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soleva smaltire la polvere del carbone all’osteria. Quando il portello si rinchiuse dietro la Cherubina, Secco trasse dal di sotto di un vecchio stipo una cassa di ferri che servivano per le aggiustature. Erano lime, scalpelli, punteruoli nuovi e frusti, in mezzo a una minutaglia di chiavi e di chiodi rugginosi. Chiuse gli occhi, prese a caso un arnese coll’impugnatura di legno, lo ficcò nella tasca della giacca, soffiò sul lume e, al debole riverbero dei lampioni di strada, discese lentamente, col corpo pesante, colle vene chiuse, il passaggio tra i telai, che gli parve interminabile, uscì sul pianerottolo buio, fissò gli occhi nel buio perfetto della scala e, sospinto da una forza che non era già più sua, entrò in casa.
Nel salotto da pranzo non c’era nessuno. Sul tavolo in mezzo alla stanza splendeva una lampada con grosso globo di vetro. Buttati sul tappeto del tavolo, i guanti di Palmira, coi diti arrovesciati in un gesto d’irritazione, attirarono subito la sua attenzione.
Palmira era nella stanza da letto, divisa dal salotto da due piccole portine di vetro, attraverso alle quali egli vide chiaro.
— Sei tu, Secco? — chiese la sua voce acuta e carezzevole.
Non rispose. Come avrebbe potuto? Nel momento che seguì, il più gran rumore lo fece