Faust/Parte seconda/Atto quarto/Alta montagna
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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ALTA MONTAGNA,
Vertici di rupi scagliose, enormi; passa una nube, s’appoggia, e cala giù sur un olmo sporgente: da ultimo si dirada.
FAUSTO esce dalla nebbia.1
Mentre negl’imi abissi intento e fiso
Lo sguardo accentro, e solitario movo
Di quest’erte giogaie in su le brulle
Cime, per l’äer vano si dilunga
Il carro or’io fra terra e ciel sospeso
E da’ venti qua e là n’andai con leve
Urto sospinto, innanzi che alla para
Luce qui trarmi; — ei va, ma non per questo
In polve o in nebbia si discioglie e sfuma.
Ad Orïente è il suo cammino, e tarde
Volve le ruole, si che lunga tratta
Lui seguir può l’attonita pupilla.
Oh prodigio! oh stupor! Sovra dorati
Sfolgoranti origlieri, ecco la nube
Di gigantesche forme immagin diva
Farsi vegg’io. Ben Giuno è quella,! È Leda!
Elena è certo! Oh la beata e cara
Celeste visïon! — Ahi! me diserto!
Come ratto svanì! Già, già l’informe
Massa in un sì raccoglie, e sterminato
Monte di ghiacci raffigura, in cui
Di mia giovine etade in fiamma viva
Il sentimento si riflette. Fuore
Da’ colli un dolce e tiepido si spande
Vapor che lene discorrendo, nove
Forme elette ridesta, e il cor mi bea.
Di mia fiorente giovinezza, o primo
Desio, suprema voluttade, o sola
Gioia che in mente anco mi sei, divino
Söave aspetto, così dunque gioco
Di me ti prendi? Oh! di quegli anni io tutta
Gusto l’ebbrezza, e al rammentarli, in petto
Il cor si gonfia, si dilata! — Amica
Dell’alba orezza, nelle vaporose
Tue nebbie il pronto de’ suoi vispi occhietti
Volgere io miro, ahimè! compreso appena,
Su cui tempo non vale, obblio non puote:
Chè de’ vivi splendori eternamente
Fia che il tesoro l’anima mi schiari.
Siccome etereo spirito immortale
Per la immensa del ciel plaga s’aderge
Vestita del color di fiamma e d’oro
La bella crëatura, e seco a volo
La migliore di me parte solleva.
Una Botta di sette leghe sgambetta, un’altra le tiene dietro. MEFISTOFELE salta dalla Botta in terra. Gli animali lesti lesti si allontanano.
Mefistofele. In fede mia, questo si ha a dire camminare! Ma, che ghiribizzo or ti piglia? Tu ti sprofondi in questi capi orrori, in quest’abisso petroso, spalancato. Palmo a palmo conosco il terreno, avvegnachè non istia al suo posto; chè, se ho a dire il vero, era questo il centro più basso e profondo dell’Inferno.
Fausto. Quand’è che la farai finita con queste tue diavolerie? Eccoti da capo a spacciare leggende strane e facete.
Mefistofele, con tuono serio e grave. Allorchè Dio, il Signore — so bene io il perchè — ne cacciava dalle regioni aeree fin ne’ profondi abissi, là dove in mezzo ad un’ardente fornace la fiamma eterna iva consumandosi da sè, ci trovammo in un chiaror troppo vivo, calcati gli uni sugli altri, e in positura assai scomoda. Cominciarono allora i diavoli a tossire dal primo all’ultimo, e a starnutire dall’alto al basso: nè andò molto che la bolgia infernale empièssi di puzzo e di acidi solforosi. Quali esalazioni! la era cosa da non farsene idea! Di che in breve la crosta unita della terra, avvegnachè spessa e dura, ebbe a scoppiarne con grande fracasso. D’allora in poi tutto andò capovolto; e ciò che un tempo era all’imo, forma oggidi la sommità. Fu da qui ch’ebbero certoni presa la loro dottrina che abbia a sublimarsi quanto è basso, e quanto è in alto adimarsi;2 perocchè noi passammo allora dalla soffocante schiavitù dell’abisso all’assoluta sovranità dell’aere libero ed aperto, mistero evidente, e con tanta gelosia custodito, che non fu a’ popoli rivelato se non molto tardi.3
Fausto. Per me la mole de’ monti mantiensi in nobile silenzio, non cerco nè il come nè il perchè. Quando la Natura informossi da per sè, ritondò senza più il globo terrestre, e qui si piacque di ergere un picco, e là di scavare un abisso, e d’appoggiare rocca a rocca, monte a monte; poscia ordinava le agevoli colline digradanti con dolce pendio fin nelle valli. Colà tutto è verzora e vegetazione, e a dimostrasi paga e contenta non ha certo mestieri di sobbalzare come un forsennato.
