Della coltivazione/Libro II

Libro II. Lavori di estate

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Libro II. Lavori di estate
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Alma cortese Dea che ’l verde e i fiori
Coll’aurato color conduci al frutto,
E dài larga mercede a chi bene opra;
Porgi aiuto al mio dir: ché vedi omai,
5Ch’al tuo nuovo apparir fuggita è Clori
Con la sorella sua, la vaga Flora;
Talché tu sola sei di noi sostegno.
E tu, Madre onorata, che lasciasti
Per consiglio divin la figlia sposa
10Al suo gran rapitor, del tutto erede;
Vien’ meco a dimorar nel tuo bel regno:
Ch’or che in alto sta il sol, ch’egli arde il giorno,
Tra i più lieti villan, discinto e scalzo,
Velato il capo sol delle tue spighe,
15Qui cantar m’udirai per campi e piagge
L’altere lodi tue, purché tu voglia,
Quando il bisogno fia, compagna farte.
Vien’ tosto, vieni a noi succinta e snella;

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Né quella bionda treccia oggi si sdegni
20Di talor sostener la corba e ’l vaglio
E gli altri arnesi tuoi: non tardar molto;
Che già ti chiaman le campagne e i colli,
Ch’hanno all’ultimo dì condotto il parto
Per riposarlo poi nel tuo gran seno.
25Tu, d’Anfriso pastor, a parlar nosco
Non ti gravi il venir; ch’io sento ancora
D’amoroso muggito empier le valli,
E le spose chiamar gli armenti tuoi.

Quando montando il sol si lascia indietro
30Il cornuto animal ch’addusse Europa
Dentro all’onde salate; e ’n sen rifugge
Dei duo chiari fratei, di Leda figli;
Prenda il buon metitor la lunga falce,
E degli erbosi prati il frutto accoglia:
35Ma guardi prima ben se tutti avranno
Al suo maturo fin rivolti i fiori;
Ne s’indugi però, che i troppi giorni
Faccian d’essi piegar le spoglie a terra:
Ché quel verria ripien di van liquore;
40E ’l notritivo umor quell’altro perde.
Quando il tempo talor n’affretta e ’l loco,
Non si deve spregiar colui che ’nsegna
Ch’a migliore stagion le stoppie e i prati
Nella tacente notte, alla fredda ombra,
45Del suo ferro fatal sentan la piaga:

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Pur, quando avvampa il dì, quando è più chiaro,
Che sospetto non sia di pioggia o nebbia,
Conforto il segator; e s’egli avviene
Che improvvisa talor tempesta assaglia,
50Non l’ardisca toccare infin che torni
Con più possanza il sol ch’asciughe il tutto.
Quel che giacque di sotto, in alto volga;
E procuri sì ben, che molle intorno
Da nulla parte sia: ché fòra in breve,
55Con tristissimo odor, corrotto e guasto.
Né lasci anco venir secchezza estrema;
Ché ’n brevissimo andar fia trita polve.
Poi il chiuda in parte ove temer non possa
Il piovifero autunno, o ’l freddo verno:
60E dove manchi altrui capanna o tetto,
Serrilo tutto in un, di meta in guisa,
Sicché l’onda che vien, non trovi seggio,
Anzi rotando in giù sì tosto caggia,
Che quel poco lassù sia scudo al molto.
65Poi drizze il passo, ove all’uscir del verno
Senza spargersi seme andò l’aratro:
E si ricordi allor, che questa è l’ora
Di dar traversa la seconda riga
A i colli e i campi, che la terza poi
70Denno aspettar quando il signor di Delo,
Compito il maggior dì, ritorna indietro.
I primi a tutti sien gli acquosi e grassi,
In cui l’erba peggior più

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forza prende.
L’aspra lappola vil, l’inutil felce,
75L’importuna gramigna, e l’empio rogo,
Pria ch’il nascente fior si volga in seme,
Tanto adopre il poter, ch’aperte al cielo
Mostrin tutte quel dì le sue radici.
E mentre egli opra tal, la sua famiglia
80Con semplici sarchielle attorno mande
Svegliendo quel che tra ’l frumento acerbo
Noioso accresce, e la ricolta mischia.
Gli altri campi felici, in cui si veggia
L’alme biade ondeggiar come il mar suole;
85Poich’il tenero fior pendente scorga
Nel sommo ancor della non ferma spiga,
Se da mille erbe o più sentisse offesi,
Non gli soccorra allor, ché tutto nuoce,
Né si deggion crollar da parte alcuna.
90Preghi divoto pur Eolo e Giunone,
Che ritenghin lassù la pioggia e ’l vento:
Poi con buono sperar disegni il loco
Ove al maturo dì cantando scarche
Dei suoi frutti miglior l’arida spoglia.

