De gustibus non est disputandum/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Appartamenti.
ERMINIA e CELINDO, sedendo vicini l'uno all'altro in fondo della scena.
Rosalba e il Conte Ramerino, ad un tavolino, giocando fra di loro alle carte.
Il Cav. di Roccaforte, ad un altro tavolino, scrivendo.
Don PACCHIONE, sedendo da un altro lato, bevendo la cioccolata.
Poi la Baronessa Artimisia.
Vari sono degli uomini i capricci1:
A chi piacciono l’armi, a chi gli amori,
A chi piaccion le torte, a chi i pasticci.
De’ gusti disputar cosa è fallace;
Non è bel quel ch’è bel, ma quel che piace.
Artimisia. Bravi, me ne rallegro.
Godo che in casa mia
La giornata si passi in allegria.
Che si canta di bello?
Cavaliere. Alcuni versi
Da me stesso composti in questo punto.
Veggendo che ciascuno
Variamente s’impiega e si ricrea,
Col faceto mio stil così dicea:
De’ gusti disputar cosa è fallace;
Non è bel quel ch’è bel, ma quel che piace.
Artimisia. Questo l’accordo anch’io.
Ciascheduno ha il suo gusto. Io pure ho il mio.
Ecco la mia nipote
Col suo futuro sposo
Godono nel parlar d’amor, di foco.
Mia cugina ed il conte amano il gioco.
Voi, cavaliere, amate
La dolce poesia,
Il piacer, l’allegria;
Ed il signor Pacchione, il poverino,
Ama i ragù, la cioccolata e il vino.
Pacchione. E voi che cosa amate?
Artimisia. Anche il mio genio
Più d’una cosa che d’un’altra è amico.
Ho il mio gusto ancor io, ma non lo dico.
Di questi versi miei. Ciascun si vanti
Del suo gusto parzial, li legga e canti.
(dà un foglio ad Artimisia
(Tutti s’alzano, ripeton la canzone suddetta; indi partono
tutti, fuorchè Artimisia e Rosalba.
SCENA II.
Artimisia e Rosalba.
Vi dilettate di giocar. Badate
Che dovrete pagar, se perderete;
Poichè, se nol sapete,
Gli uomini han ritrovato,
Quando giocan con noi, la bella usanza,
Che il non farsi pagar sia un’increanza.
Rosalba. Credetemi, non soglio
Nè per vizio giocar, nè per diletto.
Non so dir per qual cosa io senta 2 affetto.
Tutto mi piace, e niente mi dà pena.
Faccio quel che di far mi vien promosso,
E contento ciascun, se farlo io posso.
Artimisia. Bravissima! in tal guisa
Gradendo 3 tutti, e non negando mai,
Voi vi farete degli amici assai.
Rosalba. Questo è il mio gusto.
Artimisia. È il mio tutto all’opposto.
A voi ve lo confido:
Godo a far disperare, e me ne rido.
Fingo d’esser gelosa, e non lo sono:
Dar altrui gelosia mi dà diletto.
Chi ha per me dell’affetto,
E se pianger lo vedo, è il re dei gusti.
Rosalba. Io no; soffrir non posso
Che un amante sospiri; e se ’l vedessi
Una lacrima trar sugli occhi miei,
Non so dir, non so dir quel ch’io farei.
Ho un cuor si tenero,
Sì dolce ho l’animo,
Che tutti gli uomini
Mi fan pietà.
Quando sospirano,
Quando mi pregano,
No, non so fìngere
La crudeltà. (parte
SCENA 111.
Artimisia, poi Don Pacchione.
Del tuo tenero cuor ti pentirai.
In altri proverai4
La crudeltà che nel tuo sen non cova.
Fede, sincerità più non si trova.
Io che lo so, m’ingegno
Far quel che gli altri fanno,
E ad ogni ingannator pronto ho un inganno.
Godo che in questa villa
Vengano a divertirmi
Le congiunte, gli amici, e i spasimati;
Ma non avrei divertimento alcuno,
Senza farli arrabbiare ad uno ad uno.
Pacchione. Madama, sentirete
Questa mattina un piatto
Eccellente, esquisito.
