Cristoforo Colombo (Correnti)/V

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Lettere autografe edite ed inedite di Cristoforo Colombo/Lettera di Cristoforo Colombo a Rafaele Saxis/Avvertenza IncludiIntestazione 22 gennaio 2014 100% Letteratura

IV Lettera di Cristoforo Colombo a Rafaele Saxis - Avvertenza
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V.


E forse, a questo punto, non parrà presuntuoso giudizio se io dirò che nè la storia, nè la filosofia valsero fin qui a degnamente ritrarci Colombo. Quest’esso è per avventura un privilegio degli uomini grandissimi, i quali belli di perpetua giovinezza, convivono colla umanità, e vengono, quasi dissi, sviluppandosi con lei, ed a lei proporzionandosi; talchè mai nemmeno la divinatrice poesia può fissare i contorni di quelle crescenti immagini. Perocchè più facile, come in tutt’altro proposito dice Vico, più facile è fare il vero che trovarlo: più facile creare Achille, che interpretare il suo divino imitatore, Alessandro. E direbbesi che le ombre degli uomini veramente grandi più giganteggino quanto più ad essi s’avvicini la fiaccola indagatrice: avendo essi vita immortale non nella nominanza,



[p. 43 modifica]ma nei pensieri, che da loro mossero, e nei benefizii che ci lasciarono, immortali. Perciò quanto più cresce la potenza, quanto più s’illumina la coscienza del genere umano, tanto più si vanno rischiarando nuove ed inesplorate profondità di queste anime profetiche; quasichè in esse ci si riveli visibilmente qualche cosa dell’infinito.

E così è di Colombo, di cui neppure la storia esterna mi par compiuta. Ben l’Humboldt seguì studiosamente i fili delle idee scientifiche, le quali in lui misero capo: ma questo non ci spiega, che la metà del miracolo. Bisogna penetrare nel segreto delle passioni, e della volontà dell’uomo, che con frase cavalleresca espresse questo pensiero romano: un gran cuore si mostra nelle cose grandi. Le idee politiche ed i sentimenti di Colombo non si potranno mai spiegare, nè comprendere, se non se ne studino le necessarie attinenze colla storia dei suoi tempi. E i suoi tempi sono difficili a raccontarsi, e più difficili a giudicarsi; e fin qui non hanno avuto alcun degno istorico. Appena testè il Prescott, vivente onere della letteratura americana, per amore, cred’io, di Colombo, condusse a fine la sua lodatissima istoria del Regno di Ferdinando e d’Isabella. Ma ancora ci manca affatto uno storico filosofo del XV secolo in Italia; e la storia del commercio, delle tradizioni, delle scienze italiane nel medio evo è tutta da rifare e in gran parte anche da scoprire. E già in questi ultimi tempi si vennero disotterrando e pubblicando nuovi materiali, principalmente nell’Archivio storico del Viesseux, ove ponno leggersi belle notizie intorno al commercio de’ Fiorentini e de’ Veneziani. Ma ancora rimangono neglette per entro la condannata congerie dei libri di scolastica, di astrologia, d’alchimia, molle preziose testimonianze della scienza de’ padri nostri; e studi lunghi, [p. 44 modifica]pazienti, coraggiosi e sprezzatori del comune disprezzo si richiederanno, prima di poter ricondurre alla verità questa parte di storia, ormai incallita negli errori. E forse a quest’uopo avrebbero potuto giovare i consigli scientifici, i quali provocavano la revisione delle memorie municipali. Al congresso di Genova, per esempio, dovemmo l’ottima memoria del Canale sui navigatori liguri, e la storia del Pagano sulle colonie genovesi in Grecia, e le biografie di Cristoforo Colombo scritte dal Reta e dal Sanguinetti, oltre alcune altre minori dissertazioni su varii punti della sua vita (sul ritratto di Cristoforo Colombo e i Minoriti). Al congresso Veneziano dovemmo le illustrazioni sul mappamondo di frate Mauro, su M. Polo, sugli Zeni, e sulla antica marineria veneta. Ottimi auspícii d’una storia generale d’Italia, se, colla polvere degli archivi municipali, non si riattacchi agli studiosi quel miserabile partilo delle invidie, di cui troppo indizi trovai leggendo anche i libri più recenti intorno a Colombo. I Toscani per esempio, che già tanta porzione hanno, e tanta ne usurpano, nelle glorie italiane, facilmente parteggiano pel Vespucci; e una gentile poetessa di Pisa per amor patrio piglia a cantare una menzogna, l’Amerigo scopritore del nuovo mondo: e un eruditissimo fiorentino, non valendo a dimostrare che al suo compaesano si debba la scoperta dell’America, vorrebbe che l’umanità se ne professasse debitrice piuttosto al caso, che al genio del genovese Colombo. Ma per contro troppo acerbamente forse si sdegnano i Genovesi e i loro scrittori si arrovellano perchè il pecorame, come essi dicono, de’ forestieri vada a sgretolar una casipula di Cogoleto, ove per tradizione longeva venerano i popoli la culla di Colombo: e Cogoleto è pure un villaggio lontano da Genova poche miglia. Alcuni scrittori lombardi si [p. 45 modifica]piacciono di rinfocolare il dubbio che forse Colombo o la sua famiglia venissero di Piacenza, e lo chiamano sangue lombardo; e ripetono che a Pavia ebbe la vita dell’intelletto, fremendone Spotorno e Sanguinetti, che accusano la malafede di Ferdinando figlio e biografo di Colombo, e la scorrezione dei manoscritti, che leggono Pavia in luogo di patria. E non fu da questi senili puntigli amareggiata un’opera generosa? Genova dopo tre secoli e mezzo consacra a Colombo un monumento espiatorio: ma ad alcuni parve cosa indegnissima, che quell’opera non fosse tutta allogata scultori genovesi; e invocarono la patria carità, e le avide virtù ad aizzare importune emulazioni: onde forse sorgeranno in Genova al Colombo due monumenti che, più del concorde rispetto all’uomo grande, attesteranno l’ostinazione d’inutili gare.

