Due fiorentini all'Aya
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DUE FIORENTINI
ALL’AYA.
I
Stravaganze di questo mondo.
— Mi pare che a questi buoni Olandesi puzzino le rose sotto il naso.
Diceva un giovine disinvolto, svelto ma non grande di persona e con due occhi vivissimi, il quale con un suo compagno più anziano di età, un po’ grassoccio, calvo e con naso aquilino passeggiava sugli argini ombrati che costeggiano il canale fuori della città dell’Aya.
— Hai ragione, rispondeva l’altro, ma che ci faresti tu? Gli uomini sono fatti così: desiderano sempre cose nuove.
— Lo so che questo è dell’umana natura, riprendeva il giovine; ma la natura può essere corretta dalla educazione.
— Tu parli come uno dei sette savi della Grecia, esclamava flemmaticamente il più vecchio, ma con un accento che rivelava un sentimento doloroso; chi vuoi che ci pensi?
— Oh! bella! i Governi. Che i poveri hanno i mezzi per pensare alla propria educazione?
— Caro Cecchino, che così chiamavasi il giovine, ecco dove tu prendi un granchio a secco. Ti pare che i Governi vogliano pensare alla educazione delle povere masse?
— E perchè no; Antonio?
Così chiamavasi l’uomo dal naso aquilino.
— Perchè credono e hanno sempre creduto che, educando il popolo, darebbero le sassate alla loro colombaia.
— Non intendo.
— Mi spiegherò. Al popolo quanto è più ignorante, e più gli si fa bever grosso e gli si vendono lucciole per lanterne. Chi governa ha interesse di far credere che tutto il bene venga da lui, e il male dai cattivi che per caso lo avversino; sicchè tengono sempre questa bestia selvaggia al guinzaglio per aizzarla contro chi desidererebbe veramente il bene di tutti, il bene del proprio paese a danno, non c’è dubbio, di chi vuole comandare senza maestri di casa.
— Non intendo ancora, mio buon Antonio.
— Lo credo, voialtri giovani, che avete studiacchiato, andate innanzi con un preconcetto falso, e così vedete le cose come vorreste che fossero e non come sono. Si andò, si va e si anderà sempre così in fatto di educazione popolare; perchè si crede che fatta acquistare la luce ai ciechi, questi vorrebbero camminare a loro senno, rimandando a casa la guida.
— Ed io sono di parere opposto; che anzi quando fossimo tutti illuminati, quando tutti vedessimo la strada, che ci venisse additata, la migliore, perchè conducente al benessere comune, invece di rimandare a casa la guida, ci stringeremmo tutti intorno a lei senza il pericolo che ciechi non saltassimo ambedue in un precipizio.
— Benissimo, Cecchino, e così appunto accade, che il cieco se comincia a correre trascina seco nel precipizio la guida. Ma non vagliono questi ammaestramenti; perchè i salti precipitosi son radi, e i ciechi guidati a volontà sono moltissimi e dappertutto.
— Ma noi siamo saltati di palo in frasca; torniamo ai nostri buoni Olandesi, che, come io diceva, mi pare che gli puzzino le rose sotto il naso. Sono stati così bene, sono stati così gloriosi sotto il governo repubblicano; e ora mi pare ne sieno stufi, non so perchè.
— Fortuna che non sei in Firenze a parlare di repubblica; ma guarda bene, che, quando vi torneremo, non ti scappi di bocca questa parolaccia.
— Che è forse un’eresia?
— Delle più empie; e sai che il nostro buon Cosimo III come Canonico Lateranense, ti consegnerebbe piamente ai sacri Inquisitori di S. Croce.
— A parlarti schietto, ora che anche qui vedo che si galoppa per l’assolutismo, mi dispiace meno tornare alla mia bella Firenze. Ma a dirtela non so capacitarmi come il nostro principale si sia piegato a tornare in toscana alla chiamata di quel Granduca.
— Stiamo in cervello almeno un minuto, mio caro Cecchino. Hai detto tu stesso che anche qui si galoppa per l’assolutismo, e che perciò meno ti dispiace tornare a Firenze; e perchè non vuoi che così pure la pensi il signor Francesco F....? È meglio servire in casa sua che in casa d’altri. E poi ti dirò che chi è ricco come lui, più che servire è servito.
— Giù per su è stato sempre così.
— E perchè credi tu che Cosimo lo abbia chiamato? Figurati, se non facesse all’amore co’ di lui quattrini, se volesse tirare a sè un uomo fuggito di Toscana per avere ucciso in duello un altro giovine! E poi alla fin fine un figliuolo di un cappellaio di Empoli che si è perfino mutato il casato.
— E ci scommetto che avrà marchesati, comandi e decorazioni a iosa. Ciò a noi poco importa: è un buon’uomo e generoso.
— Non c’è dubbio; e perciò lo serviamo con amore ne’ suoi interessi. Bisogna vedere di sbrigarci presto a liquidare in questa città i suoi crediti, perchè ha pronte le sue galere per partire alla volta di Livorno.