Mefistofele. Ciò tu credi! e ti par chiaro come la luce del Sole; ma chi fu presente al gran fatto la ragiona ben altrimenti. Io era là per appunto, quando sin dal fondo il bollente baratro, schizzando fiamme, gonfiossi; e quando il martello di Moloc, fabbricando la catena delle rupi, lanciava in alto le schegge del granito; e il suolo ancora ne geme, tutto di codesti immani massi eterogenei coverlo. Or come spiegare un’eruzion cosiffatta? Il filosofo non ne comprende straccio. La rocca è là, nè si può rimuovernela; e noi vi perdiamo al postutto la bussola. Il volgo semplice e di grossa pasta è quello che solo capisce, e saldo mantiensi ed inamovibile nelle sue proprie idee. Gli è già lunga pezza che venne manco ogni dubbio in tal proposito; e ammesso il miracolo, dee farsene onore a Satanno! Il mio pellegrino, poggiato alla gruccia della fede, visita passo dopo passo la Pietra del diavolo, e il Ponte del diavolo.
Fausto. È da convenire però, essere oltremodo interessante lo scorgere come i diavoli rendano conto a sè stessi della Natura.
Mefistofele. Canchero della Natura! Sia pur essa ciò che le piace, poco me ne importa! Punto d’onore è questo mio: il diavolo era presente! Gente siam noi che fa operare di grandi cose: scompigli, forza brutale, stravaganze! eccoti chi te ne dà la malleveria. — Alle corte, per ispiegarmi chiaro chiaro, evvi nulla che ti piaccia sulla nostra superficie? Le tue pupille, sguardando dall’alto nello spazio interminato, videro «tutti i regni del mondo, e la loro magnificenza.»4
Ma, difficile qual se’ tu a contentarti, non sarai riuscito a provare per anco una sola sensazione!
Fausto. E nullameno, alcun che di grande m’ebbe sedotto; indovina!
Mefistofele. Non ci vuole poi molto! Quanto a me, ecco la capitale ch’io vorrei scegliermi. Nel cuore della città i fondachi de’ commestibili pei borghesi, viottoli stretti, pinacoli aguzzi, mercato sottile, cavoli, napi, cipolle; banchi da beccaio dove i mosconi s’accalcano a far grande sciupio di carni polpose. Colà rinvieni, senza fallo, al rintocco d’ogni ora, fetore ed operosità. Poi, vaste piazze, strade spaziose, per darsi una cert’aria di grandezza; da ultimo, dove non è più alcuna porta a chiudere lo spazio, sobborghi a vista d’occhio. Non poco spasso darebbemi colà il romoreggiare de’ carri, l’urtarsi della folla che viene e va, il moto incessante e confuso di codesto sparpagliato formicolaio, e sempre, sia a cavallo, sia in vettura, sare’io il punto centrale, riverito ed onorato dalle miriadi.
Fausto. Ciò non saprebbe appagarmi punto nè poco! Bel gusto invero vedere un popolo moltiplicarsi, vivere a modo suo nelle agiatezze, formarsi ed istruirsi, — e crescere intanto una man di ribelli!
Mefistofele. Poscia mi fabbricherei, in uno stile che avesse del grande — conforme al mio grado — in luogo ameno, un castello per andarvi a diporto, con boschi, poggetti, pianure, e prati e campi messi a giardino con lusso e magnificenza. E lungo lo smalto de’ muri verdeggianti, bei sentieri allineati, e rezzo ad arte condotto, e cascatelle d’acqua viva giù cadenti di poggio in poggio, e zampilli d’ogni ragione. Più oltre, un getto magnifico va in aria con impeto, e intorno intorno gorgoglii in buon dato e garriti e susurri. Dopo ciò, per le femmine, per le graziose femminucce, farei costrurre casini agiati e maestosi; e là in una solitudine socievole e beatissima godermi vorrei mille mondi. Femmine, dissi, perocchè io protesto una volta per sempre, che in fatto di belle non aspiro che alla pluralità.
Fausto. Pessimo gusto d’oggidì! Il Sardanapalo!
Mefistofele. Chi può dunque indovinare la meta cui tu sospiri? Certo che la debb’essere alcun che di superlativo. Tu, che nel tuo aereo tragitto ti se’ levato sì presso alla Luna, vorresti per ventura fin colassù sollevarti?