Deh! quando avrà fine codesta idolatria, anzi codesto feticismo delle nostre miserie? Perchè i botoli ringhiosi che custodiscono i brani delle vecchie e funeste memorie municipali, perchè non pensano invece quel che sarebbe avvenuto se le flotte che si stracciarono alla Meloria, a Cursola, a Chioggia, se gli eserciti che si osteggiarono sotto i Fortebraccio, gli Sforza, i Piccinini, il Carmagnola e il Colleoni, avessero obbedito ad un solo pensiero? Perchè quei che vengono a garrire sotto il monumento e presso la casa di Colombo, perchè non pensano quello che avrebbe potuto essere la generazione di Colombo, se con lui Cabotto e Andrea Doria e Prospero Colonna, e Giangiacomo Triulzi, e Giovanni dalle Bande Nere si fossero lasciati governare da un unico Senato, ove col senno veneto, creatore della statistica e della diplomazia, fossero venuti a concordi consigli Lorenzo de’ Medici, Gerolamo Savonarola, Giulio Della-Rovere, il Capponi, il Machiavelli, il Guicciardini? Perchè non [p. 46 modifica]pensano che questi uomini meravigliosi, parte morirono infami, parte inutilmente martiri e, quel che è più pauroso a dirsi, parte furono senza frutto, fortunati e potenti. V’erano allora in Italia — e chi no ’l vede? — v’erano nello stesso secolo le forze vive di Grecia, di Roma e di Cartagine. Eppure soltanto le belle arti crebbero e appassirono, come un fiore solitario, sulla tomba di quella età suicida.

E perciò appunto preferiamo le vite del Colombo scritte dagli stranieri ove non troviamo l’eco pettegolesco di que’ miserandi dissidii: fra le quali rimane ancora non superata quella del Washington Irving, sebbene mancandovi affatto il fondo e il contorno della pittura dei tempi, v’appaia isolata la figura del grande navigatore: piuttosto ritratto che istoria. E nel Washington Irving alcuna cosa rimane a desiderare anche rispetto al sentimento: perchè la vita di Colombo è un dramma così artisticamente aggruppato dalla Provvidenza, che richiederebbe colori più forti e più gravi. Se in Colombo non si avesse a guardare che la scoperta dell’America, la sua storia sarebbe finita col primo viaggio, anzi appena toccata la prima isola del nuovo mondo: perchè da quel punto fu sciolto il problema, e, come disse egli stesso, dappoi anche i sarti e i calzolai potevano andare alla scoperta. Ma Colombo non è solo una grande idea come Arnaldo, come Bacone. Egli è anche un grand’uomo e il vedere un uomo grande alle prese colla fortuna è — per dirla collo stoico Romano — uno spettacolo degno di Dio.

Fin presso ai 50 anni Colombo era rimasto un’idea: ei cominciò a vivere quando gli altri cominciano a morire. Il suo primo viaggio fu breve, avventurato, confidente, pieno di liete promesse, come la gioventù: egli trova un arcipelago accessibile e seminato d’isole [p. 47 modifica]innumerabili; un ciclo incantevole; primavera perpetua; vegetazione oltremodo lussureggiante; indizi d’oro e d’aromi, popoli disarmati, ospitali e mansueti. Perciò egli torna in Europa intuonando un inno di gloria. — «Questa è veramente grande e mirabil cosa, dic’egli — ed io volentieri reco le sue parole, poichè Colombo come Napoleone ebbe il dono del linguaggio poetico — quest’è grande e mirabil cosa, nè punto conveniente ai nostri meriti, ma sibbene alla santa fede cristiana.... Il Re e la Regina, e i loro felicissimi regni, e tutta cristianità, rendano grazie al nostro Signore e Salvatore per sì gran vittoria. Si celebrino processioni, e solenni officii divini, e di frondi si velino i festeggianti delubri. Esulti Cristo in terra, come esulta ne’ cieli, poichè si salveranno tante anime d’interi popoli che andavano perdute. E noi rallegriamoci e per l’esaltazione della nostra fede e per la prosperità delle cose temporali, di cui non la Spagna soltanto, ma tutti i popoli cristiani, e tutti i venturi secoli avranno parte».