95Al fido albergo suo, quanto esser puote,
Prenda il saggio villan l’aia più presso,
Per meno affaticar chi carco viene
Di monde biade, e men sospetto avere
Il mal vicin che dell’altrui si pasce;
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Purché sotto non sia giardino o pianta
Che si deggian pregiar; che tutto ancide
La sottil paglia e le pungenti reste
Che ’n su le verdi fronde il vento spinge.
Sia in alto assisa, e d’ogni parte possa
105L’aura tutta sentir; né monte o colle,
D’alcun luogo che spiri, occupe il fiato.
Sia la forma ritonda: il mezzo in suso
Pur con misura egual s’elievi alquanto.
Chi la potesse aver di vivo sasso,
110Ben felice saria; ma perché avviene
Questo raro o non mai, le pietre e l’erbe
Pria sveglia ivi entro, e tritamente poi
Batta il terreno, e ’n ogni parte adegui.
Poi di putrida morchia il tutto sparga,
115E la lasse scaldar più giorni al sole:
Questa chiude il terren; questa è veneno
Alla notturna talpa, al topo ingordo,
Alla terrestre botta, a tutti quelli
Vermi crudei ch’a depredar son pronti
120Le fatiche d’altrui; questa è cagione
Che null’erba nocente ivi entro nasce.
Poi pigli un tronco, ove talor si truove,
Di marmorea colonna, e non perdoni
Al suo stato real, se fu sostegno
125D’acquidotti alcun dì, d’archi e teatri:
Vada rotando pur di parte in parte,

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Tal che, s’altro riman, del tutto spiani.
Or s’apparecchi ogni uomo al miglior punto:
Che lo smeraldo fin si è volto in oro.
130Già puoi sentir le biancheggianti spighe,
Che alle dolci aure percotendo insieme
Con più acuto romor chiaman la falce:
Già risveglian altrui, ch’accoglia il frutto
Della sementa sua, né troppo attenda;
135Ché ’l soverchio aspettar, soverchio offende.
Parte di mille augei diventa preda;
Parte all’estivo Sol s’astringe e ’ncende,
E ’l già troppo maturo in terra cade.
Quanto temer si denno, in tale stato,
140Grandini e piogge e tempestosi torbi!
Non si fidi il villan nel lungo giorno;
Ché non ha legge il ciel fra noi mortali.
Quante volte già fur, ch’al dì sereno,
Laddove nulla nube il ciel velava,
145Vidi in un punto solo i venti e ’l mare
Con sì crucciosa fronte a guerra insieme,
Ch’ei parea che Nettuno andasse in alto
Per furar al fratel le stelle e ’l seggio!
E ’l buon nocchier che sulla poppa assiso
150Pur or cantando a suo diporto stava,
La voce e ’l fischio poteo trarre appena
Per porre in basso la gonfiata vela,
Ch’ei si trovò così dall’onde involto!

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Il pio cultor che rendea grazie a Dio
155Che delle sue fatiche il premio addusse;
Né più, stolto, temea periglio o danno;
Vide in un punto le mature biade
(Mentre aguzzava ancor la falce e i ferri)
Della rabbia del ciel, dei venti preda,
160Giacerse in terra: come spesso avviene,
Poi ch’hanno insieme due nimiche schiere
L’empio ferro e la man di sangue tinta;
Che l’incerta vittoria or quinci or quindi
Con simulato amor più volte ha corso:
165Stanca alfin di mirar, l’arme riprende
Per la parte miglior che ’n fuga volge
L’aspro avversario; onde veder si puote
Con miserabil suon per terra steso
Chi colla fronte in giù, chi al ciel supino;
170E ’l nuovo peregrin che i campi scorge
Sì di morti ripien, di sangue rossi,
E serrato il cammin, nel volto tinto
Di spavento e pietà, rifugge indietro.
Come adunque il villan dappresso vede
175Biancheggiar le campagne, il braccio stenda,
E cominci a segar le sue ricolte:
Né si lasce indurar del tutto il grano;
Ch’entr’alle biche, e nell’albergo poi
In grandezza e bontà ricrescer suole.

180Son di mieter più modi. Altri hanno in uso
(

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Come i nostri Toscan) dentata falce
Che di novella luna in guisa è fatta,
Arcata e stretta; e colla man si prende,
Quasi spada il guerrier, tra l’elsa e ’l pome:
185Colla sinistra poi si giunge insieme
Quante puoi circondar col pugno spighe;
E segando le paglie or alte or basse
(Come chiede il voler), in un raccoglie
Picciol fascetti, e coll’istesse biade,
190Quanto più ferme può, rattorce e lega.
Altri ch’han le campagne aperte e piane,
E le biade più rare; e l’erba e ’l fieno
Hanno in uso maggior che paglia o strame;
Con carri alati e di rastrelli in guisa,
195Van raccogliendo sol le somme spighe,
Le quai soglion servar sotto i suoi tetti
Nel più gran verno, ove di giorno in giorno,
Quando il bisogno viene, a parte a parte
Colle sue verghe in man scuotono il grano.
200Altri han vari instrumenti: e ’n somma sono
Pur, secondo i lor siti, attati in modo,
Ch’ogni usanza che sia ritorna in una.
Quei primi adunque che la paglia insieme
Colle spighe han segata, i picciol fasci
205In molti monticei compongan tutti,
Ch’ei non possin sentir tempesta o pioggia,
Poiché scaldati sian d’alquanti Soli,