Fausto. Neppur per sogno. V’ha ancora sopra questo globo terrestre spazio più che bastevole per compier alti nobili e singolari. Qualche cosa di grande ha da succedere; ed io sento dentro da me l’ardire che bisogna per fatti che abbiano del temerario.
Mefistofele. Tanto vale che ti struggi per la gloria? S’accorge che ti se’ fregato colle eroine.
Fausto. Voglio pormi in capo una corona, voglio uno Stato! Il concreto è tutto, la gloria è un nulla.
Mefistofele. Fa conto che ci avranno de’ poeti a tramandare a’ posteri la tua magnificenza, ad infiammare le follie colla follia.
Fausto. Tutto ciò non ti riguarda. Che sai tu degli umani desiderii? La tua fastidiosa natura, tutta fiele ed amarezza, può forse conoscere ciò che all’uom si convenga?
Mefistofele. Sia pure così! Confidami dunque fin dove si spingano le capricciose tue brame.
Fausto. L’occhio mio vagheggiava la distesa de’ mari; che, sollevati in montagne gl’impetuosi flutti, schiudeano sotto di sè orride e cupe caverne: racchetatisi poscia, mandavano le ondate ad invadere il basso lido e le adiacenti pianure. E m’accendeva di stizza, però che l’arroganza irriti lo spirito libero che rispetta il dritto di chicchessia, sicchè divampandogli il sangue entro alle vene, risente nell’anima un tedio affannoso, mortale. Da prima l’ebbi per un accidente, e mi posi a sguardare più attento più fiso: il maroso ristava un tratto, riversavasi quindi un’altra fiata, e pieno di baldanza si rimovea dalla meta. Or ecco ch’ei torna, e sta per rinnovare l’assalto.
Mefistofele, ad spectatores. Fin qui nulla ne imparo di nuove; questo io so da oltre cento mila anni.
Fausto, proseguendo con enfasi. L’onda s’avanza strisciando, e per tutto, sterile com’ella è, mena la sterilità: la vedi gonfiare, ammontarsi, e rovesciando la sua piena i limiti della inculta sabbia trascendere. Flutti su flutti imperano quivi fin tanto ch’e’ se ne traggono senza averne fecondato pur una zolla. Ah! ecco, ecco ciò che mi dà cruccio sino a farmi disperare! Una forza sprecata dell’indomito elemento! Allora il mio spirito spiega i suoi vanni per sollevarsi sopra di sè medesimo. Là vorrei starmi lottante, là vorrei trionfare!
E ciò è fra i possibili! — Per quanto burrascosa sia l’onda, in faccia a qualsivoglia prominenza piega e si umilia. Ell’ha un bel muoversi con orgoglio, la menoma allura le sta contro con fronte superba, la minima cavità irresistibilmente l’attira. Quindi nel mio spirito piano a piano succede: aggiungere al sommo contento di rimuovere dal lido il mar prepotente, di ristringere i confini del liquido elemento, di ricacciarnelo alla lontana entro a sè stesso. Poco alla volta mi son ciò fitto nel capo. Tal è il mio desiderio, osa or tu di appagarlo! (Tamburi, e musica guerriera dietro gli spettatori, di lontano, a man dritta.)
Mefistofele. Le son bagattelle! — Odi ta strepito di tamburi laggiù?
Fausto. Guerra, e non altro che guerra! essa ripugna al savio.
Mefistofele. Sia pure la guerra o la pace! Gli è da saggio l’adoperarsi a trarre partito da ogni evento. S’ha da esplorare, e tener d’occhio il momento propizio. L’occasione è pronta, o Fausto; sappi afferrarla.
Fausto. Ti so grado di cosiffatti enimmi! Alle corte, di che si tratta? Spiègati.
Mefistofele. Nel mio pellegrinaggio, nessuna cosa m’è rimasta celata. Il buon Imperatore è tratto nel più grande imbarazzo, come ti è noto. Da quel giorno in cui ci divertimmo a versare in sua mano delle false ricchezze, tutto quanto il mondo parve esser suo. Era egli giovane quando venne a toccargli il trono; e però davasi a concluderne pazzamente potersi questo accordare a meraviglia, ed essere cosa degna al tutto d’invidia, e bella oltremodo e desiderabile, godersi a un tempo il regno, e nuotare nella felicità.