E l’Europa lo accolse estatica di gioia; il popolo lo porta in trionfo da Cadice a Barcellona; i re affidano un potere sovrano alle sue mani fortunate; i dotti sentono che l’antichità è vinta, che nuovi tempi sono venuti. Nocchieri, missionarii, cavalieri, il fiore della corte e dell’esercito, fanno ressa per seguire il grande ammiraglio nel secondo viaggio; bisogna contenere, bisogna reprimere l’ardor generale.

Ma in ogni troppo viva speranza è pur sempre nascoso il germe fatale del disinganno. Nella seconda navigazione ricominciano le dure prove. Colombo dove aveva lasciata la prima colonia europea a raccoglier oro e a diffondere il cristianesimo, non trova che un mucchio di ruine insanguinate. Già i selvaggi hanno imparato che i loro ospiti celesti sono mortali; hanno [p. 48 modifica]imparato ad odiarli e a disprezzarli; hanno imparato (orribile cosa, ma pur troppo vera) hanno imparato dagli stessi cristiani a rinnegare la croce. La seconda colonia, Isabella, sorge faticosamente su una spiaggia insalubre. A questo punto comincia a svilupparsi l’intima, continua, invincibile contraddizione, che domina ed agita tutto questo gran dramma. Gli Hidalghi che lo avevano seguito, cercano oro e cavalleresche venture: i missionari vogliono battezzar neofiti, e punire eretici: re Ferdinando chiede tesori per le sue ambizioni europee. Colombo, che sente in sè la forza e il genio costruttivo d’un fondatore d’imperii. Colombo che scrivea a’ suoi, che ognuno è maestro a discomporre, ma a comporre pochi maestri si trovano, resiste e vince per un momento. Venuto tra popolazioni miti, deboli e viventi in fraterna comunione alle quali bisognava imporre la disciplina del lavoro; veggendosi in mezzo ad una natura ardente e potente, che bisognava domare, egli comprende che soltanto la fatica, l’esempio e la moderazione sono le armi d’una durevole conquista. E però frena l’impazienza sospettosa del clero, e costringe i cavalieri a lasciar la spada pei lavori agresti. Ma i cavalieri lavorarono fremendo, morirono di stento e di vergogna, e parvero vittime: ma i preti anatemizzarono la mollezza di Colombo verso i pagani, la sua durezza verso i cristiani: ma i selvaggi, liberi figli della natura, rifiutarono ogni servitù di lavoro. La guerra divenne perpetua necessità: una guerra di ferro e di fuoco contro turbe di selvaggi nudi e armati di canne; una guerra di pochissimi contro moltissimi, cui bisognava vincere col terrore, coll’orrore. Le popolazioni disperate fuggirono ai boschi, alle rupi inaccesse, si precipitarono verso una vita più selvaggia; gli Spagnuoli, perduto ogni pudore, ridussero ad una ferrea schiavitù coloro che non potevano contenere [p. 49 modifica]in una volontaria soggezione; inseguirono i fuggitivi coi mastini, e per giustificarsi dinanzi alla propria coscienza, negarono alle loro vittime il santo carattere d’uomo.

Indarno Colombo, maledetto dagli Indiani come oppressore, dai coloni come ciurmadore, tornò in Ispagna supplicando in abito da penitente, che gli si concedesse tempo e soccorso. Ognuno era impaziente ed incredulo. La pietosa Isabella gli chiedeva conto degli straziati Indiani; il Re lo pressava a restituire le spese anticipate nelle inutili spedizioni; la Spagna gridava vendetta al sangue de’ suoi brillanti Hidalghi morti zappando ad Haiti; niuno più voleva seguirlo, talchè ei dovè chiedere in grazia, che gli si concedesse d’arrolare i malfattori. A questo punto la mente di Colombo si turba, la serenità e la fiducia lo abbandonano; egli si irrita contro il destino, e se lo rende per ciò stesso più crudele. Le allucinazioni consolano e travìano la sua grand’anima inebbriata da tante amarezze; e mentre egli toccato il continente americano, sogna d’aver trovata la via al paradiso terrestre, la sua colonia è dilaniata dall’anarchia. Il disordine che la presenza dell’ammiraglio avrebbe dovuto frenare, è reso più insanabile per l’infernale natura degli uomini, che egli avea tratti incautamente dalle infami carceri, sperando di tramutarli in eroi. I destini precipitano: il Bodabilla, abbietto cortigiano, viene a liberarlo dall’ignobile lotta. Colombo in catene ricupera la sua pace e la sua grandezza: egli riposa con sublime mestizia nella sua caduta, non accusando, non difendendosi, come uomo che non si curi di vincere il tristo giuoco della vita; e a quelli che per compassione vorrebbero alleggerirlo dei ceppi: No, risponde, no: essi mi stanno bene; sono il premio de’ miei servigi, sono parte della mia corona; e verranno meco nel sepolcro.

