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io non sono con Giovanni di Witt per aver mutato l’esistenza del capo del governo, per questa ragione. Una famiglia che ha avuto in casa propria sempre il potere, non se ne lascia spogliare di buon grado, ma anzi cerca o palesemente o nascosamente e con ogni mezzo di riacquistare quel potere, che ella crede di suo diritto, se non volete altro, di diritto divino.
— E ciò non è vero, interruppe Cecchino.
— Lasciate che gli altri credano a loro posta, se voi volete avere lo stesso diritto. — La famiglia d’Orange certamente crede questo, e lo travedo nel giovinetto Guglielmo. Dico travedo, perchè è di un carattere così sornione, che non gli si cavano di bocca che monosillibi.
— Male.
— Ed è appunto per questo che io temo, non molto pel nostro paese, perchè e nato per essere libero, ma per quel galantomone di Giovanni di Witt.
— In questo ci troviamo d’accordo, disse ingenuamente Cecchino.
— Manco male, esclamò sorridendo l’Olandese.
Sentiamo se concordano i nostri divisamenti.
— Eccovi in due parole, disse Cecchino, ciò che io penso. Questo vostro Guglielmo più che simulatore, dissimulatore, fa le belle belline a Giovanni, gli si mostra quasi discepolo, e cerca così farsi partito nella moltitudine. Un bel giorno con tutti i mezzi che sono in sua mano e con le solite corruttele, glie la solleva contro sotto qualche falso pretesto di tradimento e lo fa massacrare senza mostrarsene complice.
— Bravissimo, vedete, io sono giusto: l’idea mia e vostra si somigliano come due goccie d’acqua.