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Nel cocente vapor gli apporte all’aia.
Ivi il basso cultor dei pochi campi
210Coi coreggiati in man batter gli puote
Con più vantaggio assai: ma il buon villano
Che grassissime avrà le sue ricolte,
Sotto il fervente dì con più prestezza
Gli stenda in terra, e da’ suoi stessi armenti
215Faccia in giro calcar la paglia e ’l grano;
E fia molto miglior, s’il modo avesse,
Il veloce caval che ’l lento bue;
E se ne fusser pochi, intorno meni
Quante più larghe puote erpici e tregge,
220Ove un solo animal per molti adopra.
Qui preghi il ciel che del suo fiato mande
Per poter rimondar, gittando in alto,
Il battuto frumento: e d’ogni vento,
Favonio è il primo; ch’all’estivo tempo
225D’una dolcezza ugual perpetuo spira.
Ma s’ei mancasse pur, follia sarebbe
Troppo aspettarlo: ch’a sì gran bisogno,
Di qualunque altro sia prendiamo aita.
Or se l’aria, la terra e ’l mar d’intorno
230Con tranquillo silenzio avesser pace,
Né si vedesse in ramo muover foglia,
Né l’onde alzarse; come avvien talora,
Quando Ciprigna nella conca aurata
Tra i bei candidi cigni a suo diporto
235Il

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salato sentier rigando solca;
Sia presto il cribro, e per sé stesso adopre:
Ché dopo lunga pace è più sospetta
Del ciel la guerra che ’n un punto solo
Faccia vano il lavor d’un anno intero.
240Chi, per util maggior, più tempo cerca
Servarlo intero, vie più metta cura
Ch’ei sia due volte e tre vagliato e mondo:
Che l’inutil gorgoglio e gli altri vermi,
Ove purgato è più, men fanno oltraggio.
245Chi negli acconci suoi di punto in punto
Per la pia famigliuola il prende in uso,
Più non s’affanni, e pur contento sia
Ch’ei si rinfreschi alquanto a l’ombra e l’"ra;
Poscia il riponga al destinato albergo.
250Qui la cara consorte, i suoi germani,
La vecchia madre ancor, l’antico padre
(S’ei fusse in vita allor) s’accinga all’opra;
Ch’ogni uom deve aiutar chi a casa porta.
Questo misuri il gran; quello apra il sacco;
255Quest’altro il prenda, e l’attraversi al dorso
Del suo pigro asinel; quell’altro il punga,
E con grida e rampogne il cacci e guidi.
Con prestezza minor, con maggior soma
Altri intenda a menar le tregge e i buoi:
260L’altro il discarche, e sopra il collo il porte
Nel più alto solaro ove non vada

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L’importuna gallina e gli altri uccelli.
Come talor veggiam per lunga riga
Le prudenti formiche innanzi e ’ndietro
265Or andar or venir dal chiuso albergo
A i campi e i colli che involando vanno;
Chi tien la preda in sen, chi l’ha deposta,
Chi ricercando ancor novello incarco
Va quinci e quindi, perché poi non manche,
270Quando il verno le assal, l’amato cibo
Per sostenersi: e cotal sembri allora
Col felice signor la sua famiglia.
L’altre biade più vil, gli altri legumi
E segando e battendo, il proprio modo
275Tener si dee che del frumento istesso.
Qual felice nocchier che lunge avendo
Di peregrine merci il legno carco,
Già compito il cammin tra mille e mille
E di scogli e di mar perigli estremi,
280Lieto in porto si trova, e i voti scioglie
A Glauco e Panopea, mostrando aperte
A chi più caro il tien le sue ricchezze;
Tal coi dolci vicin, coi suoi congiunti
Qui s’allegre il villan, qui grazie renda
285Alla spigosa Madre, agli altri Dei
Che negli aperti campi il seggio fanno.
Poiché in sicura parte accolta vede
Dei suoi primi desir la maggior parte,

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Colla sua famigliuola a l’ombra e ’l verde
290L’ampia ricolta sua si goda in pace.
Non ai superbi regi, ai duci invitti
Aggia invidia tra sé, né speri in terra
Ritrovar, più del suo, diletto e gioia.
Pur gli sovvenga poi, che non han fine
295Le fatiche e i pensier del buon cultore;
Né sol basta curar le biade e ’l grano:
Ché non consente il Ciel, ch’un uom mortale,
Senza mille sudor, mille alti affanni,
Meni i suoi giorni, e pigramente avvolto
300Neghittoso nel sonno indarno viva.

