce rossastra, che presagisce gran cose. E rupi e boscaglie, l’atmosfera, il ciel tutto quanto si mesce e confonde.
Mefistofele. L’ala diritta tien saldo, ma veggo nel parapiglia Hans Raufebold, che dal petto in su soprasta ad ogni altro, lo veggo a menar le mani, gigante sbrigato, e a picchiare, pur com’e’ suole.
L’Imperatore. Sulle prime, vidi a muoversi non più che un braccio; se ne veggon ora a belle dozzine che tempestano a furia. Ciò non è punto naturale.
Fausto. Non li venne mai udito nulla di que’ densi nuvoloni che van portati da’ venti su per le coste della Sicilia?3 Ti si affacciano colà apparizioni bizzarre, vagolanti per l’aere sereno, portate vêr gli spazi intermedi, e riflesse dentro a strani vapori; là paesi che vanno e tornano, e giardini che salgono e discendono, secondo che le immagini vengono dall’etere frastagliate.
L’Imperatore. Ad ogni modo, sentomi tratto a sospettare! Veggo lampeggiare le picche; veggo, sulle armi scintillanti della nostra falange, correre di su di giù vive e pronte fiammelle; e tutto questo mi riesce un po’ troppo fantastico e singolare.
Fausto. T’inganni, o sire, nel tuo supposto. Le son quelle vestigie di enti ideali che andarono smarriti, o un riflesso dei Dioscuri, scongiurati ad ogni tratto da quanti son marinai. Fanno essi qui ragunandosi gli ultimi loro lampeggi.
L’Imperatore. Or dimmi; a chi andiam noi debitori, se la Natura ne colma de’ suoi prodigi?
Mefistofele. E a chi dunque se non al supremo Signore che le tue sorti tiensi chiuse nel petto? Le violenti minacce de’ tuoi avversari hanno in lui suscitata la più viva commozione, talchè per sua bontà ei vuol preservarti a qualunque costo.
L’Imperatore. Tripudiavano essi menandomi attorno con isplendida pompa. Aveva allora assai credito, e volendo farne esperimento, deliberai, senza troppo riflettervi, di dare un po’di brio alla mia barba grigia. Una tal novità ebbe mandata a male non so che festa clericale, e a dirla, non rimasi gran fatto nella buona grazia di coloro. Come mai adesso, dopo tant’anni, avrei ad esserne favorito in guisa segnalata cotanto?
Fausto. Un generoso benefizio non lascia mai di produrre i suoi frutti con usura. Volgi in alto lo sguardo! Pensomi che sia per scendere di lassù un augurio. Osserva! ciò almeno si spiega ad un batter d’occhio.
L’Imperatore. Un’aquila svolazza per le regioni celesti, ed un grisone con accanimento la insegue.
Fausto. Pondera bene il tutto! l’enimma, a quanto parmi, è propizio. Il grifone è animale favoloso; e come mai può egli essere ardito così che voglia con una vera aquila misurarsi?
L’Imperatore. Vánnosi ora l’un l’altro osservando, aggirandosi con volo largo e circolare. Scagliansi addosso repentinamente a squarciarsi il petto e la gola.
Fausto. Osserva come quel tristaccio di grifone, battuto, rabbuffato, erri qua e là senza scampo, e, rabbassata la sua coda di lione, si cacci nella foresta che cinge la vetta del monte. Vedi? è sparito!
L’Imperatore. Abbia cotal fine l’enimma, ed io l’accetto compreso di alta meraviglia.
Mefistofele, volgendosi a destra. Sottesso i colpi raddoppiati e mortali cede il nemico, e pur combattendo all’impazzata, precipitasi a diritta, portando così la confusione in mezzo all’ala sinistra, dov’è il grosso della sua armata. La testa compatta della nostra falange vien tosto dalla parte destra, e pari al fulmine piomba sul lato sgagliardito. — Ed ora, qual onda dalle tempeste commossa, le due potenze eguali in duplice conflitto s’agitano rabbiosamente. Non fu visto mai uno spettacolo più di questo mirabile. La battaglia è vinta!