Fausto. Errore massiccio! L’uomo nato a regnare dee ripetere ogni sua beatitudine dal governo, ed avere il petto di sommo volere infiammato e compreso. Quant’ei susurra all’orecchio de’ propri confidenti tosto si compie, e il mondo n’ha meraviglia. Ove ciò accada, fia egli sempre il primo fra noi e ’l più degno. — Il godimento abbrutisce.
Mefistofele. Il nostro caso è ben diverso. Diessi egli a scialarsela, e come! Infrattanto, il regno cadde nell’anarchia; grandi e piccoli qua e colà si mossero guerra; i fratelli si spodestavano, si sgozzavano; feudo contro feudo, città contro città; i popolani alle prese co’ nobili, il vescovo col capitolo e colla parrocchia; quanti s’incontravano, nemici; in chiesa, stoccate, assassinii; alle porte, mercadanti e viaggiatori, malmenati, e ridotti a mal termine. E in tutti la gara di soverchiarsi e di sopraffare s’accresceva a ribocco; vivere, altro non volea dire che menar le mani a difendersi. — Ma, via! le cose andavano di buon passo.
Fausto. La cosa andò, zoppico, rialzossi, cadde, e finì col fare un capitombolo, e andar tutto quanto a soqquadro.
Mefistofele. Per verità, nessuno era in diritto di menar doglienze contro un simile andazzo di cose; ciascuno ambiva di aver credito, e ne otteneva; il più abbietto uomo e da nulla davasi aria di personaggio qualificato. Intanto, per venire alla conclusione, i migliori trovarono che la demenza soperchiava; e i prodi levaronsi pieni di stizza e dissero: Sovrano è colui che ne dà calma e riposo; l’Imperatore non può darne nè vuole, — scegliamoci quindi un nuovo signore, e raddrizziamo l’Impero abbattuto; e mentr’egli ne porge a tutti la sicurtà, disposiamo la pace alla giustizia in un mondo rigenerato.
Fausto. Ecco una tirata da sagristia.
Mefistofele. Erano per appunto i sagristi che volean porre al sicuro la grossa ventraia: spiegavano essi maggiore interesse di ogni altro. La ribellione romoreggiava, e gittate buone radici, scoppiò da ultimo, e il povero Imperatore, quegli che noi tempo fa divertimmo cotanto, si ritira in codesti luoghi, per attaccarvi forse l’ultima sua battaglia.
Fausto. Mi fa compassione, egli, buono, e schietto cotanto!
Mefistofele. Vieni, osserviamo; chi vive non dee disperare. Se ne riuscisse cavarlo fuori da codesta stretta vallea! Salvisi questa fiata, e varrà per mille. Chi sa d’altronde com’abbiano i dadi a cadere? Gli torni amica fortuna, e non fia che gli manchino vassalli. (S’inerpicano sulla montagna di mezzo, e contemplano l’ordinarsi delle truppe nella valle. Uno strepito di tamburi e di musica militare fassi intendere dal basso.)
Mefistofele. La posizione, a quel che vedo, è ben presa; passiamo dalla loro parte, e la vittoria è sicura.
Fausto. Che deggio aspettarmi? Illusione, fantasmagoria, vuote e vane apparenze!
Mefistofele. Strattagemmi per vincere battaglie! Fàtti coraggio, ed abbi in mente la tua missione. Conservisi all’Imperatore il trono e lo Stato, e tu piega a terra il ginocchio, e ricevi a titolo di feudo un territorio senza confini.
Fausto. Quante cose hai già fatte in un attimo! Ebbene, vediamo, egli vince una battaglia.
Mefistofele. Non egli fia il vincitore, ma tu! Questa volta sei il generale in capo.
Fausto. Onoranza, per vero, che mi viene a buon diritto; comandare da qui donde non pur mi è dato d’intender molto?
Mefistofele. Lascia fare allo stato maggiore, e il Feld Maresciallo è in salvo. Da gran tempo conosco le calamità della guerra; e da lunga pezza ho approntato un consiglio colla forza primitiva dell’uomo e con quella delle montagne: avventurato chi seppe in uno congiungerle.
Fausto. Che è ciò ch’io scopro laggiù d’armi coverto? Hai tu sollevato i montanari?
Mefistofele. No, ma ad imitazione di mastro Pietro Squenz,5 di tutta la marmaglia ho saputo trarne la quintessenza.
I TRE CAMPIONI s’avanzano.6
Mefistofele. Sta, ecco i miei sozi! Vedi ch’e’ sono qual più giovane qual meno, e chi è vestito e armato ad un modo, e chi ad un altro; non te n’avrai, spero, a dolere. (Ad spectatores.) Tutti oggidì impazzano per le armi e per le gorgiere; e con tutto ch’e’ sieno pure allegorie, cotesti straccioni non saranno che meglio graditi ed accetti.