Pacchione. Io, io colle mie mani;
Fattomi preparar pentole e fuoco,
Sono andato in cucina, e ho fatto il cuoco.
Un pezzo di vitello
Che ha tre dita di grasso,
Cotto con le tartufole e il presciutto:
Oh vita mia! me lo mangerei tutto.
Artimisia. Voi, signor don Pacchione,
Siete, per quel che sento, un bel mangione.
Pacchione. Può darsi in questo mondo,
Oltre quel del mangiar, gusto migliore?
Artimisia. Sì, può darsi.
Pacchione. Qual è?
Artimisia. Far all’amore.
Pacchione. L’amore è un bel piacere,
Non lo nego, lo so; godo star presso
D’una donna gentil, vezzosa, amena;
Ma mi piace di farlo a pancia piena.
Artimisia. Dunque invan mi lusingo,
Che per me sia venuto a favorirmi
Don Pacchione gentil. Per lui nel cuore,
Lo dirò con rossor, provo il martello,
Ed ei pensa al prosciutto ed al vitello?
Pacchione. Voi, madama, per me?...
Artimisia. Sì; cieco tanto
Siete per non vederlo? Ad una donna
Vedova, qual io son, non isconviene
Palesar l’amor suo, dir le sue pene.
Pacchione. Ma voi del cavaliere
Invaghita non siete?
Artimisia. Ah no; mi piace
In voi l’allegro viso,
Il pingue corpo e la robusta schiena.
Ma più di me v’alletterà una cena.
Che diceste dawer...
Artimisia. Ve l’assicuro.
(S’altro lume non hai, resti all’oscuro). (da sè
Pacchione. Dunque...
Artimisia. Dunque non resta
Che assicurarmi almen per mio decoro,
Che gradite il mio amor.
Pacchione. Ah sì, v’adoro.
Artimisia. Qual sicurtà mi date?
Pacchione. Chiedete e comandate.
Artimisia. Ecco, comando e chiedo
Che v’asteniate in faccia mia dall’uso
Di soverchio mangiar. Scarso alimento
All’amante bastar suol per usanza;
Sia l’amor vostro cibo, e la speranza.
Pacchione. Madama, io morirò.
Artimisia. Morir, piuttosto
Che all’amante spiacer, comanda amore.
Pacchione. (Quel prezioso vitel mi sta sul cuore). (da sè
Artimisia. Ben; che dite? Poss’io
Sperar nel vostro amor? Vile cotanto
Sarete voi di preferir la gola
Al piò tenero amor?
Pacchione. No, vi prometto...
Arder costantemente al vostro foco.
Artimisia. E giurate?
Pacchione. Che mai?
Artimisia. Di mangiar poco.
Pacchione. Cospetto!
Artimisia. Senza questo,
È inutile il giurar, vano è l’affetto.
Lo promettete voi?
Pacchione. Sì, lo prometto.
Artimisia. Poco alfine, signor, vi domandai.
Ventre mio, non v’è più festa;
Ti prepara a digiunar.
Oh che dura legge è questa,
Far l’amore, e non mangiar!
Quegli occhietti - vezzosetti
Ponno il cuore consolar.
Ma i capponi, - ma i piccioni,
Ventre mio, s’han da lasciar!
Far l’amore, e non mangiar! (parte
SCENA IV.
Artimisia, poi il Cavaliere.
Far patir l’appetito a un mangiatore,
Far che trionfi della gola amore.
Nulla di lui mi cal. Sol nel mio petto
Qualche tenero affetto
Pel cavalier di Roccaforte io sento.
Ma ho piacere anche a lui di dar tormento.
Eccolo, è allegro in viso. Signor no,
Non mi piace così. Se mi vuol bene,
Dee soffrire per me tormenti e pene.
Cavaliere. Idolo del cuor mio...
Artimisia. Che bella grazia!
Che parole affettate!
Idolo del cuor mio! Voi m’annoiate.
Cavaliere. Questa espression d’amore
M’è venuta dal cuore. Ah, lo sapete
Se il mio labbro è sincero,
Se v’adoro, mio ben...
Artimisia. No, non è vero.
Aria, tu che m’ascolti,
Terra, che mi sostieni,
Testimoni del ver della mia fè,
Alla tiranna amabile
Ditelo voi per me.