— Figurati se io ti darò mano a sbrigarti, perchè mi pare che in questa città ci sia un certo brulichio che, partendo, non ho veduto a Amsterdam.
— A dirtela ci ho fatto osservazione ancor’io; e di più ho veduto rigirare certi visi stravolti, ho sentito certe mezze parole, ho veduto certi capannelli... Basta ti ricordi iersera in quella bottega di liquorista, come a quel tavolino in fondo sibillavansi all’orecchio, come andavano, venivano e sempre facce nuove? Cotal gente serve sempre al partito che la paga, con questa differenza che se serve a un partito onesto e che soccomba, sono canaglia e traditori quelli che l’hanno suscitata; se se ne servono poi i nostri buoni padroni, non è più canaglia ma la parte ottima dei cittadini, si ricompensa largamente e le si dà anche qualche ciondolo di onorificenza. Basta, è meglio non imbrogliarci di queste faccende, e attendere ai fatti nostri.
— Sì, torniamo indietro, che passeremo una mezza oretta nella solita bottega per vedere, se la marea cresce.
E così dicendo, mentre i due fiorentini (come si sarà accorto il lettore, che erano i due nostri personaggi) tornavano indietro; videro venire a buon trotto due a cavallo tutti imbacuccati dentro ai loro cappotti da soldato, e dirigersi in tutta fretta all’Aya.
— Paiono due uomini misteriosi da Romanzo, disse Cecchino al compagno; non è poi tanto freddo da tenersi così chiusi.
— E chi lo sa. In tutti i tempi ci sono gli uomini misteriosi, che ora servono di nascoso intreccio a una tragedia, che sovente finisce in commedia a suono di fischiate per l’Autore e per gli Attori; ed ora pretendono di metter su una commedia, che finisce in una tragedia generale, non salvandosi neppure il Capo-comico. Gl’Inglesi pare che sieno per questi ultimi componimenti.
— Avete osservato, Antonio, dei due cavalieri quello che era alla diritta?
— Ho visto solamente sotto allo smisurato cappellone due occhi come di cristallo senza alcuna espressione.
— Tristo segno in un uomo! Due di cotesti occhi, che come dice il nostro Dante, sono lo specchio dell’anima, rappresentano un corpo morto.
— Perchè?
— Perchè, se ti presenti a uno specchio, ti mostra subito la tua figura. Quando nulla ti reflette, vuol dire che non ha innanzi forma nessuna.
— Ora la conseguenza.
— Guardate, la conseguenza non è mia, è del mio povero padre, che voi sapete bene avere acquistato molta esperienza degli uomini a spese di tutto il vasto suo patrimonio.
— Dio lo riposi in pace! Era un galantomone, ma aveva il peccato incurabile di credere tutti gli altri come lui.
— E gli costò cara, e più che a lui a me. Ma Dio l’abbia nella sua gloria; desidero piuttosto non aver nulla, che esser ricco col sangue delle vedove e dei pupilli, come certi miei buoni padroni che dal nulla.... Basta; se ne vedono delle belle nella nostra Firenze.
— Dappertutto, Cecchino mio. Insomma, sentiamo che cosa diceva tuo padre degli uomini dagli occhi di vetro.
— Gli occhi smorti, vitrei, non palesano nessuna sensazione nè buona nè cattiva, che si passi dentro al corpo umano; dunque subitochè l’anima per quelli non si palesa, vuol dire non ci è anima dentro a quei corpi.
— Pur troppo c’è.
— Lo so anch’io; ma un’anima di serpe, un anima fredda, come la mano della morte; che a nulla si commuove, che nulla sente, che di nulla ha orrore. Il delitto e la virtù sono per un’anima simile due Dee della stessa bontà e della stessa forza, che a vicenda ella prende a adorare secondo il materiale benessere o una grossolana ambizione. Se poi tali occhi incantati siano posti su d’un viso di porcellana del suo colore, che mai si cambia anche a contatto del fuoco; allora sì che quell’anima è fatta a posta per un tiranno. — E sapete perchè vi ho dimandato se voi avevate posto mente al viaggiatore della man diritta? Perchè Guglielmo II d’Orange Statolder di questi buoni Olandesi ha queste due belle caratteristiche.
— Cioè?
— Occhi vitrei, impassibili, e la cute del viso di color di cenere, la quale non mostra mai il fuoco che nasconde.
— Ma po’ poi, non è dei peggio.
— Aspettate e lo vedrete. È di una ambizione stomachevole che vuol nascondere sotto il manto di un regime paterno. Aspettate, vi dico, e vedrete se gli si attraversi qualcuno per via, fosse anche il Gran Pensionario di Witt, che per ora ha già mandato a casa, passa sopra il suo cadavere per salire sul trono, come e con la stessa indifferenza se calcasse un cuscino di fiori.
— Guai a lui, se tu dovessi giudicarlo!