[p. 50 modifica]Ma il dramma non è ancora finito; l’uomo prodigiosamente operoso può due volte tentare la vita. Uno sguardo, una lacrima pietosa della regina gli hanno fatto rinascer in cuore la gioventù. Egli parte una volta ancora per solcare mari ignoti: escluso da S. Domingo, dalla sua colonia primogenita, egli guarda più in là, immagina un altro campo di gloria, e si avventura a cercare uno stretto per cui gli sia concesso infine d’afferrare quest’India, che sembra sfuggirgli dinanzi. Ma nella sua quarta spedizione non sono gli uomini soltanto, che gli si attraversano: ma sì un ostacolo più grande, più fortunato, più impreveduto, l’America davvero, il vasto continente d’America colle sue rive scogliose, co’ suoi uragani equinoziali, colle sue innumere tribù campeggianti in mezzo a selve sconfinate. Egli tenta fondare sul lido di Veragua un’altra colonia; ma un popolo invincibile e sprezzatore della morte lo ricaccia al mare. Naufrago per un anno alla Giammaica, egli dispera di sè e dell’anima sua: e ormai a niun’altra cosa più aspira — se gli sia dato di rivedere i lidi di Europa — che di poter andarsene pellegrino a Roma e ad altri santuarii.

E tornò — e trovò morta la regina Isabella — vigile e inesorabile re Ferdinando — e languì oscuro fino alla morte, riclamando indarno gli onori pattuiti, deplorando le agonizzanti colonie, e imparando, che neppur i fortissimi fanno violenza alla fortissima delle cose — al tempo.

Questa tempra d’uomo sì intera e sì elastica; questa vita fortunosa, che in quattordici anni ricomincia due volte con sì vaste speranze, e finisce nobilmente e fortemente ad onta di sì amari disinganni; questa volontà incrollabile che si esalta fino a credersi magica e predestinata; non vi ricordano, o signori, un altr’uomo, un’altra fortuna, un’altra volontà? Anzi [p. 51 modifica]non vi fanno pensare al destino ironico che sembra aspettare al varco gli uomini grandi e che li precipita attraverso i loro trionfi, attraverso le loro istesse virtù, contro ostacoli invincibili, contro le seduzioni di Babilonia, contro la coscienza di Bruto, contro l’inverno di Mosca? Ma in Cristoforo Colombo questo sopratutto mi piace, che gli ostacoli vennero piuttosto dalla natura e dagli uomini, che dalle sue colpe, e quasi tutti furono ostacoli, ch’ei non poteva, neppur volendo, schivare. Davanti a queste lotte fatali la ragione si umilia, e la poesia consola de’ suoi canti gli inevitabili ed incolpevoli dolori.

E veramente la poesia idoleggiò sempre la robusta e pensosa figura del grande Ammiraglio: e forse lo stesso Torquato divisava di farne la sua Odissea quando salutò Colombo novello Tifi di poema degnissimo e di storia. Pure dei moltissimi che vi si provarono pochi meritano d’essere ricordati; e niuno riuscì pari all’argomento, non saprei se per la difficoltà di esso o per la rarità d’uomini che reggano alla difficilissima tra le prove dell’ingegno, come è a dirsi l’epopea. Nè qui è luogo che io cerchi se un poema epico può essere fabbricato ad arte; poichè a quelli che ribattessero spicciamente i miei dubbi citando l’Eneide, la Gerusalemme ed i Lusiadi non potrei rispondere senza lunghe distinzioni. Dirò solo che le storie poetiche nacquero spontanee quando i tempi le portavano e lo imitarle riuscì sempre difficilissimo, quando la storia ebbe presa altra forma più creduta e più naturale. Ma crescono le difficoltà, se il poeta invece di aver libero il campo della fantasia o di trasportarsi a tempi veramente epici, come fecero Virgilio ed il Tasso, voglia rimaneggiare a sua posta avvenimenti storici. Perchè tanto pare sacrilega l’immaginazione che viola la storia, quanto accettabile è [p. 52 modifica]quella che la interpreta e la compie, essendo l’immaginazione alle arti quello che alle scienze è l’ipotesi, la quale è rifiutata per illegittima, quando mutila i fatti o li violenta. Benchè tanto siasi detto e gridato, io credo che ancora non si comprenda davvero che poesia profonda non può stare senza verità, e l’epica poi cerca la verità suprema e l’intima armonia delle cose, verità ed armonia che il poeta non può inventare, e perciò non inettamente i Greci favoleggiavano che le Muse abitano i monti divini. Ben so d’alcuni che di queste sentenze si sdegnano e gridano: Venga il poeta e smentisca le profezie della critica! Ma già il poeta venne, e passò senza lasciarci un’epopea; venne Byron, venne Goethe vogliosi di tentare ogni forma dell’arte: ma all’epopea non pensarono: venne Walter-Scott e ci diè il romanzo storico che alcuni vorrebbero chiamare l’epopea in prosa. Ma non si creda; la quistione non è della forma, ma del fondo. Tra il romanzo di Walter-Scott e l’epopea d’Omero corre lo stesso divario che fra la tragedia d’Eschilo e il dramma di Dumas. Questo non va oltre il cerchio delle apparenze umane; l’altra vive in un’atmosfera divina, e quasi direi parla degli uomini per poter leggere in essi i segreti dell’Eterno.