Artimisia. Marmi, che sordi siete,
Travi, che non vedete,
Quadri, che non parlate,
Collo spirto vital che in voi non è,
S’è un amante ridicolo.
Ditelo voi per me.
Cavaliere. Oimè, come cangiaste
In poche ore5, crudel, sensi e favella!
Siete voi Artimisia?
Artimisia. Sì, son quella.
Cavaliere. No, che quella non siete.
Uno spirto maligno,
Di quei che son per l’aria condannati,
D’atomi conglobati
Una spoglia fallace han colorita;
Un Silfo menzognero
D Artimisia le vesti usurpa e ingombra.
Artimisia non sei.
Artimisia. Chi sono?
Cavaliere. Un’ombra.
Artimisia. Menti; ma tu piuttosto
Uno spettro sarai; stammi discosto.
Un demone d’Averno,
Condensato il vapor di luogo immondo,
Sotto spoglia viril venuto è al mondo.
Che si nasconde in te veggo pur troppo
Farfarello ribaldo, o il diavol zoppo.
Cavaliere. Ah no; ben lo ravviso,
Una larva celarsi. I tuoi begli occhi
Col loro lume alterno
Spiran fuoco, egli è ver, ma non d’inferno.
Artimisia. E tu che nel mio seno
Il foco hai raffreddato
Uno spirto sarai freddo, agghiacciato.
Cavaliere. Madama, in confidenza,
Che novitade è questa?
Artimisia. Esaminate
Voi stesso, e lo saprete.
Cavaliere. Se esamino il cuor mio,
Colpa alcuna non ha.
Artimisia. (Lo credo anch’io), (da sè
Cavaliere. Ditemi, per pietà...
Artimisia. Voi non m’amate.
Cavaliere. Stelle! Per qual ragion dite voi questo?
Artimisia. Perchè un vero amator deve esser mesto.
Voi ridete con tutti,
Fate lo spiritoso,
Il bello ed il vezzoso:
Componete canzoni,
Promovete lo spasso e l’allegria.
Dee un amante affettar malinconia.
Non curo un galante,
Che a tutte fa il bello:
Il cuor dell’amante
Lo voglio per me.
I sguardi, gli accenti,
L’affetto, la fede,
Quel braccio, quel piede,
Quel labbro, quegli occhi,
Nessuno mi tocchi,
Li6 voglio per me.
Giochetti, - balletti
Non s’hanno da fare:
Vuò tutto per me. (parte
SCENA V.
Il Cavaliere, poi Erminia e Celindo.
Uno spirto brillante,
Un costume vivace
È pur quel che diletta, e quel che piace.
E Artimisia mi vuole
Mesto, tristo, languente, addolorato?
Oh di donna gentil gusto sguaiato!
Come è possibil mai,
Che un uom del mio costume,
Promotor de’ piaceri e dei diletti,
Trattenga il riso, e la mestizia affetti?
Farlo mi proverò.
Ma, cospetto di Bacco! io creperò.
Celindo. Cavaliere, di voi
Ora andavamo in traccia.
Cavaliere. Comandate.
Erminia. Perchè turbato in faccia?
Celindo. Qualche mal vi è accaduto?
Non vi ho mesto così mai più veduto.
Cavaliere. Nulla, nulla... pensavo...
A certi conti della mia famiglia.
(M’è venuta in pensiero
Cosa che mi può far mesto davvero). (da sè
Celindo. D’uopo abbiamo di voi. Poeta amico,
Sui vicini sponsali
D’uno stile bizzarro e inusitati.
Risponder si vorrebbe ai carmi suoi:
Ecco, amico, il perchè si vien da voi.
Cavaliere. Versi... versi... Son belli?
Erminia. Anzi bellissimi.
Cavaliere. Lasciate ch’io li veda.
(Artimisia non c’è). (da sè
Celindo. Eccoli.
Cavaliere. (Parmi
D’avere il fuoco addosso.
Leggerli non vorrei... Ma far nol posso). (da sè
Erminia. Ammirate lo stil.
Celindo. Stile che invero
Al Berni stesso in leggiadria non cede.
Cavaliere. Leggiamoli. (Artimisia ora non vede). (da sè
Se d‘un paio di nozze, Amor, sei vago...