Non soleva il bifolco innanzi a Giove
Coll’aratro impiagar le piagge e i colli;
Non misura, o confin di fosso o pietra
Dividean le campagne: ivi ciascuno
305Prendea il frutto comun: l’antica Madre,
Senza fatica altrui, nodriva i figli:
D’aure soavi e di dolcezza colma
Era l’aria ad ognor: e ’l cielo intorno
Sempre menava i Sol tepidi e chiari:
310Avea di frutti e fior, d’erbe e di fronde
In un medesmo tempo il sen ripieno,
Senza tempre cangiar, l’aprica terra:
Davan le querce il mel; correano i rivi,
Pur di latte e di vin le sponde carchi.
315Poiché crescendo, e del suo regno a forza

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Scacciò il sacro figliuol l’antico padre,
Tutto in un punto si rivolse il mondo;
E come esser solea per tutto eguale,
Intra cinque confin diviso il feo.
320Ai duoi più lunge e che più in alto stanno,
E più veggion vicin l’un polo e l’altro,
Sì la strada del Sol lontano pose,
Che di nebbia e di giel son preda eterna.
Quel ch’in mezzo restò, sì sopra scorge
325Il bel carro di Febo e i suoi destrieri,
Che non può sostener la luce e ’l foco.
L’altre due parti a cui più visse amico,
Infra ’l mezzo e l’estremo in guisa accolse,
Che le nevi, il calor, la notte e ’l giorno
330Non pon loro, alternando, oltraggio fare.
A noi diede il veder l’Orse e Boote
Che non si attuffa in mar, ma intorno gira
Sopra i monti Rifei, dal freddo Scita,
Ove pose Aquilon l’altero seggio.
335L’altro, di tutto il ciel sostegno fisso,
Sotto il nostro terren s’asconde in loco
Ove sol pare a chi gelato e secco
Può ben l’austro sentir, ch’a noi fa pioggia.
Quinci adunque ci pose; e tolse Giove
340Quella prima dolcezza e quella pace,
In cui senza affannar vivea ciascuno
Mentre il vecchio Saturno il regno avea:

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Tolse alle fronde il mele, e ’l latte e ’l vino
Tolse ai rivi correnti; ascose il foco;
345Fe il lupo predator dell’umil gregge,
Dei colombi il falcon, dei cervi il tigre,
E dei pesci il delfino; ai negri serpi
Diede il crudo veneno; ai venti diede
L’invitta potestà d’empier il cielo
350Di rabbioso furor, di pioggia e neve,
E di franger il mar tra scogli e lidi,
All’estate il seccar le frondi e l’erbe,
E l’aprir il terreno; al verno diede
Lo spogliar, l’imbiancar le piagge e i monti,
355E col canuto giel legare i fiumi.
Poi, per sempre tener l’ingegno aperto
Del miser seme umano, ascose l’esca
Sotto la dura terra, onde non saglia
Fuori all’aperto ciel, se in mille modi
360Non la chiama il cultore; e ’ntorno pose
Mille vermi crudei, mill’erbe infeste,
E di Soli e di giel perigli estremi.
L’aspra necessità, l’usanza e ’l tempo
Partorir di dì in dì l’astuzia e l’arte;
365Fu ritrovato allor versare i semi
Tra i solchi in terra; e per le fredde pietre
Fu ritrovato allor il foco ascoso:
Allor prima sentîr Nettuno e i fiumi
Gli arbor cavati, e poi di merce carchi:
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Allor diede il nocchier figura e nome
A le stelle lassù; conobbe allora
La fida Tramontana, il Carro e l’Orse:
Allor tra i boschi le correnti fere
Fu trovato il pigliar con lacci e cani;
375E la forza e gl’inganni ai levi augelli,
Di rapaci falcon, di visco e ragne;
E l’annodate reti ai muti pesci:
Fu ritrovato il ferro; e lungo tempo
Venne ad util d’altrui; poi tosto crebbe
380Il desir di regnar, l’invidia e l’ira
Ch’a le morti e ’l furor lo volse in uso:
Poi con danno maggior l’argento e l’oro,
Per le Furie infernal da’ regni stigi
Riportato nel mondo, apparve allora:
385Venne il lascivo amor, di cui veggiamo
I giovinetti cor preda e rapina.
Ma che deggio io più dir? non venne allora
Qui mandata dal Ciel coll’empio vaso
L’empia Pandora a chi pensava indarno
390Di poter contro a Giove avere scampo?
Indi venner del tutto, e tutto intorno
Empier quanto contien la terra e ’l mare,
I difetti mortai, gl’inganni e i frodi,
Il simulato amor, gli odii coverti,
395L’allegrezza del mal, del ben la doglia,
Che si scorge in altrui; tante altre pesti,