Molti e grandi elementi di poesia risplendono intorno a Colombo: e se un’epopea fosse possibile ai dì nostri, niun argomento potrebbe anteporsi a questo. Ma sconforta l’esempio infelice di quelli che già lo tentarono, dei quali io qui ricorderò i meno oscuri. E primo il Ruscelli, notissimo poeta del XVII secolo: il quale pigliando la scoperta d’America come un terreno disoccupato, riempì una ventina di canti con battaglie, cavalieri erranti, amori e fattucchierie, e turbò la solenne quiete delle selve primitive e la semplicità delle infantili tribù del nuovo mondo col [p. 53 modifica]trambusto della sua macchina ariostesca. Assai più temperante andò madama Bocage, poetessa francese dello scorso secolo, di cui abbiamo tradotta la Colombiade per una squisita galanteria de’ nostri buoni Trasformati. Felice in questo poema è l’imitazione di Virgilio: gli avvenimenti non s’affollano, nè l’azione mai ristagna. Ma come interessarci ad un racconto che ad ogni tratto contraddice la Storia? Non con tre sottili caravelle compie Colombo il primo viaggio, ma venti navi lo seguono, e Cortez e Pizarro ed altri famosi che Colombo neppur conobbe, sono nell’armata. L’eroe, com’era da aspettarsi, s’innamora d’una bella selvaggia e una regina Caraiba s’innamora alla sua volta di lui; onde gelosie, fughe, guerre e tutta quanta la catastrofe, girando il perno dell’azione su questi amori; cosa appena perdonabile ad una poetessa.

Altri poeti fecero peggio, travestendo il Colombo da Achille o da Rinaldo e sempre trasportando in America l’Europa. Cosicchè il poema della poetessa francese è pur sempre rimasto il migliore perchè, se non altro, chiara, semplice e logica ne è la tessitura; e l’affetto non vi manca, benchè non vi si trovino nè il Colombo, nè i selvaggi, nè gli spagnuoli; ma solo una leggiadra fantasia che non può pigliar posto nè fra le grandi creazioni, nè fra le grandi interpretazioni poetiche.

Quel singolare ingegno del Tassoni, sin qui non degnamente giudicato, vide le gravi difficoltà che s’incontrano a voler innestare l’immaginazione sulla storia. Già fin da’ suoi tempi cinque o sei poeti volgari avevano storpiato il bel tema, togliendo a modello l’Iliade, o la Gerusalemme che è ancora l’Iliade. Il Tassoni, splendidissimo verseggiatore come ce lo attestano alcune parti veramente epiche della sua Secchia Rapita voleva tentare egli stesso la prova, e il nome d’Oceano, che diede al poema di cui ci lasciò sbozzato il primo canto basta a provarci la novità dei suoi pensieri [p. 54 modifica]Io vi recherò qui intero colle sue proprie parole il giudizio ch’ei faceva della difficoltà di un poema su Colombo; nelle quali vedrete prova di perspicacia notabile, degna di colui che con Traiano Boccalini e con Campanella inaugurava in Italia la letteratura politica, e che prima di Cartesio, prima di Perrault, esprimeva sì vivo il senso della superiorità dei moderni sugli antichi. Colombo, dic’egli, fu piuttosto gran prudente che gran guerriero; e insistere su una guerra dove gli avversari erano disarmati e vili è fare una Batracomiomachia, e dare al Colombo un grosso esercito è contro alla storia e contro l’arte. Ed anche negli amori è da usar parsimonia perchè le selvaggie erano brune ed ignude. . . . . però io mi ristringerei come fece Omero nell’Odissea a fortune di mare, a contrasti e macchine di demonii, e incontri di mostri, e incanti di maghi, a impeti di genti selvaggie, a discordie e ribellioni de’ suoi; e negli amori anderei molto cauto per non uscire dal vero; e fingerei piuttosto le Indiane innamorate dei nostri che i nostri di loro, come nella storia si legge d’Anacaona».