Che bel verso! Mi piace.
SCENA VI.
Artimisia e detti.
Legge, e ride; sentiamo).
Cavaliere. Tendi l’arco fatale, (da sè
Che ferisce talor senza far male.
Oh benissimo detto!
Artimisia. (Ride, giubila7, e gode. Oh maladetto!) (da sè
Celindo. Seguite.
Cavaliere. Oh che piacer!
Erminia. Sentite il resto.
Cavaliere. Gusto non ebbi mai maggior di questo.
Amor, farai così...
Cavaliere. (Eccola qui). (da sè
Artimisia. Compatite se anch’io vengo, ed ascolto;
Veggo ridente in volto
Il cavalier vezzoso;
Qualche cosa sarà di portentoso.
Cavaliere. (Il rimprovero intendo). (da sè
Erminia. È un madrigale
Fatto per noi.
Celindo. Non ha in bellezza eguale.
Artimisia. E il cavalier gentile
Gode del vago stile, e brilla, e ride.
Me ne rallegro assai.
Cavaliere. (Costei m’uccide). (da sè
Artimisia. Via, leggete.
Cavaliere. Signora...
Amico, perdonate,
Leggere più non posso.
Artimisia. Eh, seguitate.
Ma se forse per me vi trattenete,
Se vi do soggezion, parto; leggete8.
Cavaliere. (Mi tormenta). (da sè
Celindo. Su via,
Seguite i versi. Or sentirete il buono.
Cavaliere. (Fra il diletto e il timor confuso io sono), (da sè
E partita; leggiamo.
Erminia. Da capo.
Cavaliere. Sì, da capo principiamo.
Se d’un paio di nozze. Amor, sei vago...
Eccola lì.
Celindo. Che avete?
Erminia. Leggere non volete?
Cavaliere. Sono fra il sì e il no.
(È partita Artimisia). (da sè) Io leggerò.
.
Non posso, mi vien male,
Non posso legger più.
L’arco d’Amor fatale
Ferisce, e non fa male.
Che stile! Che concetti!
Che versi benedetti!
Mi fanno giubilar.
Amor... colei mi vede.
Lo stral... colei mi sente.
Non posso seguitar. (parte
SCENA VII.
Erminia, Celindo ed Artimisia.
Erminia. Io non la so capir.
Artimisia. (Che bello spasso!
Che piacer, che diletto!) (da sè
Celindo. Vedeste il poveretto
Che parte delirando?
Erminia. Il cavaliere,
Non so dire perchè, non par più quello.
Artimisia. Nol sapete? il meschin perso ha il cervello.
Celindo. È pazzo il cavalier?
Artimisia. Nol sapevate? (a Celindo
Celindo. Mi dispiace per voi, perchè l’amate.
Artimisia. Ah Celindo, Celindo,
Non è vero ch’io l’ami. Anzi per questo
Il meschino delira.
Questo mio cuor sospira...
Basta, non vuò dir nulla.
Non vuò far disperar questa fanciulla.
Erminia. Come, signora zia?
Il Ciel vi benedica.
Vi son parente e amica.
Invidio il vostro ben, ma non usurpo
Uno sposo gentile ad una sposa.
(Ho piacere che sia di me gelosa), (da sè, e parte
SCENA VIII.
Erminia e Celindo.
Erminia. Ah traditore!
Io l’intendo, lo so; lo sa il mio cuore.
Celindo. Erminia, non è ver...
Erminia. Se ver non fosse,
Che all’ingrata mia zia serbaste affetto,
In faccia mia non ardirebbe anch’essa
Svelare il foco suo.
Celindo. Ma ve lo giuro,
Non l’intendo, non so...
Erminia. Taci, spergiuro.
Un labbro mendace,
Se parla, se giura,
Gl’inganni procura,
Rimorsi non ha.
Coperta da un velo9
La fè degli amanti;
Son tutti incostanti,
Non hanno pietà. (parte
SCENA IX.
Celindo, poi Don Ramerino.
Pastor ch’esser non sa morto o ferito,
Gli accenti del mio ben m’hanno stordito.
Ma d’Artimisia il labbro
Quai detti pronunciò? Mi ama ella dunque?