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Ch’a dir poco saria terrena voce.
Ahi cieco seme uman! se tu vedessi
In quante, lasso! stai miserie avvolto,
400Tal sovente di te pietade avresti,
Che bramando il morir, nemico estremo
Il tuo giorno natal più d’altro f"ra.
Perché, stolti, cerchiam ricchezze e stato?
Perché, folli, portiam supremo onore
405A chi tien più d’altrui terreno e impero?
Deh perché pur cerchiam che lunga sia
Questa vita mortal che in un sol giorno,
Come nasce un fanciul, viene a vecchiezza,
E d’oscura prigion per morte fugge?
410Ma poiché la natura e ’l cielo avaro
Con queste condizion n’ha posti in terra,
Usar ce le convien: ché ’n vano adopra
Contro a loro il poter l’ingegno umano.
Vie più saggio è colui ch’il dorso piega
415All’incarco mondan con meno affanno,
E senza calcitrar soggiace al fato,
E prende al faticar più bel soggetto.
Nessun pensi tra sé, che l’ozio e ’l sonno,
Lo star la notte e ’l dì tra i cibi e Bacco,
420Possin leve tornar quel che n’aggreva:
Anzi, s’ei cerca ben, null’altro fia,
Ch’alla soma mortal più peso aggiunga.
Son le membra per lor sì frali e ’nferme,

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Ch’al fiorir dell’età tornan canute:
425Poi, qual punger poria più aguta spina,
Che ’l sentirsi talor nel loto involto,
Coi più vili animai vivendo a paro?
E rimirar lassù l’estrema altezza
Che mostrandoci ognor forme sì vaghe,
430Con sì dolci ricordi a sé ne chiama?
Nessun lasci andar via, vivendo a voto,
Quel che senza tornar trapassa e vola:
In qualch’opra gentil dispense il tempo,
Ove l’inchinan più natura ed arte;
435Onde a cosa immortal più s’assimiglie.
Quel coll’armata man (se ’l ciel lo spinge)
Del suo natio terren difenda i lidi
Dal nimico crudel: quell’altro, in pace,
A’ suoi buon cittadin ricordi e mostri
440Come giustizia val, com’ella è sola
Che mantien libertà sicura e lieta:
Quell’altro spieghi in onorati inchiostri
Le cagioni e ’l cangiar del corso umano:
Stenda l’altro, scrivendo, i fatti illustri
445Di quei nostri miglior mille anni innanzi:
E chi non trova pur, qual brama, aita
O di Marte o di Febo, al buon Saturno
Ratto il passo rivolga, e meco vegna
Coll’aratro, col bue, cogli altri ferri
450A rigar il terreno, a versar biade

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Che raddoppien più volte il seme e ’l frutto.

Prenda al suo bene oprar la gente umana,
Glorïoso Francesco, in voi l’esempio;
E vedrà come in vano ora o momento
455Non lasciate fuggir dei vostri giorni:
Ch’ora all’armi volgete, ora alle Muse
L’intelletto real ch’a tutto è presto;
Ora al santo addrizzar le torte leggi,
Come più si conviene a ’l tempo e ’l loco,
460Ora al bel ragionar di quei che furo
Più d’altri in pregio; e terminar le liti,
Con dotto argomentar, dei saggi antichi.
Così meno a passar n’aggreva il tempo;
Così dopo il morir si resta in vita,
465E più caro al Fattor si torna in cielo.
Ma perché io sento già chiamar da lunge
Il pampinoso Bacco, e dir cruccioso,
Che troppo indugio a dar soccorso omai
All’arbor suo che nella prima estate
470Da mill’erbe nocenti intorno offeso,
Senza l’aiuto altrui si rende vinto;
Per divisar ritorno al buon cultore,
Quel che deggia operar, pur ch’a voi piaccia
L’alte orecchie reali avere intente.