— Che volete, mio caro Antonio, tra i cattivi segni e tra per essere di quella razza, che spense la libertà nella nostra bella patria, mi ci sento una certa antipatia... È vero veh! che me la sento per tutti.
— Chi sa che se Don Filiberto non cadeva morto a Gavinana, che non fosse meglio.
— E perchè?
— Perchè siccome ambiva la signoria di Firenze, chi sa che non facesse la conquista per sè; ed allora almeno si avrebbe avuto un giovine generoso, e non un Alessandro, un Cosimo I ecc. ecc.
— Vi rammentate del nostro proverbio fiorentino?
— No.
— Male in Borgo e peggio in Boffi. — Saremmo caduti dalla padella nella brace. Era più credibile l’essere trattati bene da uno che fosse nato tra noi, e avesse con noi conversato alla buona, che da uno che puzzava di sangue principesco. Rammentatevi che i figliuoli de’ gatti chiappano i topi.
— Sarà vero anche cotesto, ma credi tu, Cecchino, che se anche il nostro gran Ferruccio avesse salvato la patria dalle armi parricide di un di lei figliuolo, che coll’andare del tempo e non molto lontano, non essa sarebbe stata preda del primo venuto? Quando i cittadini pensano ognuno per sè, parendogli che il bene individuale debba essere preferibile al generale, allora gli Stati liberi bisogna che cadino in mano di chi giunga a far credere, che per di lui mezzo potranno darsi tempone e salvare la pancia pei fichi. Vedi come è accaduto in Toscana, veramente Paradiso terrestre per la sua posizione geografica? Se tu trattassi di fare una leva di soldati, tu vedresti correre contro il Governo con le zappe e con le accette. E il Governo che lo sa, e ne gode, tiene, a spese di tutti, soldati stranieri, che sono peggio dei pretoriani nei bassi tempi dell’impero romano.
— Per carità non mi parlate delle cose di Toscana, giacchè ci torno di malincuore, o per dirla all’uso del nostro gran Galileo agiscono in me le due forze: centripeta, che è l’amore di patria, e centrifuga, che è l’odio del dispotismo.
— Oh! adesso che il Papa ce l’ha fatto Canonico il nostro Principe dev’essere migliorato.
— Ora sì che siamo acconci; la petanza di principe con la salsa di prete.
— Speriamo nel proverbio che dice: un diavolo scaccia l’altro.
— Ma soggiunge: e spesso fanno all’amore.
— Facciamo punto: tanto ormai ci siamo o bisogna starci.
— Bisogna! Non lo credo.
— Lo credo io; tanto o tu voglia o tu non voglia, mio caro Cecchino, è un fatto che gli uomini sono fatti per essere dominati.
— Bestemmia!
— Grida pure alla bestemmia, ma è così. Scusa un poco, che credi tu che faranno questi buoni Olandesi?
— Sospetto male, ma pure voglio credere che si manterranno liberi.
— E ti pare che ora sieno liberi?
— Sicuramente. Lo Statolder ha sopra di sè gli Stati delle Province Unite.
— E credi, che questi Stati sieno un ostacolo per un Principe ambizioso! Scusa; sai tu le vicende politiche di questo paese, e ciò per tutti?
— A dirvela schietta non le conosco. So a sbalzi quelle del mio.
— Ebbene, se non ti spiace, ora che siamo per rientrare nel nostro albergo, ti racconterò alla buona, e come l’ho intesa io, la storia di questo paese.
II
Una Storia raccontata da un buon Popolano.
— Questo paese ce l’hanno fatto conoscere le conquiste gloriose allora, e che poi ci doveano costare tanto dolore, dei nostri padri i Romani. Giulio Cesare, forse tra i pochi degno di portare corona di re, più che conquistarlo se lo fece alleato; perchè i Batavi, che lo abitavano e davano alla contrada il loro nome, amatori più della propria libertà che della vita, non avrebbero perduta la prima senza sacrificare disperatamente la seconda. Non si conosce la forma del loro governo; ma è certo che un popolo che senta così altamente la sua indipendenza, non può reggersi che con libere istituzioni.
— Si può avere anco un re, e godere di tutta la libertà, che può dare una repubblica. Sparta...
— È vero, Cecchino, anche questo; ma lascia gli esempi antichi, perchè non calzano alla moderna società; e molto più se mi vuoi cavare lo stato di confronto da Sparta. Colà esisteva una sola classe di cittadini liberi, e una ben numerosa di schiavi condannati alla gleba, che non godevano neppure il diritto della propria esistenza. Insomma erano vere bestie per i loro padroni spartani, e bestie inumanamente erano da essi chiamati.
— Avete ragione; erano gli antichi Batavi dunque veri repubblicani?
— Come io ti diceva, non sappiamo precisamente come si governassero; certo a governo libero. Ed io non ti ho contradetto, che non si possa avere un capo del governo col titolo di re invece di Console, a Roma, o di Gonfaloniere già nella nostra libera Firenze; ma solo mi sono opposto al confronto. Anzi troviamo che pure i Batavi chiamavano re i loro Capi. Sappiamo però che presso gli antichi Germani un tal titolo aveva una ristrettissima estensione di autorità, e tali saranno pure stati i re dell’antica Batavia.
