Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/440

432 fausto.

capo dell’armata, feudatario e signore de’ più distinti vassalli!

Fausto. Per quanta gloria possa venire a te dal compiere la grande impresa, hai però torto di esporre così la sacra tua persona. Non vedi tu come il cimiero sormonti l’elmo e lo copra? Esso ne ripara la testa infiammata dal valor che n’accende. Senza capo che far potrieno le membra? S’addormenta, ed esse tosto s’accasciano; è ferito, ed esse languiscono e gemono, rinvigorendosi sol quando sano e salvo ei ritorni. Il braccio sa usar con destrezza della forte sua vigoria, e leva in alto lo scudo a proteggere il cranio: nè è tarda la scimitarra, consapevole del suo debito, a sviare il fendente con forza, e a ribattere i colpi; e il piede entra a parte di lor fortuna, e schiaccia prepotente la nuca al nemico che morde la polvere.

L’Imperatore. Tale è appunto il furore che mi strugge, così, così vo’ trattarlo, e del tracotante e superbo capo di lui farmi a’ piedi sgabello!

Gli Araldi di ritorno. Scarse onoranze, e ben poco credito ne venne fatto di trovare laggiù. Alle nostre energiche e calde insinuazioni, fecero risposta di sghignazzate e di beffe: «Il vostro Imperatore, diceano, ha finito di esistere! Egli non è dappiò di un vano eco laggiù in fondo alla valle! Se facciamo ancora menzione di lui, ciò è per dire come in capo ad un racconto: — C’era una volta....»

Fausto. Il tutto è disposto secondo piacque a’ migliori, che saldi e leali, ti stanno da fianco. Intanto avanza il nemico, e i tuoi lo attendono impazienti; ordina l’attacco, l’istante è propizio.