475Poiché rimonta il Sol tra i due Germani,
Già la seconda volta armato saglia
L’invitto zappator; né sia cortese

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A chi fura alla vigna il cibo e ’l latte;
Ma con profonde piaghe al ciel rivolga
480Di quell’erbe crudei l’empie radici
Che negli altrui confini usurpan seggio:
E ciò far si conviene innanzi alquanto
Ch’ella mostri i suoi fior; ché allora è schiva
Di qualunque crollando ivi entro vada.
485Ma guardi prima ben, che dentro o fuore
Non sia molle il terren, che troppo nuoce:
Poi con amica man d’intorno sveglia
Le frondi al tronco, che soverchie sono,
O che chiudan del Sol la vista all’uve.
490Così del tralcio la più acuta cima
Coll’unghie spunti, perché meglio intenda
Quella virtù che si sperdeva in alto,
A nutrir e ’ngrossar gli acerbi frutti.
Or poiché giunto al suo più degno albergo
495Della Fera nemea si sente Apollo,
E che ’l celeste Can rabbioso e crudo
Asciuga e fende le campagne e i fiumi;
Quando il crescente raspo a poco a poco
Già si veste il color aurato o d’ostro,
500La terza volta alfin ratto ritorni
A rivolger la terra il buon cultore,
Perch’al suo maturar s’affrette il tempo:
Ma questo adopre alla surgente aurora,
O quando fugge il dì verso l’occaso;
505

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E nel più gran calor perdoni all’opre.
Quanto può, nel zappar, la polve innalzi,
Perché l’uve adombrando, ella si faccia
Contro a la nebbia e ’l Sol corazza e scudo.

Or non lasce il villan per l’altre cure
510Gli armenti, in questi dì, soli e negletti:
Ch’Admeto e gli altri che l’Arcadia onora,
Fur di sì gran valor, ch’ei vanno al paro
Alla madre Eleusina, a quel che sparse
Già nell’indico mar di Tebe il nome.
515Furo i sacri pastor quei che già diero,
Quando Giove restò del regno erede,
Al primo seme uman la miglior forma.
Quei le mugghianti vacche in larghe schiere,
Le feroci cavalle in lunghe torme,
520Le pecorelle umil, le capre ingorde
Giungendo in gregge, di dolcezza e d’arte
Senza altrui danneggiar nutriro il mondo.
Quei dal sole e dal gielo ivan coverti
Di spoglie irsute delle mandrie istesse:
525Ch’allor non ci mandava il Siro e ’l Perso
La seta e i drappi aurati, e Tiro l’ostro.
Fu l’albergo più bel di frondi e giunchi,
O sotto aperto ciel, vitelli e latte
Eran l’esca miglior: le fonti e’ rivi
530(Che pampinosa ancor Silen la fronte
Non aveva in quei dì) spegnean la sete:

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I cibi peregrin, l’ozio e le piume
Non turbavan la mente: il corpo, infermo
Non potea divenir; ma quelli istessi
535Eran dopo il mangiar, che avanti furo.
Vivea il mondo per lor tranquillo e queto:
Non poteva ivi alcun per gemme ed oro
La libertà furar; che nessun pregio
Avea loco fra lor, se non la pace.
540Questi son quei miglior che furo il seme
Di mille alme città, di Sparta e Roma:
Che se d’essi seguian l’antico piede,
Men forse nome Epaminonda avrebbe;
Né Silla e Mario, e quel che tutto spinse
545In sì misero fin, Cesare invitto,
Contra il natio terren le patrie insegne
Con sì crude vittorie avriano addotte.
Prenda adunque il villan, né se ne sdegni,
Degli onorati armenti estrema cura,
550(Che ’l profitto maggior, la miglior parte
Son di quei che fuggendo i falsi onori,
Dal suo dolce terren, quanto più sanno,
Coll’onesto sudor ritraggon frutto.
Quando il giorno maggior ci porta il sole,
555Apparecchie il pastor nuovo consorte
All’amorose vacche, acciò che veggia
Dopo il decimo mese il parto uscire
Sotto il cortese april, né caldo o gielo

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Al teneretto figlio oltraggio faccia.
560Molto più che nel toro, aggia riguardo
In elegger la madre: ch’ella istessa
Dà il bene e ’l mal nella futura prole.
Quella vacca è miglior, che in ampia fronte
Minacciosa ha la vista, il ciglio oscuro;
565Spazioso il collo; e che il ginocchio offenda
La pelle, andando, che dal mento cade:
Siano irsute l’orecchie, e negro il corno;
Righi dietro il terren la lunga coda;
Sian larghissimi i fianchi, e magro il piede;
570Sia brevissima l’unghia; e s’ella avesse
D’alcun vario color la veste tinta,
Sarebbe il meglio: e se talor paresse
A chi le sia vicin crucciosa e fera,
Non la spregi perciò ché più si brama,
575Quanto più nell’oprar simiglia il maschio:
Né di Lucina ancor sostenga il frutto
Priaché ’l terzo anno sia, né dopo i dieci.
Prenda il marito poi, che tutta mostri
Senza sproporzïon la forma altera:
580Ben levato da terra, e stretto il ventre;
La sembianza superba, ardito il guardo,
Le corna arcate; e nell’andar dimostri
Sopra gli altri vicin tenere il regno:
Soave al maneggiar; l’età sia tale,
585Che senza esser fanciul, non già sia vecchio.