— Ma i Romani si contentarono di avere i Batavi per semplici alleati?
— No. Quando Roma era Repubblica, conquistava e lasciava ai popoli vinti le loro leggi, le loro costumanze, la loro religione e il loro governo municipale. Contentavasi di un semplice donativo annuo in contanti, che però lo chiamarono Munus da Municipio; e in caso di guerra un contingente proporzionato di uomini.
— Il che voleva dire che erano liberi come prima, e più rispettati per la forza che loro veniva dalla tutela di Roma.
— Era così, ma non si contentarono i Popoli Italiani o per dir meglio gli ambiziosi, che sono in tutti i paesi. I Municipii non partecipavano alle cariche della Repubblica Romana, e specialmente al Consolato, che a quei tempi era dignità certo più gloriosa che la imperiale. Gli uomini dei Municipii furono messi su al solito dagli armeggioni e dai signori ambiziosi, che loro fecero vedere, che avevano tutti i pesi dello Stato senza averne le beneficenze. Chiesero la cittadinanza romana per queste ottenere; ma fu loro costantemente negata.
— Mi pare che fosse una ingiustizia.
— E forse lo era, e così parve alla generalità; cossicchè i popoli si collegarono, e fecero una pericolosissima guerra a Roma.
— I Romani se ne saranno sbrigati gloriosamente.
— Non tanto. — Usarono questa volta, per venire a capo della vittoria, del detto tirannesco, che ci malmena ancora: «Divide et impera»: Dividi e dispotizza. Le Popolazioni le più fiere staccarono dalla Lega detta sociale col concedere loro la guerreggiata cittadinanza, altre disarmarono con le minaccie, e il resto con le armi. Sotto l’impero solamente e in varie epoche tutti i popoli conquistati anche fuori d’Italia ebbero un tal privilegio, quando non aveva più prezzo.
— E perchè? era sempre glorioso formare parte della gran Nazione conquistatrice del mondo.
— Tu voi dire accrescere il codazzo dei tiranni del mondo. Ciò non poteva solleticare che le anime abiette nate per esser cortigiane. Dov’era più la maestà del consolato? era una derisione, una maschera da teatro. Ed in fatti così se la pensarono le anime forti, che si ristrinsero di bel nuovo nei loro Municipii e vi mantennero quella sacra fiamma, che nascostavi per più secoli finalmente scaldò i petti degli Italiani di tale un fuoco, che ogni città potè osteggiare gli eserciti di oltremonti, che pretesero la nostra eredità.
— E questo paese pure avrà subito le sorti di tutte le altre parti dell’impero romano.
— Allo sfacelo del gran colosso tutte le parti si sgregarono. L’Italia fu invasa dai Vandali, dagli Ostrogoti, e finalmente dai Longobardi, che vinti e conquistati con noi da quel Grande, una tal qualità immedesimò nel suo nome, e che ancora e sempre chiamerassi Carlomagno. I Franchi, o Francesi come adesso li chiamiamo vennero invitati dal Papa a padroneggiare la nostro povera Italia.
— Se Carlomagno conquistò l’Italia, molto più avrà conquistato un paese a lui più vicino, qual’è l’Olanda?
— Non ti apponi al vero; conquistò pure l’Olanda, che nel sesto secolo aveva ricostituito un governo proprio affidato a capi che chiamaronsi Duci.
— Caddero dunque sotto un governo dispotico?
— Non è vero; e qui sta l’errore che a bella posta i nostri governanti procurano che si abbarbichi nelle menti grossolane del povero popolo. Neppur Carlomagno che fu il più grand’uomo dei secoli barbari, era assoluto signore di diritto, quantunque poi lo fosse in fatto. E ciò è della natura dell’uomo, che s’inchina sempre al genio, e gli obbedisce senza accorgersene. A che avrebbe convocato di tratto in tratto la dieta in Aquisgrana? È vero che sotto di lui fu una formalità, ma mostra bene che la nazione aveva avuto e poteva aver parte nell’amministrazione dello Stato.
— Dunque anche l’Olanda sarà stata presso a poco così governata?
— Sì; e infatti proviamo che i suoi Duchi quantunque ereditarii erano confermati dal popolo. In seguito un tal diritto passò inosservato; e finalmente gl’Imperatori germanici ne pretesero l’investitura.
— Poi sarà finita secondo il solito: sarà divenuta provincia dell’impero.
— Non andò così precisamente, ma divenne possessione ereditaria del fratello cadetto dell’Imperatore. Il Duca di Borgogna sotto gli speciosi diritti di parentela con la casa del morto Guglielmo VI s’impadronì dell’Olanda, e con Maria figlia del famoso Carlo il temerario ultimo Duca di Borgogna, portò in dote a Massimiliano d’Austria, poi imperatore, la ducea di Borgogna. Filippo secondogenito di Massimiliano fu investito di questo ducato per i così detti diritti di sua madre Maria, il quale sposatosi a una principessa castigliana, ci diede quel famoso Carlo V, che tu ben conosci, come pratico della nostra Storia.
