Demetrio Pianelli/Parte quinta/II
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II.
Il Pardi si ricoverò in un caffè vicino, dove rimase forse un’ora cogli occhi aridi, fermi sulla vetrina, intento, in apparenza, a guardare di fuori la gente che va e viene come le figure di una grande lanterna magica, ma in fatto non vedeva chiaro una spanna in là.
Stava lì, come un sacco di roba che quattro matti piglino a bastonate, aspettando che si stancassero di battere. In meno di dieci ore si sentiva invecchiato di dieci anni. Aveva la febbre, ovvero qualche cosa di ardente e di mordente che lo scoteva di dentro. Tratto tratto portava alle labbra la tazza d’acqua, trangugiava un sorso per bagnare la lingua e la gola, per isforzarsi d’inghiottire il veleno che gli faceva amara la bocca ed acre il sangue.
— Vergognosa, sgualdrina, canagliaccia! — diceva una voce interna; ma di fuori non appariva nulla, come se egli fosse al caffè ad aspettare l’ora d’una partenza, a far passare un tempo lungo e noioso, sempre fisso cogli occhi ai vetri, non vedendo al di là che un movimento torbido e confuso come un fiume d’acqua sporca che passa gorgogliando. — Una lettera falsa, una carrozza, una congiura! sgualdrina! l’ammazzerò.
Che cosa doveva fare intanto? Per sua volontà non si sarebbe mai mosso dal canapè e dal tavolino, a cui si sentiva appoggiato, perchè temeva, alzandosi, di cadere in terra come uno straccio.
Aspettava quasi che gli avvenimenti gli dessero la leva e l’aiutassero a ritornare a casa. Se Palmira aveva intenzione di ritornare, non sarebbe venuta prima di mezzodì, perchè la commedia avesse tutta la naturalezza che richiedeva la circostanza. Traditora! scellerata! dopo tutto il bene ch’egli aveva fatto a quella ragazza! L’aveva, si può dire, levata dal telaio, in zoccoli e in vestito di cotone, a dispetto della sua povera mamma, che, dopo aver fatto ogni sforzo per opporsi al matrimonio, era morta quasi in collera col figliolo, senza riconoscere la nuora. Ecco ora il castigo! Glielo diceva sempre la mamma: "mangierai il pane che ti meriti!" Mostro d’ingratitudine! se gli avesse cercato l’anima e il cuore glieli avrebbe dati. Non ci era capriccio ch’egli non si sforzasse d’indovinare e di contentare prima che nascesse. Pardi stava attaccato al quattrino, al telaio, al filo e alle matasse, alle continue seccaggini del mestiere, lottando colla mano stanca contro l’enorme concorrenza della novità, contro le esorbitanti pretese della mano d’opera, contro l’invasione dell’articolo forestiero; se Pardi si logorava l’anima e il corpo in un lavoro da bestia, alzandosi la mattina prima del sole, strozzando il boccone in gola come un manovale, mentre avrebbe potuto vivere modestamente del suo in campagna, o contentarsi di un mediocre guadagno; se Pardi faceva questi sacrifici, era per lei, per la sgualdrina, per la canagliaccia. Ah povero uomo! ah poveri morti!
La vista della signora Pianelli, che nel tornare dal cimitero passò davanti al caffè, lo scosse da queste mortali angoscie, si alzò, traversò la piazza, e come per forza di magìa si trovò a casa.
— È tornata lei? — chiese alla donna di servizio, che stava preparando i due posti della colazione sulla tavola.
— Non ancora.
— Non ti ha detto quando sarebbe tornata?
— No. Ma non l’aspetto prima di sera. Tornerà probabilmente in compagnia degli sposi.
Pardi mandò dalla gola un respiro rauco, che avrebbe potuto essere un ruggito umano: lanciò uno sguardo bieco sulla fantesca, che non si accorse di nulla, traversò il pianerottolo, passò di là, in fabbrica, risalì la lunga corsìa in mezzo al vespaio dei rocchetti giranti, dei pettini, delle calcole saltellanti, provando nel rumore aspro del lavoro un sollievo al dolore dell’anima sua; uscì dall’altra parte. Per una scaluccia di legno scese nel sotterraneo della piccola motrice, parlò col fochista di cose inconcludenti, e per la stretta privata del vicino magazzino di legna si trovò di nuovo in istrada, all’aria aperta, sul ponte del Naviglio, a contemplare l’acqua verdognola e quasi stagnante, a strologare il tempo, colle mani nelle tasche come un vagabondo, sempre in ansietà di veder spuntare da qualche parte una carrozza a due cavalli, con dentro lei, o sola o accompagnata da qualcuno.