Lorenzo Costa, l’ultimo cantore di Colombo, sembra aver pesate a lungo tutte queste difficoltà, e le altre ancora che s’accrebbero coi tempi più freddi e più austeri. Però scelse a celebrare il massimo fatto dell’eroe, la scoperta; ristrinse l’azione al primo viaggio, e pose studio alla verità mantenendo nei termini della storia la severa figura del Colombo. Magnifica è la protasi e quasi di poema divino; la creazione, tutto il dogma cattolico, la caduta, la dispersione dei Noetici; poi la redenzione e la carità che ricongiunge le stirpi fraterne, e Colombo apostolo di Cristo al nuovo mondo. Queste grandi idee, che sembrano pensate dall’Alighieri e che sono conformi allo spirito stesso di Colombo, non hanno poi in seguito un degno [p. 55 modifica]riscontro, e il poema scade da tanta divinità sino a pigliare talvolta aspetto di cronica verseggiata. E perciò forse un argutissimo critico disse inutile codesta introduzione, la quale sembra il preludio di una cantica biblica. Ma nel processo quasichè non bastassero le idee divine, quasichè non fosse ricchissimo tema l’America, si sviò il Costa in molti episodii europei, lungamente descrivendo la guerra di Granata e la Alambra e le italiane sciagure. In mezzo a tanta cura di storica verità trovò pur luogo l’invenzione, e ciò che i nostri rettori chiamarono con sì reo e materiale vocabolo la macchina. L’invenzione sono gli amori di Diego figlio di Colombo con Azema bellissima selvaggia, figlia di un discendente di quel Tedisio Doria, che dugent’anni prima di Colombo si perdè tentando di varcare l’Atlantico. La macchina sono i sogni, le visioni, le profezie di Colombo; sono gli invasimenti, le controversie dei selvaggi. Il poema è dì otto canti, che l’autore latinamente chiama libri. Nei due primi Colombo non è ancora partito, nei due ultimi è già tornato; e questi poi non d’altro s’avvivano che delle feste, dei balli, delle giostre e delle accoglienze oneste e liete: il che parmi difetto gravissimo, non essendo siffatte accoglienze un momento importante nel dramma di Colombo. Nè potrebbe il poeta scusarsene coll’esempio dell’Iliade, perchè il rito funereo d’Ettore è la sepoltura di Troja. Questi due libri, colla descrizione minuta del viaggio di Colombo da Siviglia a Barcellona, colla miniatura dei cavalli, degli arredi, delle cerimonie cortigiane e delle caccie dei tori sono nute all’anima e fan parere il poema povero e vuoto. E invero poco pensò il Costa all’America ed agli Americani. E questa nuova razza d’uomini, che Colombo andò cercando per affratellarla all’antica, desta nel poeta poco meglio che ribrezzo e [p. 56 modifica]ce ne fa convulsa pittura comparandoli agli ossessi e chiamandoli sudditi d’inferno e improntati di uno stigma infame. Egli è per questo appunto che gli Spagnuoli li facevano sbranare dai mastini e li pendevano a rosolare a fuoco lento in file di tredici per memoria di Cristo e dei suoi apostoli.

Siffatto è il nuovo poema del Costa: in cui mirabile è la forma e la perizia di girare le frasi e la forza delle descrizioni, mirabilissimi lo stile e la lingua. E benchè ad altri sia sembrato, e forse sia vero, che troppo artificioso e rabescato di reminiscenze ed imitazioni si svolga il verso, pure tanto ne è il vigore e la nuova armonia, che io lo credo un paragone di quanto possa la lingua nostra: la quale come provò a questi dì d’essere velocissima e sguisciare ed armeggiare nelle finezze della satira, così con questo poema del Costa ci assicura d’aver conservata tutta la maestà, il numero e l’atletica musculatura della sua forte genitrice.