— Dal connubio dell’Aquila grifagna col Leone Castigliano non poteva procrearsi che un superbo e rapace conquistatore; e questa la intendo benissimo. Ma che poi volgesse a danno delle altrui libertà le sue armi per dare in preda i popoli vinti a un altro despota peggiore di lui, questa non la intendo.
— Tu sei giovine, Cecchino, mio; e ancora non l’hai intesa, ma la intenderai meglio quando saremo tornati a Firenze. — Carlo V fu un grand’uomo per tutti i versi; ma specialmente per la perspicacia e la doppiezza. Egli diede al Papato il colpo il più fatale, che possa aver mai più, e della di lui piaga temo forte voglia guarire. Cicatrizzerà, ma in seguito farà gangrena. Carlo V previde le tristi conseguenze che verrebbero dallo infiacchimento del Papato alla autorità imperatoria: l’una e l’altra si sorreggono a vicenda. Volle, per quanto gli fu dato, rimediare al mal fatto; e per amicarsi lo sdegnato Clemente VII ci diede noi popolo libero in mano di un di lui svergognato bastardo.
— Ah! pur troppo è vero! Dio li ricompensi secondo il merito!
— Caro Cecchino, tu sai cosa dica il boia al misero paziente, quando lo abbraccia, prima di tirargli il collo o di scorciarglielo?
— No.
— In quell’abbraccio veramente fraterno: Perdonami, dice, o fratello; che se non fossi io, sarebbe un altro.
— E questo che cosa c’entra?
— C’entra benissimo; anzi ci sta a capello. — Quando gli Stati liberi per l’infiacchimento del pubblico costume, delle pubbliche leggi, del vivere sobrio e laborioso si addanno a mere lucrose speculazioni per rendere il vivere proprio più agiato, e anche più rilasciato: allora bisogna che cadano in mano di un assoluto Signore, che si prenda la briga di pensare per tutti e di fare per tutti, giacchè ogni cittadino si è avvezzato a pensare solamente per se. E allora sono inutili i lamenti contro un povero diavolo che si carica di tutti i pensieri, che ormai noiavano l’universalità dei cittadini. Costui può francamente ripetere il detto da me riferito: Fratelli perdonatemi, anzi potrebbe dire, ringraziatemi: che se non fossi io sarebbe un altro.
— Scherzate, e queste non sono cose da scherzare. Ma scusatemi una domanda. Gli Stati attuali di Europa formati di tante parti disgregate, differenti per lingua, religione, costumi, abitudini, che sussisteranno a lungo?
— No certo; e questa è legge eterna dal momento che Iddio dal Caos, dove pugnavano tutti gli elementi contrarii perchè insieme uniti, tolse a separarli e a creare tutta l’armonia di questa gran macchina mondiale. Inghilterra perderà le sue colonie; Spagna subirà la stessa sorte non solo in America, ma come tu vedi, ha subito qui nel paese che siamo; Austria farà lo stesso... Basta torniamo a Carlo V.
— Per carità lasciate andare anche costui, e ditemi come fu governato questo paese dopo la sua morte.
— Dopo che morì davvero, o dopo che morì per celia?
— Caro Antonio, avete voglia di scherzare.
— Non ischerzo; questi sono fatti storici. — Gli parve aver tanti peccati da scontare (e noi gli dobbiamo credere, perchè meglio di lui nessuno lo poteva sapere) che gli venne in testa, e doveva essere bene balzana, di figurarsi morto, farsi portare sulla bara in chiesa, e collocata sul catafalco, farsi celebrare le requie dei trapassati. Ciò non deve aver fatto gran buona impressione nella mente strana, perchè anche a morire per celia non ci deve essere gran gusto, specialmente per chi porti tanti peccati sull’anima. — Tu vedi bene fin da questo momento Filippo II di fama assicurata ebbe il governo della Spagna e delle Indie Occidentali con più il possesso dell’Olanda.
— Oh! sì, sì; ora mi ricordo di aver letto quella stranezza; e di più che poi stancatosi di far la vita da frate, e volendo riprendere il potere, il buon Filippo suo figlio lo fece chierico per forza.
— E il nostro Francesco I fece lo stesso a suo padre Cosimo, che non s’era fatto frate, ma che aveva abdicato a favor suo, e che poi pretendeva di riprendere il mestolo in mano. Gli messe giudizio facendolo guardare filialmente a vista.
— E gli stiede bene a quella buona lana.
— Quanto il basto all’asino, dicono i nostri Toscani.....