E se non fosse tornata più? quando si ha il cuore e la pazienza di ordire dei tradimenti così sottili e così ben preparati, non deve mancare nemmeno il coraggio di abbandonare la propria casa per sempre e l’uomo che ha fatto carne del suo cuore per fare di una brutta sgualdrina una signora degna di una buona famiglia.
— Mangerai il pane che ti meriti!
Era sempre la voce della sua povera mamma, donna avveduta, di lunga esperienza, che aveva letto negli occhi della «nera» (la chiamavano così in fabbrica) la forza di dieci diavoli, al punto che, quando il matrimonio era diventato un obbligo di coscienza, con tutti i suoi scrupoli, la povera donna aveva offerto una grossa somma per aggiustarla e per mandar via la strega.
— Mangerai il pane che ti meriti! — soleva dire dopo, nei pochi mesi che campò; e non ci volle che la santità di un vecchio prete per persuadere la moribonda a ricevere Palmira ai piedi del letto.
Eran cose di dieci anni fa e parevano capitate ieri.
Secco riviveva in esse, se le sentiva ritornare in gola coi flussi del sangue sconvolto, mentre trascinato dalla sua inquietudine, condotto per mano dalla sua curiosità, andava di strada in strada col passo del buontempone, nei quartieri più solitari di Porta Genova, fermandosi a contemplare gli avvisi, le stampe, le piccole mercanzie delle ultime botteghe del borgo, finchè, va e va, si trovò seduto sopra una panchina del bastione davanti alla tetra costruzione del Carcere cellulare, che usciva col suo color bigio dal verde degli orti circostanti, asserragliato da lunghi muri di cinta, colla lunga serie di finestre ferrate e incassate negli stipiti massicci di granito.
Chiusi dentro, quasi stretti nelle braccia del ferrato edificio, stanno ladri, falsificatori, accoltellatori, assassini, in attesa della galera. Sommando tutto questo male, gli pareva ancora poco in confronto del male che aveva fatto a lui quella donna. E un ladro, un accoltellatore gli pareva quasi un galantuomo al confronto del profumato seduttore, che, forte delle sue note voluttuose e del suo accento romanesco, senza un granello d’amore, ma per una civetteria di palcoscenico, o per ingannare il tempo tra una scrittura e l’altra, viene e pianta un coltello avvelenato nel cuore di un galantuomo che lavora e che del suo lavoro fa vivere un centinaio di onesti operai. Se una povera donna porta via quattro bottoni dalla fabbrica, o un matassino di seta, i signori giudici trovano nel Codice che essa merita almeno sei mesi o un anno di reclusione; ma questi assassini dell’onore, questi ladri di donne altrui, questi scassinatori della pace delle famiglie vanno tronfi delle loro conquiste come gli zulù e i pellirosse si vantano delle cuticagne strappate ai nemici.
E non c’è giornalista, o romanziere, o librettista d’opera che non trovi ciò molto bello e naturale e romantico, come se il rubare una donna all’uomo che l’ama non sia qualche cosa di più che rubare una pecora al pastore che la mantiene.
Che! che! peggio per te se hai lasciata aperta la gabbia: peggio per te se vuoi fare il marito geloso e amoroso: peggio per te se sei nato stupido, col groppone grosso, a portare pesi e dolori: il mondo è degli eleganti, degli ingegnosi, dei furbi, dei romanzieri, dei giornalisti, dei cantanti, degli avvocati chiacchieroni, che stendono la mano d’uno all’altro, fanno una catena, allacciano il globo, soffocano i diritti dei poveri di spirito, creano una opinione falsa del bene e del male, sono ladri e giudici, comandano come i domatori delle fiere nei circhi, lusingandosi della propria forza; ma guai se la belva un dì s’accorge che la forza è sua!
Pardi mandò ancora un sordo gemito, adocchiando collo sguardo corrucciato a destra e a sinistra se vedeva gente.
Il bastione era deserto. Nella chiara luce del meriggio gli antichi ippocastani versavano un’ombra densa e quieta sulla strada polverosa e sull’erba corrosa dello spalto, dove passeggiava con passo svogliato e col fucile a tracolla la guardia di finanza.