Ma se il poema del Costa cresce onore alle lettere italiane, l’inno dell’uman genere a Colombo aspetta però ancora un degno interprete. Un gran filosofo vivente ebbe a dire che la scoperta dell’America è un fatto poetico piuttosto esteriormente che nello spirito. Fors’ei però non si ricordava dell'eroica natura di Colombo, della sua splendida fantasia, dell’estasi divine che lo visitarono, della sventura che santificò le sue virtù, della fede che poetizzò i suoi dolori. Tre aspetti altamente poetici io veggo nella vita di Colombo: l’anima stessa del grand’uomo; l’urto delle due razze fra le quali egli stette indarno pacificatore e vittima; lo spettacolo della nuova natura che lo inebbriò d’un sì dolce e possente delirio. Ciascuno di questi aspetti può avere il suo poeta; e l’avrà quando una volta si abbandonino le antiche forme epiche [p. 57 modifica]legate a due difficoltà per noi insuperabili, quella di raccontare fantasticamente fatti di cui la storia ci ha serbato il processo verbale, e quell’altra di popolare il cielo con fredde immagini o di lasciarlo paurosamente deserto. A ciò s’aggiunga che gli avvenimenti della vita di Colombo son dispersi e divisi in tante epoche quanti sono i suoi viaggi; onde riesce quasi impossibile scegliere un unico fatto in cui si raccolgano tutte le fila di un dramma sì lungo e sì vario. Ancora è da notare che un fatto veramente epico deve essere come un monumento isolato in mezzo all’oscurità dei tempi; come un punto di fermata dello spirito umano, senza di che impossibile è trovare una vera conclusione. Ma invece nella storia di Colombo tutto principia e non v’ha cosa alcuna che abbia un fine: la storia dell’America assorbe la storia della scoperta, l’umanità assorbe l’eroe. Appena tentate fermarvi lo spirito si precipita verso le conseguenze grandissime d’ogni fatto che si accenni: nè potete odorare le rose che cingono la fronte della dolce Anacaona senza vedere sopraggiungere nella fantasia i mastini d’Ovando e il rogo infame su cui essa doveva espiare l’amore e l’ospitalità: nè potete parlare d’Haiti o di Cuba senza vedere dietro di essi i vasti imperi degli Azechi e degli Incas e le epiche carneficine e gli scheletri delle morte città obbliate nelle selve deserte, e i negri che alla schiavitù querula e moribonda fanno succedere una schiavitù paziente e forte, la quale aspetta da tre secoli l’ora della libertà o della vendetta.

A questo modo Colombo non ha altro degno riscontro che nella storia d’America e ne diviene sì grande che il quadro ordinario dell’epopea non basta a contenerlo.

Perciò Gioele Barlow, concittadino di Washington Irving e di Prescott, cantò insieme l’America e Colombo; il quale ebbe così il meritato privilegio [p. 58 modifica]d’ispirare le tre più belle opere della giovine letteratura degli Stati Uniti. Barlow, anima puritana, uomo d’istinti veramente epici, che cominciò la sua carriera militare combattendo sotto Washington e venne a finirla nella ritirata di Russia, immaginò di svolgere il dramma di Colombo sulle proporzioni della vita dell’uman genere. Nel suo poema, Espero, il genio custode dell’occidente scende a consolare Colombo prigioniero, e per fargli dimenticare l’ingratitudine dei contemporanei, gli mostra le gloriose conseguenze della sua scoperta. L’artificio è antico, ma il pensiero è grande e giusto, perchè niuna forza d’ingegno basterebbe mai, colla sola narrazione della vita di Colombo, a tutti farci comprendere i beneficii che ci portò la sua splendida idea e la sua fortunata ostinazione.