Ella aspira al mio loco, e la nipote
Non ha rossor di rendere infelice?
E sugli occhi di lei lo svela e dice?
Ramerino. Amico, non conviene
L’ore all’ozio donar. Di chi ci onora,
Le finezze gradir si mostra poco.
Celindo. Che volete da me?
Ramerino. V’invito al gioco.
Celindo. Deh, lasciatemi in pace.
Ramerino. Io non pretendo
Insidiarvi la borsa. Una partita
Sol, per divertimento,
Fino all’ora di pranzo.
Celindo. (Oh che tormento!) (da sè
Ramerino. Scegliete il gioco voi.
Celindo. Ma se vi dico...
Ramerino. Del tresette scoperto io sono amico.
Vi darò quattro punti...
Celindo. Ora non posso.
Ramerino. Che vi turba, Celindo? Ah, convien dire.
Se ricusate il bel piacer del gioco,
Che vi opprima il cordoglio, e non sia poco.
Celindo. Sì, l’affanno mi opprime. Erminia, oh Dio!
Dubita che di fede
A mancarle cominci, e non mi crede.
Ma per distrarre appunto
Da sì tristo pensiere
La mente sbigottita,
Meco fare dovreste una partita.
Celindo. Deh, per pietà...
Ramerino. Credetemi, che il gioco
Tutt’altro fa scordar. Quando seduto
Io sono al tavolier, mi scordo a un tratto
Degli affar, degli amici e de’ parenti:
E, quel ch’è meglio ancora,
Tutti i debiti miei mi scordo allora.
Celindo. Per me tutto fia vano;
Non ritrovo piacer, pace non trovo,
Se dell’idolo mio lo sdegno io provo.
Non l’inutile gioco,
Non le feste, i teatri, il ballo, il canto
Mi potrian consolar, s’io vivo in pianto.
Misero, senza il dolce
Conforto di speranza,
Misero, sol m’avanza10
L’affanno ed il dolor.
Perde la face il lume,
Se priva è d’alimento;
Come la face al vento,
Langue nel seno il cor. (parte
SCENA X.
Don Ramerino solo.
Sia piacer, sia tormento, o gelo, o foco,
Perfetta analogia serba col gioco.
Talor smania e delira.
Ora ride chi gioca, ed or sospira.
Cento disprezzi a un cuore
Compensa una finezza;
E una vincita sola
Lo sfortunato giocator consola.
Rimedio è dell’amore
Talor cambiare il foco;
Suol la sorte cambiar, chi cambia gioco.
E alfin consuma i giorni,
E alfin manda la casa in precipizio
L’incauto amante, e il giocator per vizio.
Un nobile affetto
Lo spirto serena.
Giocar per diletto
Si può senza pena.
In uno è difetto,
Nell’altro è virtù.
Febrifugo arcano,
Mortale veleno
La medica mano
Sa porgere al seno
Col semplice indiano
Che vien dal Perù. (parte
SCENA XI.
Gabinetto d'Artimisia con tavolino e sedie.
Artimisia sola.
A me sembra una viltà;
Il nocchier si stima allora
Che a contraria se ne va.
Quando gli altri dicon sì.
Chi mi vuole, io son così;
Chi non vuol, se n’anderà.
Elà, tosto si rechino (viene un Paggio
Due cioccolate a me. Del cavaliere
Cerchisi, e sappia ch’io lo bramo adesso.
Itene, e a don Pacchion dite lo stesso.
Misero don Pacchione!
L’ora del pranzo differir mi piace
Per vederlo languire, e il cavaliere,
Che solo in ozio non può star mezz’ora.
Nella camera mia passeggia ancora.
Eccoli tuttidue.
SCENA XII.
Il Cavaliere, Don Pacchione e detta'.
Vengo, madama, a’ cenni vostri.
Pacchione. Anch’io
Faccio per obbedirvi il dover mio.
Artimisia. Mesti vi veggo, e scoloriti in viso.
Qualche affanno improvviso
V’agita, vi conturba, e opprime il cuore?
In verità, signore, (al Cavaliere
Con tal malinconia,
Voi mi late una bella compagnia!
Cavaliere. Sol per darvi piacer...
Artimisia. Basta, non voglio
Sentire altra ragione.