La città, colla moltitudine delle case, dei campanili, dei camini biancheggiava davanti a lui nel caldo bagliore del sole di luglio, mandando una voce confusa d’immenso alveare umano, voce che veniva a finire contro il massiccio edificio del carcere, che opponeva nella sua tetraggine un silenzio di tomba.
Melchisedecco sognava cogli occhi aperti e abbagliati un giorno di rivoluzione. Gli pareva che dalle cento finestre del carcere uscissero i malviventi, armati di coltelli e di sbarre, torma cenciosa e bruta, che andava a bruciare e rovinare Milano.
Il buon negoziante dal temperamento acquoso oggi capiva anche l’incendio e la rovina. Egli che predicava tanto sugli scioperi e sulla prepotenza del signor operaio, oggi si sarebbe messo alla testa di un esercito di malfattori per punire i galantuomini del male che gli faceva soffrire una donna. Egli, sì, egli, colle sue mani avrebbe gettato petrolio e fuoco nel Teatro della Scala, per il gusto di abbruciare un covo di ladri eleganti, che non ti rubano, no, la borsa, ma ti rubano la pace, l’onore, la stima della gente.
Sonava mezzodì a tutti i campanili della città, quando fu scosso dal rumore di una carrozza che passava a corsa dietro di lui, sollevando una nuvola di polvere.
Il legno scendeva verso Porta Genova al trotto di due cavalli, ma, quando parve al Pardi di riconoscerlo, era già troppo lontano. A un certo punto la carrozza si fermò. Un signore discese, strinse una mano che uscì dal finestrino e uomo e carrozza scomparvero nella nuvola di polvere.
Pareva un sogno d’uomo infermo che ha preso molto sole sul capo.
Secco si restrinse in un gruppo, e finì di soffrire quel che è dato di poter soffrire a un uomo. Poi si mosse come se fosse ad un tratto guarito. La sua risoluzione era presa. Si volse ancora una volta verso il carcere e, parlando cogli occhi, gli disse qualche cosa, forse un arrivederci.
*
Palmira non rientrava a Milano senza qualche batticuore. Strada facendo l’aveva assalita il sospetto che suo marito, preso a un laccio così volgare e teatrale, riflettendo sulla cosa, non la trovasse naturale, o sentisse qualche notizia in contrario, o s’incontrasse per caso in qualche persona che sbadatamente tradisse la verità. Perciò prima di entrare in città si era fatta condurre alle Cascine per poter dire di esserci stata, per prendere cognizione esatta della posizione, per parlare a Beatrice e mettersi d’accordo con lei, per avere in lei una difesa e una testimonianza qualora ce ne fosse bisogno. Alle Cascine sentì che la Pianelli era a Milano per gli esami di Arabella e che il matrimonio non si sarebbe celebrato così presto.
Questa scoperta fu un primo colpo di fulmine. I casi son mille e Secco poteva incontrarla per via. Si fece portare rapidamente a Milano coll’ansia d’un capitano che teme di aver perduta una battaglia, e che si affretta, in mancanza d’altro, a coprire la ritirata. Le parve lieta la musica del tric-trac che l’accolse all’entrare in casa sua. Avrebbe voluto che Secco uscisse subito a salutarla per leggergli negli occhi. Non era uomo che sapesse nascondere un pensiero. Ella capiva subito al suo grosso respiro quando c’era in aria una tempesta. In quel momento si sentiva il coraggio di mentire fino alla perdizione dell’anima, senza battere palpebra, sicura già in cuor suo di poter compensare il tradimento e la bugia con un entusiasmo nuovo e straordinario di bene. La coscienza formulava già un caldo e sincero proponimento di penitenza e di ravvedimento, appoggiato al giuramento di non tentar più in nessun modo la pazienza di Dio e quella del più buono dei mariti, di non uscire più col pensiero dal suo guscio, di espiare insomma con una vita raccolta le aspre e terribili sfrenatezze della colpa.
Pensando queste cose in un fascio, per quanto si possa pensare col cervello in fiamme, salì a corsa le scale.
— Non c’è lui? — chiese alla donna, entrando colla furia di una gazzella inseguita.
— L’aspettava a colazione. Vedendo che non veniva, sarà andato alla trattoria.
— Mi aspettava stamattina?
— Gli ho detto che probabilmente sarebbe tornata stasera.
— Non v’è stato nessuno? — tornò a chiedere Palmira, mentre si strappava i guanti rovesciandone la pelle sulle dita.