Raufebold (giovine armato alla leggera, assisa a più colori). Se venisse alcuno a guardarmi nel bianco degli occhi, gli caccio il mio pugno nella gola; e il vile che si desse a fuggire, me lo acciuffo ne’ capegli della nuca.
Habebald (corporatura maschia, armamento convenevole, uniforme di gala). Le inutile querimonie altro non sono che ciance; tempo gittato. Mostrati solo infaticabile nel far bottino; quanto al resto ti avanzerà sempre spazio ad informartene.
Haltefest (vecchio armato sino a’ denti, senza assisa). Col saccheggio, non si va poi gran fatto in su. Una gran fortuna ratto svanisce, portata via da’ fiotti romorosi della vita. Buona cosa in vero è il prendere, ma il conservare è migliore d’assai. Lascia fare al vecchio aitante, e nessuno al mondo varrà a toglierti il menomo fuscellino. (Calano tutti insieme giù nella valle.)
Note
- ↑ Fausto mette piede a terra sul vertice di un’alta montagna; e la meravigliosa nube, dopo depostolo colà, se ne torna da Oriente. Egli cogli occhi smarriti nell’infinito, segue la massa vaporosa, e per l’ultima volta contempla dentro a quella i tipi eterni del bello ond’è l’anima sua posseduta. Questo è il punto della tragedia, in cui il protagonista, toltosi al fascino dell’antichità, passa ad altre sfere più attive; e qui è che imprese Goethe nel maggio del 1817 a rannodare le fila da lungo interrotte delle sue idee, e si rimise all’opera «mercè la simpatica ispirazione de’ buoni Spiriti.» (Goethe, an Zelter, T. IV, S. 318.)
- ↑ Deesi scorgere in codeste parole di Mefistofele un’ironica allusione alle teorie de nuovi geologi, per esempio L. di Burch, e di tutti coloro che secolui professano il sistema della elevazione del suolo oceanico in montagne, sistema di cui Goethe, partigiano giurato del Nettunnismo di Werner, non poteva ammettere le pretese. Vedasi nelle sue Confessioni Geognosiche sino a qual punto l’autore del Fausto era attaccato alle idee di Werner, ch’egli divise con lui fino agli ultimi anni, dopo visitati i massi granitici dell’Hartz, de’ boschi della Turingia, del Fichtelgebirg, della Boemia, della Svizzera e della Savoia, non volendo, diceva egli, abiurare un sistema ch’ei teneva come vero, a per amore di una teoria, la quale, surta da opposti principii, pon s’appoggiava che «rivoluzioni e fenomeni accidentali.» Ricordiamoci in tale proposito il Seismos della notte di Valburga, ch’ei pone in faccia a forze granitiche primitive, e lo confuta per bocca d’Orèo, greppo della natura.
- ↑ Efes., VI, 12.
- ↑ S. Matt., IV, 8
- ↑ È noto codesto originale del dramma di Shakspeare, il legnaiuolo Pietro Squenz (Sogno di una notte di Estate) che ordina la commedia di Piramo e Tisbe, di concerto con cinque altri soci da lui trascelti in tutta Atene, e tratti dalla plebaglia, come soli che degni fossero di recitare al cospetto del Duca e della Duchessa. Così fa Mefistofele, e, ad imitazione di Pietro Squenz e de’ suoi cinque compagnoni, presenta i Tre Campioni come il fiore delle forze ond’egli dispone.
- ↑ Alludesi qui a’ tre Campioni di Davide (II. Re, 23, 8.) “Jesbaam; — che uccise ottocento persone in un conflitto. Eleazaro Ahoite; che fuggendo gl’Israeliti, tenne fermo, e percosse i Filistei fino a tanto che spossato il suo braccio s’irrigidì tenendola spada; egli trasse il popolo a spogliare gli uccisi. Semma (il più famoso); il quale, standosi i Filistei radunati in un sito, dove era un campo pieno di lenti, e il popolo avendo presa la fuga, e volte le spalle a’ Filistei, si piantò egli in mezzo del campo, e lo difese, e sbaragliò i Filistei.„ Goethe riproduce qui codesti tre tipi, i quali ne rappresentano i vari periodi della guerra. Raufbold (l’uccisore) che risponde al primo fra i tre Campioni; Habebald (che avrà in breve) il saccheggiatore, corrispondente al secondo; Haltefest (tien saldo, colui che fa la guardia, che conserva) che rappre senta il terzo.