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Io vidi molti già, che troppe diero
Al possente marito in guardia spose:
Ma il discreto pastore, a fin che il seme
Venga di più valor, soverchie estima
590Chi di due volte sette il segno avanza;
E con gran cura, pria che s’appresenti
Sopra i campi d’amor, lo tien lontano
Quanto pena a passar due segni Apollo,
Sempre di biade e fien pasciuto e grasso.
595Ma sia guardato ben: che s’ei potesse
Colla mente spiar là dove sono
L’alme consorti sue, non fiumi o stagni,
Non solitarie selve o monti eccelsi,
Non di lupi terror, non lacci o ferro
600Lo porian ritener; ché ’l foco invitto,
Vener, che vien da te, lo scalda in modo,
Ch’altro non sa veder che quel ch’ei brama:
Come esser suole al dipartir del verno,
Poiché zeffir disfà la neve e ’l ghiaccio,
605E larghissima pioggia il ciel ricopre,
Torrente alpestre che repente cade
Di salto in salto, e che spumoso e torbo,
Quanto trova in cammin, l’abete, il faggio,
L’antichissime pietre, i colli colti,
610Con tal orrendo suon conduce al piano,
Ch’empie tutti i vicin di doglia e tema.
E se ’l fero rival per caso incontre,

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Ch’all’amata giovenca intorno pasca;
Quasi folgori ardenti a ferir vansi
615Colle corna e col petto, infin che l’uno
Di vergogna, di duol, di sangue tinto,
Sdegnoso fugge in qualche ascosa valle,
D’empia rabbia ripien; e ’l monte e i boschi
Del cruccioso mugghiar risuona intorno:
620E senza ivi curar di fonti o d’erbe
(Ché del patrio terren si trova in bando)
Si sta piangendo; e ’n un momento poi
(Sì lo ripunge amore) ancor ritorna
Di nuovo in guerra, e del passato danno,
625Rimirando i suoi ben, non gli sovviene.
Alle spose convien nuova altra cura:
Che sì tosto che veggia il buon guardiano
D’amoroso desio le vacche punte,
Or le affanni nel corso, or sopra l’aia
630Le faccia in giro andar premendo il grano,
Or le affatichi al carro, ora alla treggia;
E lor tenga lontan l’erbe e le frondi,
Le fonti, i fiumi; e con digiuno e sete
Lungamente le servi: e tutto fasse,
635Che per soverchio peso non sien pigre
Alle presenti nozze, e vegna il solco
Al seme genital più largo e pronto.
Poiché gravide sien, le tenga in pace,
E senza esercitar pasciute e grasse.
640

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Or drizze il guardo alla crescente prole
Il suo governator: e ’n quei che truove
Destinati a solcar le piagge e i colli,
O per gli aperti pian destar intorno
Colle avvolgenti ruote al ciel la polve,
645O la treggia condur; poi ch’han pasciuti
Già del secondo maggio i fiori e l’erbe,
S’apparecchie a tagliar, soave e piano,
Quelle membra miglior che forza danno
A tutto il seme uman, ma son cagione
650Che ’l superbo vitel non cede al giogo,
Non ascolta il bifolco; e chi lo punge,
Or col piede or col corno, irato offende.
Ma perché la natura ivi ripose,
Quasi in albergo suo, maggior virtude;
655Molta convien usar dolcezza ed arte:
Poscia al taglio mortal si truove impiastro
Cener sottile e pece, aggiunto insieme,
Pallade, il tuo liquor; benché Vulcano
Il soccorso miglior talvolta doni.
660E per più giorni poi sì parco sia
E del cibo e del ber, ch’ei possa appena
Tenerse in vita; perché meno abbonde
A genital difetto umore e sangue.
Gli altri maggior fratei che negli armenti
665Si ritrove il guardian, ch’un anno almeno
Di tal piaga sentir la doglia innanzi;

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Gli comince a drizzar di giorno in giorno,
Sì che sostenghin poi l’aratro e ’l giogo.
Non cruccioso garrir, non verga o ferza
670Adopre il domator: ché ciò gli face
Sol per disperazion sì arditi e crudi,
Che non temon d’altrui, né pon soffrire
Chi più là del voler gli meni attorno.
Or non veggiam noi ben l’accorto e saggio
675Ch’al tenerel fanciul le prime insegne
Mostrar vuol già degli onorati inchiostri;
Ch’or con preghi, or con doni, or con lusinghe,
Or con vaghe pitture, a poco a poco
L’induce a tal, che per diletto prende
680Quel che già gli parea noioso e duro?
Prima d’erbe e di fior gli cinga il collo,
Poi d’un cerchio leggier, poi d’un più grave;
Poi venga al giogo: e per compagno elegga
Chi di senno e di età mille altri avanze:
685E gli scemi dell’esca, acciò che manche
E la forza e l’orgoglio, onde si renda
Al suo comandator più basso e vinto.
All’inerte asinel con meno affanno
Pur provegga il villan; che sempre avanze
690Alla madre che tien, novella erede.