— Nessuno.
— Ieri sera è uscito?
— Fino alle undici stette fuori.
— Era di buon umore? non ti ha parlato di.... di un fallimento?
Palmira, a cui crescevano le astuzie in bocca, cercava ogni mezzo per scandagliare senza farsi scorgere.
— È andato a dormire: non ha detto nulla.
In questi discorsi Palmira entrò nella stanza da letto. Trovò sul tavolino alcune lettere, dei manifesti e la famosa lettera di Beatrice. Questa si ricordò d’averla chiusa nel cassettone. Come si trovava ancora intorno? Nel cassetto non trovò la chiave. La cercò lì vicino, sotto il mobile, e chiamò di nuovo la Cherubina. La donna non sentì, come al solito. Allora colla punta delle forbici provò a movere il cassetto, facendo leva nella serratura e trovò i fazzoletti, i pizzi, le gioie in gran disordine. Anche il letto era rimasto intatto come si prepara la sera, colla coltre rimboccata e il cuscino da notte. Cherubina, che non aspettava la sua padrona prima di sera, non era ancora entrata in camera. A ognuna di queste scoperte il suo cuore si faceva stretto di spavento.
Pardi mandò a dire che non lo aspettassero a pranzo, perchè doveva trovarsi alla Camera di Commercio con un suo corrispondente.
Palmira rimase in una penosa incertezza. Mangiò poco e di mala voglia, concentrata, inquieta, nervosa, sforzandosi di preparare un sistema di risposte che potessero in ogni eventualità confondere, se non persuadere, il suo giudice.
Il contegno di suo marito e le traccie di disordine che trovò nella sua roba parlavano già come una minaccia.
Secco non rientrò che verso le nove, tranquillo in apparenza, ma con una faccia che non era la sua. Passò direttamente in fabbrica, senza chiedere di sua moglie, e si chiuse nello stanzino che serviva di studio. Aspettò che l’uomo della fabbrica, chiusi gli usci e spento il fuoco della motrice, passasse a consegnargli le chiavi.
— Di’ alla Cherubina, — soggiunse, — che venga un momento da me.
— Buona sera, signor padrone, — disse quell’uomo nero.
— Sta bene.... — rispose Secco con voce coperta, e stava per soggiungere qualche altra cosa che alludesse al suo destino e all’avvenire dei suoi buoni operai, ma non gli riuscì di formulare una parola.
Prese invece a riordinare le sue carte, ne fece molti pacchi, come se si preparasse a sloggiare di lì. Al lume di una piccola bugia, ch’egli collocò sullo scrittoio, sigillò alcune lettere, vi scrisse sopra il nome di alcuni suoi vecchi amici, coi quali s’era trovato nella giornata per regolare le varie partite dei suoi interessi, distrusse molte carte inutili, come se obbedisse a una interna suggestione più forte e più prepotente della volontà e della ragione.
L’unica frase chiara che gli tornava di tempo in tempo nella mente, e ch’egli leggeva più che non scrivesse sopra una specie di cartello, era la grande profezia di sua madre: — Mangerai il pane che ti meriti! — Era un pane ben duro, scottante come carbone acceso: ma le profezie dei morti vanno diritte al loro scopo. — Mangerai il pane che ti meriti!
La Cherubina, con un lumicino a petrolio in mano venne per la lunga corsìa, mandando fasci di luce nelle viscere e nelle trame dei meccanismi, che, dopo aver strillato tutto il giorno l’interesse del signor Melchisedecco Pardi, parevano dormire in una rotta stanchezza. Chi avrebbe mosso dimani quei duecento rocchetti e quei duecento pettini? La mano che soleva tutte le mattine dar vita e moto alla materia sarebbe stata lorda di sangue: e col sangue non si fabbrica il pane della gente onesta. Erano larve, frantumi di pensiero che lo accompagnavano nel lavoro materiale della sua liquidazione.
— Mi rincresce mandarti fuori a quest’ora, — disse alla Cherubina, — ma avrei bisogno che tu recapitassi subito questa lettera all’avvocato Piazza, che sta fino in via della Stella. Sai dov’è?
Era un pretesto per mandare lontano la donna di servizio.
— Farò una passeggiata. Si sente male, signor padrone?
— Perchè?
— Ha una certa faccia.
— Ho mangiato male, al solito.... Dov’è la signora?