In questo momento si sentì battere alla porta di camera dei due forestieri; e Cecchino andato ad aprire, comparve sulla porta una figura mezzana, piuttosto rotonda per la sua carnosità, col viso paffuto e rubicondo, naso piuttosto grosso brinoccoluto a mezzo, e labbra tumide e colorite.
— Entrate, signor Van Halen, gli disse Antonio; siate il benvenuto.
Van Halen con tutta la semplicità propria di un Olandese si avanzò salutando con un cenno di testa e si pose a sedere tra i due fiorentini.
III
Un moderato di buona fede.
— Come vanno le cose di questo mondo? lo interpellò Antonio.
— Discretamente bene, rispose l’Olandese.
— Pel commercio, s’intende bene, interruppe Cecchino.
— Quando va bene il commercio e l’industria, rispose gravemente Van Halen, tutto il resto è accessorio.
— Dunque, rispose il giovine fiorentino, in uno Stato basta che vada bene il commercio, perchè tutto sia di sodisfazione di tutti.
— Dicerto, quando un paese è ricco, è felice.
— Questo principio starebbe a distruggere la nostra religione cristiana veramente santa.
— E perchè? interruppe sorpreso l’Olandese.
— Perchè, rispose Cecchino, si ammetterebbe il principio che il ricco possa essere sempre felice, e allora le tribolazioni del povero non avrebbero compenso. Ma grazia a Dio anche il ricco ha la sua croce; dunque la ricchezza sola non fa la felicità dell’uomo.
— Potrebbe darsi, ma io lo credo.
— Come.....? Oh? scusate, non mi rammentava che voi non siete cristiano.
L’Olandese increspò le labbra ad un sorriso tra la compassione e la benignità, e rispose al giovine:
— Lo sono quanto voi, e forse.... Lasciamo questo discorso, e ognuno tenga per buona la sua religione; chè così ognuno adempirà ai doveri dell’uomo onesto.
— Dice bene, disse Antonio per rompere un tale discorso, anco col Corano si può essere galantuomini.
— Davvero, riprese Van Halen; e io lo posso dire se i maomettani sieno galantuomini.
— Avrete molto viaggiato in vita vostra eh? dissegli Antonio.
— Assai; anzi ho viaggiato tutto il tempo di mia vita; cosicchè ho vissuto più in mare che in terra.
— Signor Van Halen, voi siete venuto per accomodarvi delle pendenze tra voi e il signor Francesco nostro principale, e su queste ci siamo già intesi, sicchè non resta altra pendenza tra noi, che ci consegnate le lettere di credenza per Livorno. Ora se non vi dispiace, saremmo curiosi che ci daste un cenno delle vostre avventure, avvegnachè ogni viaggiatore abbia avuto le sue.
— Eccovi appunto le credenziali per Livorno secondo il nostro concertato. Riguardo al vostro desiderio mi proverò a soddisfarlo, come è debito di ospite verso i suoi ospitati.
«Forse il mio aspetto non vi addimostra gli anni che realmente mi gravano sulle spalle: sono nato sul cominciare di questo secolo glorioso per la nostra Olanda. Mio padre era intimo di Guglielmo d’Orange che governava l’Olanda a nome di Filippo II re di Spagna. Il paese però non era tranquillo. Il Duca d’Alba speditovi prima a governarla aveva nello spazio di soli tre anni fatto morire passa 18,000 olandesi perchè secondo loro la libertà di coscienza almeno credevano che fosse di diritto di tutti gli uomini. Per difendere questo diritto, gli Olandesi si collegarono contro le armi spagnole, che stavano là a voler loro imporre la religione del loro sovrano, il quale qualificò quella resistenza con lo spregevole titolo di Lega dei Pitocchi. Ma questi Pitocchi, che era la maggiorità degli Olandesi, si presero alla fine un capo in Guglielmo I e si emanciparono da una nazione padrona, di cui non partecipavano già la lingua, ed ora neppure le credenze. Fu allora che questa nuova Repubblica, chiamata delle Province Unite, cominciò la sua vita politica certo non ultima tra gli Stati Europei. Il capo del potere esecutivo fu chiamato Statolder, e il primo fu Guglielmo nominato a vita dalle Assemblee, o Stati, come noi li chiamiamo. Non vi dirò delle guerre gloriose contro la Svezia e contro l’Inghilterra, e specialmente contro quest’ultima, a cui seppe dettar leggi e una pace gloriosa. Invano a una nuova rottura Carlo II ci mandò contro quel diavolo di Giorgio Monk, che seppe fare da vero repubblicano sotto di Cromwell, e poi da tenero realista, restaurando il regno di Carlo II; il nostro bravo Ruyter non ebbe decisa vittoria, ma alla fine costrinse l’armata inglese a ripararsi malconcia ne’ suoi porti. Ma l’Olanda non traeva la sorgente della sua potenza dalle imprese guerresche; era il commercio che aveala resa grande. Appena scosso il giogo spagnolo, si addiede tutta liberamente alla navigazione, sua vera e unica vita per la sua posizione geografica. I negozianti olandesi che per il Capo di Buona Speranza viaggiavano arditi navigatori al commercio delle Indie Orientali, slanciavansi nel grande Oceano in cerca di nuove terre e così di nuovi commercii. Furono essi che scoprirono la Terra Australe, a cui nel 1616 approdò in seguito Dick Hartigh. A questa spedizione che aveva il doppio oggetto d’ingrandire e di arricchire con nuovi possessi e nuove sorgenti di commercio il nostro paese, io fui compagno appunto allora giovinetto, che poi nel 1627 vi approdai con Pietro Nuyts, ed esplorai; finalmente visitai nel 1644 con Abele Tasman le coste sud di quella Terra, a cui egli diede il nome di Nuova Olanda. Morto Guglielmo I, nell’infanzia di suo figlio, le Sette Province Unite dichiararono il loro governo puramente repubblicano, e nominarono Gran Pensionario il capo esecutivo del Governo, il quale stava in carica cinque anni. Il primo Gran Pensionario voi lo conoscete bene, che è quel galantomone di Giovanni di Witt, che per la sua saggezza e disinteresse fu alla fine d’ogni quinquennio riconfermato. Io sono d’avviso non poterglisi fare altro rimprovero che quello di stare più attaccato alla forma che alla sostanza.