Tu, largo abitator dell’ampie ville,
Se ti ritrovi aver campagne e prati,
E ricche onde correnti, e fresche valli,

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Non lasciar di nutrir l’armento fero
695Che Nettuno produsse, e Marte onora;
Il qual lode, diletto e frutto apporta.
E nel tempo medesmo, o poco avanti,
L’animoso corsier, che ’l toro ardito,
Già devria d’Imeneo gustar i frutti,
700Ché la consorte sua prolunga il parto
Dopo le dolci nozze all’anno intero;
E vorria pur trovar l’erbe e le frondi,
Quando nasce il figliuol, non morte ancora.
Grande il cavallo, e di misura adorna
705Esser tutto devria, quadrato e lungo:
Levato il collo, e dove al petto aggiunge,
Ricco e formoso; e s’assottiglie in alto:
Sia breve il capo, e s’assomiglie al serpe;
Corte l’acute orecchie: e largo e piano
710Sia l’occhio, e lieto, e non intorno cavo;
Grandi e gonfiate le fumose nari;
Sia squarciata la bocca, e raro il crino;
Doppio, eguale, spianato e dritto il dorso,
L’ampia groppa spaziosa: il petto aperto;
715Ben carnose le cosce, e stretto il ventre:
Sian nervose le gambe, asciutte e grosse;
Alta l’unghia, sonante, cava e dura;
Corto il tallon, che non si pieghi a terra:
Sia rotondo il ginocchio; e sia la coda
720Larga, crespa, setosa, e giunta all’anche,

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Né fatica o timor la smuova in alto.
Poi del vario vestir, quello è più in pregio
Tra i miglior cavalier, che più risembra
Alla nuova castagna allor che saglie
725Dall’albergo spinoso, e ’n terra cade,
Agli alpestri animai matura preda;
Purché tutte le chiome, e ’l piede in basso
Al più fosco color più sieno appresso.
Poi levi alte le gambe, e ’l passo snodi,
730Vago, snello e leggier: la testa alquanto
Dal drittissimo collo in arco pieghi,
E sia ferma ad ognor; ma l’occhio e ’l guardo
Sempre lieto e leggiadro intorno giri;
E rimordendo il fren di spuma imbianchi.
735Al fuggir, al tornar sinistro e destro,
Come quasi il pensier sia pronto e leve:
Poscia al fero sonar di trombe e d’arme
Si svegli e ’nnalzi, e non ritrove posa,
Ma con mille segnai s’acconci a guerra.
740Nol ritenga nel corso o fosso o varco
Contro al voler giammai del suo signore:
Non gli dia tema, ove il bisogno sproni,
Minaccioso il torrente, o fiume o stagno;
Non colla rabbia sua Nettuno istesso:
745Nol spaventi romor presso o lontano
D’improvviso cader di tronco o pietra;
Non quello orrendo tuon che s’assimiglia

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Al fero fulminar di Giove in alto,
Di quell’arme fatal che mostra aperto
750Quanto sia più d’ogni altro il secol nostro
Già per mille cagion lassù nemico.

Il gran Padre del ciel pietoso ascose
Tutto quel che vedea dannoso e grave
Al suo buon seme uman: l’empio metallo
755Fe nascer tutto tra montagne e rupi
Sì perigliose, fredde, aspre e profonde,
Ch’eran chiuse al pensier, non pur al piede:
L’elemento crudel che strugge e sface
Col tirannico ardor ciò ch’egli incontra,
760Sì dentro pose alle gelate vene
Di salde pietre, che ritrar non puosse
Senza assai faticar di mano ed arte:
Il doloroso zolfo intorno cinse
Di bollenti acque e d’affocate arene,
765E di sì tristo odor, ch’augelli e fere
Non si ponno appressar ove esso è donno:
Il freddissimo nitro in le spelonche
E ’n le basse caverne umide mise,
Ove razzo del sol mai non arrive;
770O tra ’l brutto terren corrotto e guasto
Dalle gregge di Circe, ond’esce appena
Dopo assai consumar di foco e d’onde.
Ma l’ingegno mortal, più pronto assai
Nell’istesso suo mal ch’al proprio bene,
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Da sì diverse parti e sì riposte
Queste cose infernali accolte insieme,
Con arte estrema a viva forza inchiude
Dentro al tenace bronzo onde Vulcano
Con sì gran fulminar, con sì gran suono,
780Con sì grave furor, così lontano
Va spingendo per l’aria o ferro o pietra,
Ch’ei fa sotto agli Dei tremar Olimpo.




Fine del Libro secondo.