— S’è ritirata nella sua stanza. Aveva una forte emicrania anche lei. Avrà preso del sole.
— Già, è la stagione. To’, va e torna.
Pardi stette ad ascoltare finchè gli parve che la Cherubina fosse partita. La casa era tutta occupata, parte dalla fabbrica, parte dall’appartamento civile e, una volta uscita la Cherubina, non restarono che i padroni. Il macchinista, che dormiva in un bugigattolo lontano dall’appartamento, fino a mezzanotte soleva smaltire la polvere del carbone all’osteria. Quando il portello si rinchiuse dietro la Cherubina, Secco trasse dal di sotto di un vecchio stipo una cassa di ferri che servivano per le aggiustature. Erano lime, scalpelli, punteruoli nuovi e frusti, in mezzo a una minutaglia di chiavi e di chiodi rugginosi. Chiuse gli occhi, prese a caso un arnese coll’impugnatura di legno, lo ficcò nella tasca della giacca, soffiò sul lume e, al debole riverbero dei lampioni di strada, discese lentamente, col corpo pesante, colle vene chiuse, il passaggio tra i telai, che gli parve interminabile, uscì sul pianerottolo buio, fissò gli occhi nel buio perfetto della scala e, sospinto da una forza che non era già più sua, entrò in casa.
Nel salotto da pranzo non c’era nessuno. Sul tavolo in mezzo alla stanza splendeva una lampada con grosso globo di vetro. Buttati sul tappeto del tavolo, i guanti di Palmira, coi diti arrovesciati in un gesto d’irritazione, attirarono subito la sua attenzione.
Palmira era nella stanza da letto, divisa dal salotto da due piccole portine di vetro, attraverso alle quali egli vide chiaro.
— Sei tu, Secco? — chiese la sua voce acuta e carezzevole.
Non rispose. Come avrebbe potuto? Nel momento che seguì, il più gran rumore lo fece il pendolo dell’orologio a sveglia posto sul caminetto.
— Ah sei tu!... — esclamò Palmira, aprendo un pochino le imposte e rinchiudendo subito dopo aver spiato nel salotto. — Vengo subito.
Pardi vide qualche cosa di molto bianco e voltò le spalle.
Barcollando, andò ad appoggiarsi colle due mani al marmo del caminetto e vi si attaccò colla paura di un sonnambulo che si accorge, dopo lungo camminare, d’essere sopra il colmo di un tetto. Era egli venuto proprio per ucciderla? Possibile che un uomo diventi di punto in bianco il carnefice della donna che ama? Quella voce acuta e carezzevole avviliva il suo coraggio. Egli l'aveva già troppo uccisa col pensiero perchè avesse a insanguinarsi anche le mani.
Essere ammazzati non è sempre il più crudele dei castighi.
Alzati gli occhi al muro, s’incontrò nella faccia asciutta e severa di sua madre, che stava a guardarlo dal mezzo d’una cornice ovale colla tinta slavata e giallastra che pigliano le vecchie fotografie. Colle labbra sottili e taglienti, nell’atteggiamento di chi mastica amaro, la vecchia devota pareva ripetere la sua profezia:
— Mangerai il pane che ti meriti....
Anzi gli parve nella grossezza del sangue che i due zigomi angolosi della vecchia si colorissero.
Palmira non uscì subito. Egli sentì che si agitava nella stanza, movendo roba, chiudendo e aprendo cassettoni, gorgheggiando sottovoce come nei momenti allegri. Cantava? si può cantare così vicini alla morte? era venuto egli proprio per uccidere?
Le discussioni ostinate, le feroci accuse, le maledizioni, le condanne, le prove che da ventiquattro ore era andato raccogliendo e accumulando sul capo di quella donna, ciò che aveva visto, ciò che aveva patito consciamente e inconsciamente, tutto ciò, in una parola, che in ventiquattro ore era andato a precipitare nel fondo senza luce della sua esistenza si coagulò in un nodo, e credette d’essere lui il morente. Quel Lassù è buono e qualche volta toglie la forza e la ragione: qualche volta nella sua misericordia fa morire a tempo.
Palmira lo provocava col suo insolente gorgheggio di mascherina. Qualche cosa di spaventevole stava per accadere nella casa di suo padre. Si può cantare così quando si torna dalle braccia d’un amante col tradimento in corpo? ch’ella fosse innocente? che tutto fosse un terribile inganno del sangue, un gioco falso della gelosa passione?