Qual disgrazia è accaduta a don Pacchione?
Pacchione. Dirò... per me non parlo,
Che non curo mangiar; ma veramente
Quel vitel sì prezioso anderà a male.
Artimisia. Ecco il solito stil...
Pacchione. Per me non parlo.
Per me fatta non è quella pietanza,
Io mi pasco d’amore e di speranza.
Artimisia. Sentite? (al Cavaliere
Cavaliere. E poi direte
Che son io l’infedel che non v’adora.
Artimisia. Questa cosa finor non dissi ancora.
Cavaliere. Dunque, se del mio amor...
Artimisia. Tacete, lo peno
Nel vedervi penar, miseri entrambi.
L’ora in fatti del pranzo
Avanzando si va; mi disse il cuoco,
Che vi manca non poco a dar in tavola,
E affamata son io, come una diavola.
Qualche cosa si faccia almeno intanto.
Diciamo una canzone,
Stiamo un po’ in allegria,
Beviam la cioccolata in compagnia.
Pacchione. Sì, sì, la cioccolata
Darà un po’ di ristoro.
Cavaliere. Scemerà una canzone il mio martoro.
Artimisia. Eccola qui la canzonetta amena
Con musica e parole.
Ecco la cioccolata a chi ne vuole.
Pacchione. (Questa è per me). (da sè
Cavaliere. Porgete a me quel foglio.
Artimisia. Aspettate, che pria bevere io voglio.
Pacchione. (E quando me la dà?) (da sè
Cavaliere. Potrei frattanto
Darle una ripassata.
Pacchione. Si raffredda quell’altra cioccolata.
Artimisia. Ho finito. Tenete;
Su, bevetela presto, e voi cantate.
Pacchione. Signora, in verità...
Cavaliere. Se mi permete...
Artimisia. Quel ch’io dico si fa, nè si ripette11.
Bevete, se mi amate,
Non ci pensate su.
Per amor mio cantate.
Non aspettate più.
Pacchione. Ah pazienza! canterò.
Cavaliere. Per piacervi, io beverò.
Pacchione. Il misero augelletto
Vede chi mangia il miglio,
E nella gabbia stretto.
Canta, digiuno ancor.
Artimisia. Che vi par? non è bellina?
Cavaliere. Bella inver, ma canta male;
Se vi piace, io canterò.
Pacchione. Egli canti, io beverò.
Artimisia. Seguitate. Mi piacete.
Terminate, via bevete;
Che ambidue vi goderò.
Cavaliere. | a due | Che pazienza, che tormento! | |
Pacchione. | Questo gusto? Signor no. |
Pacchione. Muore di fame il lupo;
Vede mangiare, e freme...
Cavaliere. Ma gli manca sino il fiato.
Deh, lasciate...
Artimisia. Signor no.
Pacchione. Se l’amico s’è annoiato,
Quegli avanzi...
Artimisia. Signor no.
Io non ne posso più.
Artimisia. Muore di fame il lupo...
Io non ne posso più.
Cavaliere. Vede mangiare, e freme...
Pacchione. No, non ne posso più.
Artimisia. Dunque si canti insieme.
Cavaliere. | a tre | Cantisi dunque su. | |
Pacchione. | |||
Artimisia. |
Fame crudel tormenta;
Viva chi si contenta,
Viva chi gode ognor.
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Questo verso e il quarto ricordò il Goldoni scherzosamente in due commedie, nelle Donne di buon umore (vol. XVI, p. 256) e nella Guerra (vol. XVII, p. 408).
- ↑ Zatta: sento.
- ↑ Fenzo e Ghislandi: gradindo.
- ↑ Zatta: troverai.
- ↑ Nel testo: poch’ore.
- ↑ Fenzo e Ghislandi: lo.
- ↑ Fenzo e Ghislandi: giubbila; e più sotto: giubbilar.
- ↑ Forse Artimisia finge di ritirarsi.
- ↑ Così il testo. Forse è de correggere: Coperta è da un telo.
- ↑ Nel testo: m’avvanza.
- ↑ Ripette è stampato nell’ed. Ferzo, in grazia della rima. Intendi: nè si replica. L’ed. Zatta corregge: e non si omette.