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— Ma che il giovine Guglielmo sia all’Aya? domandò Cecchino.

— Ohibò! è all’esercito.

— Ma c’è pericolo, disse Cecchino, che faccia quà qualche scappatella in incognito?

— Può essere tutto possibile, disse pensieroso il buon Van Halen.

Dopo un momento di silenzio si alzò:

— Addio buoni amici, ci rivedremo a Livorno.

E assorto nel suo nuovo pensiero uscì prima che i due buoni fiorentini avessero risposto al suo improvviso saluto.

I due compagni uscirono poco dopo di lui e si portarono alla bottega del liquorista, dove la sera erano soliti passare qualche ora bevendo il ginepro.

Entrarono nella bottega, e la trovarono piena di avventori tutti intenti a parlare tra di loro. La discussione era animata, gli animi concitati, la voce commossa. I due fiorentini inosservati si posero in un cantuccio presso la porta, che il chiarore dello scarso lume non arrivava a rischiarare, e perciò rimanevano nascosti nell’ombra. Era un andare, un venire, un dimandare, un rispondere, un rumorio insomma simile a quello del mare, prima che scoppi in furiosa tempesta.

Gli amici stiedero in attenzione. Da rotte frasi intesero di chi si trattava: la moltitudine era concitata verso Giovanni di Witt e suo fratello Cornelio, accusati come traditori del proprio paese per le intelligenze da loro tenute con Luigi XIV re di Francia. Cosicchè Cecchino rivolto al compagno disse a voce sommessa: