Demetrio Pianelli/Parte quinta/III
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III.
La notizia dell’atroce fatto del Ponte dei Fabbri corse la città quel giorno stesso che Demetrio Pianelli preparavasi a partire per la sua nuova residenza; ma non arrivò fino al di sopra dei tetti. Quel dì Demetrio ebbe molto da fare. Aggiustò i conti col padrone di casa, al quale lasciò il letto e il cassettone in pagamento: a Giovann dell’Orghen regalò le gabbie e qualche vecchio paio di scarpe: il resto diede a uno stracciaiuolo. Per sè riempì una cassetta e una valigia. La giornata passò come un sogno in queste molteplici occupazioni e venne l’ora del pranzo, che non aveva ancora inghiottito una goccia d’acqua.
Mandò Giovann dell’Orghen a comperare del pane, del salame cotto e un fiaschetto di vino, e sedettero tutti e tre — il terzo era Giovedì, — l’uno sulla cassa, l’altro sulla valigia, il cane in terra nel mezzo della stanza spoglia, a celebrare l’ultima cena. La compagnia non guastava la malinconia de’ suoi pensieri, perchè il sordo non l’obbligava a parlare e il cane non l’obbligava a stare attento. Si trovava così solo senz’essere isolato.
Finito il pranzo, mandò Giovann dell’Orghen a portare una lettera a Beatrice, da consegnare al signor Paolino delle Cascine e rimase una mezz’ora a contemplare, per l’ultima volta, col cuore ammalinconito, ma non triste, la stesa dei tetti, già rosseggianti nel sole di tramonto, disseminati in cento strutture intorno all’antico campanile delle Ore, coi fumaioli dalle mille bocche aperte, cogli abbaini, le altane verdeggianti, che era insomma da molti anni il mondo delle sue solitarie escursioni, quando dalla finestra correva cogli occhi lungo le gronde, dentro i soffitti, tra le buie armature dei tetti....
Dunque, addio tegole, addio abbaini, addio campanile delle Ore, addio vecchio duomo di Milano, che più si guarda e più diventa bello, più diventa grande, come se ognuno vi aggiungesse per frangia i suoi pensieri migliori. Addio, Milano, città più buona che cattiva, che dà volentieri da mangiare a chi lavora, ma dove, come in ogni altro paese del mondo, chi non sa fingere non sa regnare.
Mezz’ora dopo egli era alla stazione.
In un angolo della sala d’aspetto, seduto sulla sua valigia, attende senza impazienza che aprano lo sportello di terza classe della linea di Genova. La stazione va gradatamente rischiarandosi della luce bianca che mandano i rari fanali elettrici, mentre nel cielo, dietro le piante della circonvallazione, resiste ancora come un braciere ardente l’ultimo raggio del crepuscolo.
Non è una partenza allegra, ma non può dire nemmeno di sentirsi turbato e rotto il cuore come supponeva. C’è nelle stesse sofferenze un limite, oltre il quale non si sente o non si capisce più nulla, ma sottentra quasi l’abitudine al dolore, da cui si va, a seconda dei casi, o verso l’indifferenza, o verso la rassegnazione. Demetrio, ascoltando il suo cuore, si sentiva più vicino a questa che a quella.
Qualche cosa di dolce era stillato nella sua vita, e scendeva, sottilissimo filo di consolazione, in mezzo alle vecchie amarezze della sua esistenza. Se si sforzava di rintracciare da qual vena misteriosa scaturisse in lui questa goccia soavissima e fresca di ristoro, gli pareva di ricordarsi d’averla sentita fluire dalla fronte quel momento che Beatrice, tornando verso di lui, aveva collocato la mano sul suo capo.
Quell’atto di pietà, quella mano leggera, ferma un mezzo minuto sul capo di un uomo malato, aveva guarito molti mali. Beatrice certo non immaginava il bene che gli aveva fatto. È la forza della pietà e della carità che provoca i miracoli, che dice al paralitico: Prendi il tuo letticciuolo e cammina; al povero Lazzaro: Sorgi dalla tua fossa. Ebbene, vecchio e tribolato Demetrio Pianelli dalle scarpe rotte (notò che veramente le sue scarpe non erano in molto buon arnese), tu non sei forse l’ultimo degli scribacchini del regno d’Italia. Sua Eccellenza non lo saprà mai e non ti farà cavaliere per questo, ma tu hai fatto piangere sulla tua disgrazia gli occhi di una bella creatura; hai saputo far vibrare il suo cuore e schiudere quanto di più tenero e di più delicato v’era in lei. O Demetrio o Matteo o Carlambrogio, chi sa che tu non sia passato inutilmente nella vita di questa donna?
Eran questi all’ingrosso i concetti fondamentali di quella convinzione, che lo rendeva docile e rassegnato al suo destino: e vi si sprofondò tanto col capo, che non vide Arabella, se non quando la ragazzetta gli pose la mano sulla spalla. Dietro di lei, trascinando un paio di scarpe non sue, Giovann dell’Orghen si fermò a far riverenza al sor Demetrio che andava a vedere il mare. Il più felice degli uomini avea indosso, non ancora ben distesi dal sole, gli abiti del povero Cesarino.
— Come hai saputo che partivo stasera?
— La mamma, quando son tornata dagli esami, mi ha detto: — Sai? lo zio Demetrio va via. — Dove va? — chiesi naturalmente. — È stato traslocato in un altro ufficio dal governo. — E non mi ha detto niente? — Non ti credo. A me l’avrebbe detto, in un orecchio, ma l’avrebbe detto. Se la mamma avesse voluto accompagnarmi, venivo subito a trovarla, e non l’avrei lasciato partire. Mi son fatta accompagnare sul tardi dal Berretta. Non era già più in casa. Allora ho pregato Giovann dell’Orghen di accompagnarmi alla stazione. È proprio vero? Lei va via, così senza dir nulla?....
Arabella, un poco affannata per la corsa fatta, parlava con un’eccitazione più di dispetto che di rammarico.
— Che ti può fare adesso lo zio Demetrio? lascialo andar via — egli disse sorridendo.
— Lo so bene, lo so bene...., basta!
Arabella alzò gli occhi sul quadrante dell’orologio e ve li tenne fissi come se facesse dei conti sulle ore. Vestita dell’abitino nero che aveva indosso agli esami, con scarpe a bottoni lucidi che le serravano delicatamente il collo del piede, con in testa un tocco d’astrakan, da cui si svolgevano a onde i capelli chiari, la bianchezza della sua carnagione spiccava in mezzo a tutto quel nero; gli occhi profondi e intelligenti guardavano molto lontano, al di là delle cose, come fanno tutti gli occhi che pensano.
— Lo so bene, — ripetè, seguitando l’idea che le passava davanti. — Non avrei creduto che dovesse finire così. Povero papà!
— La mamma lo fa per il vostro bene, — fu presto a dire Demetrio, che nella voce quasi severa della fanciulla credette di intendere un’altra voce che si corrucciasse in lei.
Non mai Arabella gli era parsa così somigliante al povero Cesarino come quella sera che la rivedeva nell’abito elegante e nella luce bianca dei fanali. Il suo profilo suscitò la memoria del giovinetto collegiale che un altro Demetrio bifolco incontrava ai tempi della mamma Angiolina, quando, i piedi in due zoccoli di legno e una forcona in ispalla, usciva dalla stalla dei buoi.
Giovann dell’Orghen intanto, vestito degli abiti di un disertore, andava ramingando davanti a tutti gli sportelli, guardando in terra, se mai la Provvidenza avesse lasciato cadere un mozzicone di sigaro. Demetrio stava accostando nei suoi rapidi confronti il passato al presente, i vivi ai morti, quando s’intese l’ululato di Giovedì, che i guardiani chiudevano nello scompartimento riservato ai cani che viaggiano.
Povero Giovedì!... non voleva distaccarsi dal suo padrone.
Arabella, che aveva sognato nella notte il verso del cane, ebbe un brivido in tutta la persona. Tratta dalla successione delle idee, soggiunse:
— Stamane la mamma mi ha dimandato se io sapevo com’era morto il mio povero papà. Essa non sa ancora tutta la verità....
— Risparmiatele questo dolore.... E in quanto a te, Arabella, abbi pazienza. Vedrai che ti troverai bene alle Cascine. Paolino è buono e sarà per voi un secondo padre. Ci sono delle necessità, figliuola mia, ci sono delle necessità, credi a me, innanzi alle quali è religione chinare la testa.
— Lo so, povero zio! — esclamò con pieno abbandono la ragazza, alzando il braccio sul collo di Demetrio, che sedeva più basso.
Colla maniera con cui circondò il collo e con cui gli prese la mano, gli fece capire ch’essa non aveva bisogno d’altri commenti, e che sapeva tutto. Le anime semplici sono anche le più trasparenti. Essa tornò a sollevare gli occhi lucenti al quadrante dell’orologio, mentre Demetrio abbassava i suoi sulle rughe delle sue vecchie scarpe. Stettero così forse un minuto, senza parlare, durante il quale risonarono ancora le lamentele di Giovedì chiuso in gabbia. S’intesero così senza parlare, stringendosi tratto tratto la mano con un battito di tenerezza.
Arabella dopo un po’ di tempo, nel consegnare allo zio una busta che pareva una lettera, riprese a dire:
— La mamma la prega d’accettarlo per sua memoria. È il suo ritratto.
— Ringraziala, — balbettò lo zio, senza alzare gli occhi.
Arabella disse di sì con un colpo delle palpebre. Durante il tempo che lo zio Demetrio stette allo sportello a comperare il biglietto, essa sedette sulla valigia, abbandonando le mani sulle ginocchia, assorta in una grande quantità di cose, che non avevano ordine, ma che la trascinavano colla forza di una corrente, di cui sentiva nella testa il frastuono.
La stazione era andata di mano in mano popolandosi di gente che si aggirava frettolosa nella luce scialba e biancastra che pioveva dai globi, in mezzo al sordo rotolìo delle carriole che menavano i bauli e alle voci sonore e imperiose che annunciavano le partenze. I treni in arrivo fischianti e rumoreggianti sotto la tettoia, il picchiar dei ferri, il suono delle catene, il bisbiglio, lo scalpiccìo di tante persone mosse e sospinte anch’esse da pensieri, da voglie, da inquietudini proprie, o dalla forza delle cose, tutto ciò bastò a distrarre Arabella dai pensieri indeterminati, misti di presentimenti e di risentimenti, coi quali essa cominciava troppo presto la storia della sua giovinezza. Guai se gli occhi avessero la vista del futuro! A distrarla tornò indietro lo zio Demetrio, che colla piccola ombrella sotto il braccio e il biglietto in mano le fece capire ch’era giunta l’ora d’andarsene.
Giovann dell’Orghen prese la valigia e si avviò verso la scala d’ingresso. Arabella si attaccò al braccio dello zio e lo accompagnò fin sulla soglia. Era pallidissima, ma non piangeva per non conturbare con lagrime inutili la malinconia del viaggiatore. Questi, col corpo in preda a piccole scosse, colle rughe del volto tese a uno sforzo supremo, disse ancora qualche cosa colla mano, mosse le labbra a un discorso che non volle uscire, e lì sulla soglia, sotto gli occhi del controllore, baciò sulla fronte Arabella, mettendole la mano sulla testa, come aveva fatto la sua mamma con lui. E si divisero senza piangere.
Demetrio, quando si trovò solo nel suo scompartimento di terza classe, immerso nella poca luce d’un torbido lampadino giallognolo, potè abbandonarsi interamente, con minor soggezione di sè stesso, alla piena dei varii pensieri, che in quell’epilogo della sua oscura tragedia uscivano da cento parti a invadere l’anima.
Sentendosi la testa calda come un fornello, quando il treno cominciò a muoversi nella crescente oscurità della sera, appoggiò la faccia al finestrino e stette a bevere l’aria con le labbra aperte, cogli occhi fissi a un cielo non ancora chiuso del tutto agli ultimi respiri del crepuscolo.
Passando sul cavalcavia del vecchio Lazzaretto, da dove la città si apre ancora alla vista del viaggiatore in tutta l’ampiezza del corso, co’ suoi bianchi edifici, — e già splendevano di lumi case e botteghe — la salutò con un sospiro. Poi il treno, affrettando la corsa, cominciò a battere la bassa campagna nelle umide e fitte tenebre della notte, assecondando colle sorde scosse il correre tumultuoso dei pensieri.
Non era una campagna ignota, anzi erano gli stessi prati suoi, dov’era nato, dov’era cresciuto ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e più in là San Donato, e tra una macchia bruna di pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi calzoni rimboccati fino al ginocchio. In una bassura, nascosta da un muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava da venticinque anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch’essa aveva lavorato per il bene de’ suoi. — Ciao, mamma.... — disse una voce, che un Demetrio irritato e sordo non volle ascoltare. Un tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all’orlo del quale appare la stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall’acqua livida, a venir addosso nella sua nera e solenne costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come un’ombra sull’aria oscura; e più in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnato la sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo!
C’erano, in quell’antico convento degli angoli così tiepidi e santi, con certe figure lunghe e patetiche su per i muri: c’erano dei corridoi così lunghi con cento cellette che davano sul verde luminoso delle praterie: c’era insomma in quella vecchia badia del medio evo un tal senso di riposo, che solo a pensarci il cuore se ne immalinconiva. Peccato non esserci vissuto trecent’anni prima! peccato non esserci due braccia sotto terra.
In quella chiesa Beatrice avrebbe detto il suo sì un’altra volta. Ributtato da questi pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la testa nell’angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come se si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via sbattacchiandolo, una canzone ancora in fondo al cuore sussurrò in tono quasi di canzonatura — T-o-to.... finito.