L’Imperatore, rivolto a sinistra, parla a Fausto Osserva! Non sono senza inquietudine su questo punto: la nostra posizione è rischiosa. Rotolar di massi non veggo, il nemico s’è ingrossato al basso del picco; e intanto le alture sono sgombere affatto. Ecco un formidabile corpo dell’ostile fazione più e più avvicinarsi: ahi! forse ebbero essi forzato stretto. Qual fortuna ha quel maledetto e sacrilego vostro tentativo, lo si vede ora! Le vostre astuzie nulla han prodotto di buono. (Pausa.)
Mefistofele. Veggo venir qua i miei due corbi: che novelle avran essi da darmi? Ho forte timore che non la vada male per noi.
L’Imperatore. Che mai vogliono codesti fastidiosi uccellacci? Scappati dal calor della mischia, librano alla nostra volta le negre lor penne.
Mefistofele a’ due corbi. Traetevi a posare vicino alle mie orecchie. Quegli che prendeste a proteggere non fia perduto, grazie al saggio vostro consiglio.
Fausto all’Imperatore. Avrai certo già inteso a narrare di volatili che dalle più remote contrade movono a depor qui le uova, e a pascere, per entro a’ nidi i pulcini. Non altrimenti avvien ora; con un divario però, e ben rilevante, che il fermarsi de’ pennuti n’è indizio di pace, mentre alla guerra voglion esser corbi che la facciano da corrieri.
Mefistofele. Quanto io n’odo mi dà noia. Qual dura posizione son iti a prendere i nostri su quel dirupo? Le alture vicine veggonsi invase, e s’eglino traessero a forzare il passo, ci troveremmo ridotti a mal termine.
L’Imperatore. È dunque intesa ch’io venni da voi corbellato! Non veggomi dattorno che reti e lacciuoli; e tremo tutto quanto, dacchè per opera vostra v’ebbi ad incappare.
Mefistofele. Fàtti animo, o sire! il caso non è ancor disperato. Sofferenza e astuzia hanno a toglierti di quest’ultimo impiccio! Gli è sul finire che, per lo più, s’intralciano gli avvenimenti. Son quelli gl’infallibili miei messaggeri: dammi i tuoi ordini, ond’io possa loro trasmetterli.
Il Generale in Capo, sopravvenuto in quel mentre. L’alleanza che hai tu stretta con costoro, non ha fatto finora che tribolarmi. Dalla fantasmagoria non può venir bene che durevole sia. Per me, non so oggimai più come cangiare in meglio le sorti del combattimento. Essi lo ebbero cominciato, ed essi lo finiscano; io depongo il bastone del comando.
L’Imperatore. Conservalo, di grazia! per quegl’incontri migliori cui la sorte può ricondurne, quando che sia. Fammi abbrividire codesto orrido compare, e la sua dimestichezza coi corbi. (A Mefistofele.) Non mi sento d’affidare a te il bastone, perocchè non mi hai troppo aria di uomo cui si convenga. Tuttavia, ponti al comando, e fa di scamparci! Avvenga ora che può! (Ritirasi nella tenda col Generale in Capo.)
Mefistofele. Va! t’aiuti ora il tuo bastone di bosso, ch’io per me n’avrei giovamento ben debole e scarso. E poi vi stava in cima un certo ghirigoro sembiante a una croce.
Fausto. Che c’è da fare?
Mefistofele. Tutto è già fatto. — Via, su, miei neri cugini, siate snelli e pronti a servirci! Al gran lago della montagna! Salutate le Ondine da parte mia, e domandate loro un’apparenza di acque. Esperte in ogni ragione di femminili astuzie, cui è difficil troppo indovinare, sanno elle disgregare l’apparenza dalla realtà, a segno tale da trarre in inganno chicchessia. (Pausa.)
Fausto. I nostri messi debbono aver fatto in tutta forma la corte loro alle ninfe delle acque, dappoichè laggiù cominciano sin d’ora a scorrere i flutti; e qua e colà sui massi nodi e brutti si riversa una massa d’acqua viva spumante. La vittoria degli avversari se ne va in fumo.
Mefistofele. Singolare accoglienza che lor vien fatta! i più intrepidi all’assalto la dánno a gambe.