— Come sarebbe a dire? domandò Antonio.
— Ditemi, il capo dello Stato si chiami Statolder o Gran Pensionario, quando le istituzioni sieno repubblicane, non è la stessa cosa?
— Non mi pare, si fece innanzi Cecchino.
— E perchè, disse con la solita flemma il buon Olandese.
— Perchè l’essere tale autorità ereditaria in una famiglia, che può dare, come si vede succedere quasi sempre, degli uomini inetti e più che inetti cattivi, differisce d’assai da quando questa cada sopra uomini capaci, e per le doti di mente e d’animo meritevoli di governare i propri concittadini.
— Io poi, rispose l’Olandese, non ci vedo tutto cotesto male; quando ci sono le leggi, quando ci sono i rappresentanti del popolo che possono moderare e costringere, se anche così fosse, la prava volontà del loro capo, il quale alla fin fine non può far nulla senza il consenso del popolo, mi pare, torno a ripetere, che sia più questione di forma che di sostanza.
— E credete voi, che un potere a vita in una famiglia potente per aderenze e per parentele non possa alla fine usurpare tutti i poteri dello Stato? Io lo credo, disse Cecchino un po’ concitato.
— E perchè ciò non potrà succedere anche nella carica di Gran Pensionario?
— Per le ragioni che ho addotte, e perchè cinque anni sono pochi per corrompere la maggiorità di una nazione.
— Ha in mano però la milizia, disse il buono Van Halen; e con la forza si può far tutto.
— Ma non durevolmente, disse Cecchino. La forza prima muove alla resistenza, e poi al rovesciamento. I popoli non si reggono con la forza altro che precariamente.
— Se questa sia continua e violenta, lo credo ancor’io; ma se guidata dalla ragione e da utili provvedimenti pel paese, a poco a poco questo vi si sottomette.
— Non sono lontano anch’io da questa sentenza, interruppe Antonio, per togliere di mezzo la questione.
— E poi dirò francamente la mia opinione, riprese Van Halen, perchè così in coscienza io la pensi. Ogni paese, perchè si addia ad ogni genere d’industria, bisogna sia tranquillo, altrimenti va tutto in rovina; perchè i capitali spariscono al minimo sentore di turbamenti politici.
— Ed ecco l’egoismo, esclamò vivamente Cecchino. Se tutti i ricchi cittadini concorressero coi loro mezzi a sostenere quella causa, che credessero giusta, ciò non succederebbe. È che più del bene pubblico si amano i proprii comodi.
— Sarà vero anco codesto, giovine mio caro; e così la pensava pur io, quando ero della vostra età, che è età di amore e di sacrifizio; ma gli uomini non sono tutti giovani e buoni tutti come voi. Bisogna prenderli come sono e non come dovrebbero essere.
— Questo non lo so capire.
— Lo capirete a vostre spese, non dubitate. — Dunque per tornare al nostro discorso, ecco perchè io non sono con Giovanni di Witt per aver mutato l’esistenza del capo del governo, per questa ragione. Una famiglia che ha avuto in casa propria sempre il potere, non se ne lascia spogliare di buon grado, ma anzi cerca o palesemente o nascosamente e con ogni mezzo di riacquistare quel potere, che ella crede di suo diritto, se non volete altro, di diritto divino.
— E ciò non è vero, interruppe Cecchino.
— Lasciate che gli altri credano a loro posta, se voi volete avere lo stesso diritto. — La famiglia d’Orange certamente crede questo, e lo travedo nel giovinetto Guglielmo. Dico travedo, perchè è di un carattere così sornione, che non gli si cavano di bocca che monosillibi.
— Male.
— Ed è appunto per questo che io temo, non molto pel nostro paese, perchè e nato per essere libero, ma per quel galantomone di Giovanni di Witt.