— Ebbene, come va, il mio vecchio? — chiese Palmira entrando e accostando le portine.
Pardi si appoggiò col gomito alla pietra e si voltò di sbieco a guardarla. Essa indossava un abito da notte tutto bianco, fatto di pizzi leggeri con in testa una cuffia alla brettone, pure tutta bianca e di pizzo, da cui le trecce nere d’ebano uscivano attorcigliate sulle spalle un po’ scoperte e sul collo.
Palmira con uno sguardo buttato là capì subito che il tempo era grosso. Venne più presso la tavola e ridendo, come se nulla fosse, soggiunse:
— Ho da contarti una bella commedia. Sai che sono andata per nulla alle Cascine? Il matrimonio non ha potuto aver luogo stamattina, perchè all’ultimo momento s’è scoperto che si opponeva un articolo del Codice civile. (Erano le poche notizie che aveva potuto raccogliere alle Cascine). Sicchè figurati la disperazione di Beatrice. Essa è partita subito e dev’essere ancora a Milano. Povero signor Paolino!....
Palmira afferrò un guanto e cominciò a stracciarlo colle unghie, mentre ripeteva il suo elettrico gorgheggio di mascherina.
Il cuore di Pardone si sollevò come una marea. Non si aspettava questa coincidenza colla verità. Era lì invece in attesa della bugia più sfrontata che dovesse far traboccare il vaso dell’ignominia e dargli il coraggio della vendetta.
Palmira, accesa dalla luce lattea che s’irradiava dal globo, e ingentilita dalla nuvola bianca che la circondava, ridendo sempre per sostenere colla voce l’enorme fatica della sua parte scabrosa, seguitò:
— Sicuro, un articolo di legge che non permette, pare, a una vedova di rimaritarsi prima che sia trascorso un dato tempo. È naturale. Il signor Paolino non può accettare un’eredità senza benefizio d’inventario.
Pardone si voltò del tutto e si appoggiò colla schiena alla pietra del camino. Le due mani nelle tasche della giacca — con una delle quali stringeva sempre l’impugnatura — il capo un po’ curvo avanti, affascinato da quella voce che diceva la verità, eccitato più che dal risentimento, da una trepida speranza che il brutto sogno si dissipasse da sè, dopo un garbuglio di suoni, che egli trasse a stento dalla strozza, chiese appuntando un dito verso Palmira:
— Tu hai dormito alle Cascine?
— Sì, — disse Palmira, sollevando gli occhi, coll’estremo e freddo coraggio di chi lotta per la vita. — Sì, perchè? — ebbe forza di ripetere, ingrandendo quei terribili occhi, con cui soleva vincere sempre.
— In compagnia della signora Pianelli?
— No, se ti dico che era a Milano. Fu un pasticcio, ti dico.
— Difatti l’ho trovata in istrada.
— Chi?
— La Pianelli....
— Ah, sì?
Il povero cuore di Palmira batteva come un maglio: ma gli occhi parevano specchi pieni di lampi.
— Mi ha parlato di questo articolo di legge....
Palmira ruppe in un gorgheggio nervoso, e finì di lacerare il suo guanto.
— Ne capitano di belle alle Cascine, veh!
— E mi ha detto anche che ella non ti ha mai scritto.
— Che cosa non mi ha scritto? — chiese affilando la punta dello sguardo.
— Che non ha mai mandato carrozze a prenderti.
— La bugiarda!.. Non è vero che tu l’hai trovata.
— È vero, Palmira, — declamò con enfasi il Pardi, sollevando la mano al ritratto — è vero com’è vero che questa è mia madre.
A sentir nominare la vecchia suocera, Palmira ebbe un brivido quasi di ribrezzo e di paura: e cominciò a impallidire.
— Beatrice ha voluto ingannarti per non dirti che aveva fatto una meschina figura. E veramente c’è da scrivere una farsetta tutta da ridere con Meneghino sindaco senza sapere il codice.
Pardi ebbe ancora un momento di esitazione. O egli era un pazzo o quella donna era maestra di ogni iniquità.
— Perchè, signor mio? — saltò su ad un tratto Palmira, cambiando tono e pigliando l’offensiva con un cipiglio di falco stuzzicato — avrebbe forse dei dubbi che io sia andata alle Cascine? siamo alle solite?
— Palmira, per carità, lasciami parlare. Tu sei partita stamattina dalle Cascine?