Fausto. Già il ruscello co’ ruscelli si mesce, acque ingrossate dal fesso della rupe giù si trabalzano. Vedi or quel torrente sul quale incurvasi l’arcobaleno; dapprima si ripiega sallo spianato della rope, e gorgoglia e spumeggia da tutte parti, finchè di dirupo in dirupo, gittasi nella valle. A che pro una resistenza valorosa ed eroica? La possente e torbida piena avventasi ad inghiottirli: io stesso, io stesso dell’orrendo scompiglio provo raccapriccio e spavento.
Mefistofele. Quanto a me, di codesto rovinio d’acque non veggo pur ombra; gli occhi soli dell’uomo possono lasciarsi allucinare sì fattamente, e la strana avventura mi diverte non poco. Codeste acque rovinano giù in masse diafane e lucenti; e gl’imbecilli dannosi ad intendere d’annegarsi dal primo all’ultimo, e sbuffano a piena gola sull’asciutto terreno, e vanno attorno con lungo e spesso dimenar di braccia a guisa di notatori; vista ridicola al tutto e bizzarra. Adesso poi, va ogni cosa sossopra. (I corbi ritornano.) Di quanto operaste ne ragguaglierò io il re e signor nostro; e se volete far un colpo veramente da maestro, volate in tutta fretta all’ardente fornace là dove il popolo pigmeo batte instancabilmente il metallo e la pietra sino a levarne sprazzi di vive scintille; e chiedete loro, con belle e dolci paroline, un fuoco che splenda, sfavilli, fiammeggi, un fuoco tale quale noi cel sappiamo appena immaginare. Lampeggi di caldura in lontananza, stelle cadenti che guizzano rapide come lo sguardo, tutto ciò ne accade di scorgere ad ogni notte di estate: ma folgori che s’accendano ne’ secchi cespugli, ma stelle guizzanti sul terreno umido e molle, questo è che non riesce sì agevole a rinvenire. Suvvia, dunque, senza troppo allenarvi cominciate colle istanze, e finite per comandare. (Partono i corbi, e quanto fu detto succede appuntino.)
Mefistofele. Involgere il nemico di fitte tenebre, rendergli mal certo ogni passo, circondarlo di fuochi fatui, abbarbagliarlo con subitanei baleni, le son cose belle e buone; ma occorrerebbe inoltre levare un fragore assordante che mettesse loro in dosso una paura indiavolata.
Fausto. Le vuole armature, cavate fuori delle sale sepolcrali ove giacevano, si ringalluzzano all’aere aperto; ed è oramai un gran pezzo, che là in alto evvi uno scricchiolío d’armi percosse, un fracasso, un frastuono che mai il maggiore.
Mefistofele. A meraviglia! Non c’è più verso di contenerli: già que’ stormi cavallereschi mandano strilli in aria come al buon tempo antico. Bracciali e cosciali, a mo’ di Guelfi e di Ghibellini, rinnuovano gagliardamente gli eterni loro piati. Saldi negli odii ereditari, dànnosi a divedere irreconciliabili: ed oramai il baccano s’ode echeggiar pur da lunge. Tant’è, in tutte le sublimi orgie infernali, l’animosità de’ partiti fu mai sempre quella che n’apportasse maggior somma d’orrori e di guai. Il fracasso più e più rincalza in tuono spaventevole, panico e ad un tempo penetrante, acuto, indiavolato, sicchè gitta nella vallea terrore e sgomento. (Tumulto militare nell’orchestra, che poi si cangia in allegre guerresche sinfonie.)
Note
- ↑ Dante, Purg., III.
- ↑
Alludesi a Giorgio Sabellico, princeps necromanticorum, Faustus junior, le cui stravaganze faceano romore in Alemagna verso il 1507. Pretendeva egli d’essere mandato a riprodurre tatti i miracoli del Cristo. Franz di Sickingen lo fe nominar rettore alla scuola di Kreusnach; ma non potè a lungo durare in tal carica, costretto per le sue sregolatezze ad abbandonare la città. (Vedi la Lettera di Gio. Tritemio, in Goerres.)
- ↑ Sulle fascinazioni aeree dello stretto di Messina, vedi la graziosa fantasia di Lamothe-Fouquet.