— In questo ci troviamo d’accordo, disse ingenuamente Cecchino.
— Manco male, esclamò sorridendo l’Olandese.
Sentiamo se concordano i nostri divisamenti.
— Eccovi in due parole, disse Cecchino, ciò che io penso. Questo vostro Guglielmo più che simulatore, dissimulatore, fa le belle belline a Giovanni, gli si mostra quasi discepolo, e cerca così farsi partito nella moltitudine. Un bel giorno con tutti i mezzi che sono in sua mano e con le solite corruttele, glie la solleva contro sotto qualche falso pretesto di tradimento e lo fa massacrare senza mostrarsene complice.
— Bravissimo, vedete, io sono giusto: l’idea mia e vostra si somigliano come due goccie d’acqua.
— Ma che il giovine Guglielmo sia all’Aya? domandò Cecchino.
— Ohibò! è all’esercito.
— Ma c’è pericolo, disse Cecchino, che faccia quà qualche scappatella in incognito?
— Può essere tutto possibile, disse pensieroso il buon Van Halen.
Dopo un momento di silenzio si alzò:
— Addio buoni amici, ci rivedremo a Livorno.
E assorto nel suo nuovo pensiero uscì prima che i due buoni fiorentini avessero risposto al suo improvviso saluto.
I due compagni uscirono poco dopo di lui e si portarono alla bottega del liquorista, dove la sera erano soliti passare qualche ora bevendo il ginepro.
Entrarono nella bottega, e la trovarono piena di avventori tutti intenti a parlare tra di loro. La discussione era animata, gli animi concitati, la voce commossa. I due fiorentini inosservati si posero in un cantuccio presso la porta, che il chiarore dello scarso lume non arrivava a rischiarare, e perciò rimanevano nascosti nell’ombra. Era un andare, un venire, un dimandare, un rispondere, un rumorio insomma simile a quello del mare, prima che scoppi in furiosa tempesta.
Gli amici stiedero in attenzione. Da rotte frasi intesero di chi si trattava: la moltitudine era concitata verso Giovanni di Witt e suo fratello Cornelio, accusati come traditori del proprio paese per le intelligenze da loro tenute con Luigi XIV re di Francia. Cosicchè Cecchino rivolto al compagno disse a voce sommessa:
— Antonio, ci siamo.
— Mi pare. Vediamo anche un poco.
In questo momento entrava uno lungo, magro, sopra due stinchi secchi come quelli che si dipingono alla morte, con la testa calva a cetriolo e col cappello in mano, che servivagli di ventaglio, per farsi vento alla faccia, che dal nero della cute schizzava un fuoco d’inferno, e il cui occhio sanguigno e incavernato pareva quello della Jena che perseguita la sua preda.
— Tyckelaer, esclamarono in coro li strani avventori della bottega; sentiamo Tyckelaer.
— È tutto fatto, esclamò l’uomo scheletro: dimani faremo festa finita.
— Come? Come? gridarono tutti.
— Come! Che io vi voglia mettere in tavola qui addirittura ogni cosa? Andiamo, e dimani i di Witt requiescant.
— Requiescant! sussurrò Cecchino.
E intanto quelle buone lane sgombravano la bottega.
— Requiescant! ripeteva contristato. Ecco cosa si guadagna a far bene al popolo.
— Non lo sapevi, gli disse sommessamente Antonio. Questo non è l’effetto della cattiveria dell’uomo ma della ignoranza, in cui è tenuto; chè per generosità più che per malvagità si muove contro chi gli si fa credere suo nemico. E non potendo giudicare con la propria testa, si affida tutto alle buone o cattive impressioni di chi crede amico suo. L’Orange ora se ne serve per le sue mire ambiziose, non badando di sacrificare l’uomo più benemerito dell’Olanda, e se non vuoi altro il suo precettore. Oh! quanti ambiziosi hanno seguito l’esempio del vigliacco Augusto, che gli uomini più vigliacchi di lui, non si vergognarono di dare il soprannome di quel tiranno al secolo della più splendida letteratura latina, che era il frutto di una Repubblica gloriosa.
— Antonio, giacchè abbiamo terminati qui gl’interessi del signor Francesco, ripartiamo subito per Amsterdam, perchè la nostra vista non sia contaminata da un cieco delitto di un popolo ingrato.
Si alzarono, tornarono al loro albergo, fecero il loro fagotto, e la mattina per tempo partirono per alla volta di Amsterdam. Non eransi ancora molto dilungati dalla città che sentirono un gridare, un imprecare... poi un dàgli! dàgli!... poi un silenzio... poi grida di gioia feroce...!
— Oh! Dio! li abbiate nella vostra gloria! esclamò sospirando a mani giunte il buon Cecchino.
— Amen! disse mestamente Antonio.
L’assassinio del Gran Pensionario e di suo fratello in quel momento era compito! — Ai carnefici il rimorso, ai posteri la venerazione!
fine.