— Sì, perchè?
— Sola?
— Sola, in carrozza, s’intende, col carrozziere.... coi cavalli....
— Sei entrata sola in Milano?
— Sola....
Palmira corrugò la fronte e una piccola vena azzurra si gonfiò e palpitò nell’infossatura dei sopraccigli.
— Bene, sei una bugiarda!....
Pardi si avanzò due passi, curvo, coll’occhio gonfio.
— Secco, perchè?... ti giuro....
— Non giurare!... Un uomo era con te.
— Non è vero!
— L’ho visto io a Porta Genova. Tu hai passata la notte con lui....
— No, no, Secco.... Gesù e Maria! Cherubina!
— Grida, chiama i vivi e i morti. È finita: pagherai in una sola volta il conto delle tue sporche bugie.
— Pardi, Pardi...., perdonami per questa volta. Ti dirò tutto.... No, no...., ti hanno ingannato....
Palmira, quando ebbe capito che quell’uomo forte e inferocito non credeva più alle sue parole, s’era messa in difesa, girando sempre intorno al tavolo facendo della lucerna una specie di scudo. Essa mirava a scivolargli e chiudersi con chiave nella camera da letto, prima ch’egli potesse inseguirla: di là avrebbe gridato al soccorso, avrebbe chiamato la gente e le guardie, di cui il buon Pardi aveva una grande soggezione. Se riusciva a porre tra lei e suo marito un uscio e qualche minuto di tempo era salva, perchè le furie del toro non duravano di più. Ma questa volta il giuoco non riuscì. Pardi ricevette in viso il colpo secco delle portine, ma lo strascico delle vesti impedì che i battenti si richiudessero. Pardi le sfondò. Nell’urto violento caddero i vetri con gran fracasso. Palmira capì che voleva ammazzarla: lo capì dagli occhi spiritati e rigati di sangue.
— Pardi, Pardi.... che cosa fai? per la tua mamma....
Pardi, fuori di sè, andava dietro come un pazzo frenetico a quella figura bianca che scivolavagli davanti. Coi capelli sciolti, cogli occhi spaventati, pallida come una morta, Palmira guardò se era il caso di affrontare il nemico, di avviticchiarsi al suo collo, d’avvilirlo, come le altre volte, colle strette, coi baci, colle lagrime.
Era tardi: non aveva più davanti un uomo.
— Pardi, tu vuoi ammazzarmi — continuò a strillare. — Ohimè l’anima mia! Aiuto.... Gente! ah brutto assassino!
Prese una seggioletta di paglia ch’era lì e la gettò nelle gambe del suo assalitore.
Pardi scavalcò l’ostacolo e ridusse la donna tra il letto e il muro.
Palmira non ebbe più nè uscita nè scampo. Afferrò per ultima difesa un cuscino del letto e con questo affrontò il nemico, urlando parole dilaniate; ma il suo giudice era troppo forte, e aizzato da troppi demoni per ascoltare una confessione. Soffocò le strida, buttando la donna bocconi sul letto, premendola alla nuca colle dita e colle unghie dentro la bella massa di capelli neri, come farebbe un leopardo pien di fame sopra un agnello, e colla destra che trasse di tasca cominciò a menar colpi su quel gracile corpo, al fianco, alla testa, cieco, col sangue negli occhi, finchè quel povero corpo si sfasciò quasi sotto la sua mano, scivolò dalla sponda e con un tonfo di roba morta andò a piombare nell’angolo della stretta.
A quel tonfo Pardi si risvegliò come da una ossessione.
Aprì gli occhi alla vista esteriore, si vide la mano e il braccio chiazzati di sangue, buttò via l’arnesaccio che aveva in pugno e, rantolando nell’affanno della respirazione, fuggì, passando per la scala buia, attraverso l’intricato labirinto della fabbrica, precipitò per l’angusta scaluccia nel sotterraneo della macchina, urtando due volte la testa nei travi di ferro, e senza cappello, colla testa ferita e sanguinolenta, col pugno stretto come se brandisse sempre lo strumento del delitto, mormorando meccanicamente la profezia della mamma, andò a consegnarsi alle guardie di via Lanzone.
Chiamato in fretta il signor delegato Broglio, che, come al solito, faceva la partita ai Tre Scanni, Pardi, in uno stato da far pietà ai sassi, gli disse singhiozzando:
— Mi mandi al Cellulare, ho ammazzato mia moglie.