Ciò mi ammonisce che la materia a cui misi mano, ben si può abbandonare, ma non finire; nè mai fui tanto presuntuoso del mio ingegno che sperassi di stringere in poche pagine e rappresentare l’armonia dei vasti elementi e diversi, da cui pigliarono forza e grandezza la mente ed il cuore di Cristoforo Colombo. E se a dissuadermi dall’ambizione puerile di prendere sì gran tema quasi a sperimento d’eloquenza non fosse bastata l’angustia del tempo e la fretta degli studii, m’avrebbe umiliato e vinto la difficoltà di pur trascorrendo enumerare gli effetti che già partorì grandissimi e che prepara incommensurabili nell’avvenire la scoperta per cui è glorioso Colombo; del quale meritamente si potè dire che nè prima nè poi per tutti i tempi ebbe od avrà rivale. Imperocchè per la sua divina ispirazione nel pensare e nell’eseguire fu raddoppiata la terra e l’umanità; per lui potè l’astronomia sbrogliarsi dal caos delle incompiute apparenze, sciogliersi dalle pastoie delle antiche autorità e riporre in cielo il globo che noi abitiamo; per lui [p. 59 modifica]conoscemmo i segreti d’altre civiltà e fummo condotti a toccar quasi con mano i primordii degli umani consorzii che attraverso alle antiche storie già parevano favolosi; per lui, l’età moderna cominciò a sentirsi superiore all’antica, per lui fu quintuplicata la quantità dei metalli preziosi e rinsanguarono i commerci Europei emunti per lungo volger di secoli dal tributo che la gola e il lusso pagavano all’oriente: per lui fu preparato un suolo vergine ai pensieri nuovi che non ponno metter radice nel duro terreno d’Europa, ingombro da tante rovine e vigilato da tanti sospetti: per lui fu aperto alle profughe idee un asilo, che diventerà la patria dell’avvenire. Ben si è potuto disputare e si disputò se la scoperta dell’America sia stata per la Spagna e per gli Indiani un beneficio od una sventura; ma certo per l’umanità fu tale un avvenimento di cui si cominciano appena ora a intravvedere i risultati. Non dissi dunque a caso che non risplende ancora di tutti i suoi raggi la gloria di Colombo; destino dei pochi grandissimi, per amare e per ammirare i quali tutte le età trovano argomenti nuovi e diversi. Il mondo di Colombo non è ora più solo un nuovo mondo geografico; non è ora più, come il videro i padri nostri, una vasta catena di regioni popolate dalle colonie e dagli schiavi del vecchio mondo; non è più un campo di battaglia per le rivaleggianti nazioni europee, ma, giusta la recente parola di Polk, è un altro mondo politico che si muove liberamente e si sottrae all’equilibrio da cui è sorretto e incatenato immobilmente questo sfasciume di medio evo, che noi decoriamo col nome di moderna civiltà europea: ma è una razza nuova che, dopo tre secoli di soggezione e di educazione durissima, riacquista il possesso di sè medesima: ma sono i fiumi più grandi e più facilmente navigabili della terra, le spiaggie più [p. 60 modifica]portuose, la più ricca natura di suolo, la più felice temperie di clima; magnifico teatro invero preparato allo spettacolo delle sperate età migliori. Gran tempo è che la civiltà viaggia verso occidente come la nave avventurosa di Colombo; nè forse passeranno molti secoli che l’America, posta fra le due estremità tanto fra sè disformi del vecchio continente, signora di metà del commercio dell’India e della China, per diritto di vicinanza preponderante nelle isole australi, popolata da nazioni gigantesche come le sue fiumane e le sue cordigliere, avvivata da libere istituzioni, avrà il primato del mondo, e terrà la bilancia delle cinque parti della terra. Allora, come a nume tutelare, renderanno culto di riconoscenza a Colombo i popoli a cui egli trovò la patria; allora dal suo nome s’intitolerà forse una più felice êra della storia; allora forse guarderanno i poeti come un’altra misteriosa divinazione quella fantasia del gran navigatore, quando, toccate la prima volta le rive di Paria, al nuovo aspetto del cielo profondo, degli abissi trasparenti del mare, dell’insolita grandezza della natura, credette essersi avvicinato al paradiso: e allora quanto acerbo dolore rimorderà gli Italiani che a punizione d’aver costretto l’uomo grande a straniarsi, non hanno, e non avranno forse mai, in quel mondo dell’avvenire, un asilo per le loro sventure e per le loro speranze. Terribile lezione questa di Colombo che fuggendo la patria tumultante ed infelice, andò lungamente mendicando dagli stranieri il permesso di loro mostrare quell’orbe nascosto, di cui egli solo sentiva i segreti inviti: e poi ch’ebbe tenuta l’incredibile promessa, n’ebbe in premio le calunnie, i sospetti e il vilipendio che sembrano di necessità accompagnare l’uomo per cui non risponda una patria: ne trovò giustizia o pace neppur nel sepolcro, su cui stettero vergognoso e [p. 61 modifica]doloroso monumento le catene, e su cui l’ipocrisia di re Ferdinando scriveva una pubblica lode, che nel tempo stesso dal suo fisco faceva disonestamente contrastare. E chi avrebbe potuto prendere le parti di Cristoforo Colombo? Egli, tuttochè divenuto don Cristoval Colon ammiraglio dell’Oceano e vicerè delle Indie, era pur sempre uno straniero, un non si sa chi, venuto non si sa donde, uomo di fortuna. Porras, Oieda, Rolando, qual altro siasi pur minimo degli hidalghi, è sempre agli occhi di tutti più spagnuolo, più gentiluomo e più creduto del profetico trovatore di un mondo.

E sta bene. Sta bene che Colombo abbia smozzicato e imbarbarito indarno il suo bel nome poetico: sta bene che l’oro dell’America, scoperta da un italiano, abbia servito a crescer forze e vasti pensieri a Carlo di Gand, il gran vendicatore delle italiane stoltezze. Per questa via, benchè troppo tardi e spesso invano, imparano i popoli a non essere irriverenti e disattenti agli ingegni che loro concede Iddio; imparano gli uomini che niuno, neppure i fortissimi, ponno impunemente dividere il loro destino dal destino della patria, quand’anche essa sia turpemente e giustamente infelice.

Ma qualche meno acerba lezione vorremmo trarre da questa storia d’amore e di dolore. Omai compiuta è l’opera del grande ammiraglio: il mondo è tutto quanto scoperto, misurato, posseduto, diviso; e a noi non resta più luogo ove trasportare i profughi Penati. Condannati a vivere sulla tomba de’ nostri padri accettiamo la funesta condanna, senza dire con Giovanni da Empoli che siamo uno zero, senza giudicare le cose civili dal numero e alla misura, senza scordarci che nella Palestina e nella Grecia, due angoli del vecchio mondo, crebbe la doppia forza che ancor governa la civiltà. Costretti a cercare gli elementi della [p. 62 modifica]grandezza e della vita in un angusto campo, sforziamoci d’ingrandire l’anima nostra. Ci hanno detto: la terra è finita qui, tra il circolo storico di Vico, tra il circolo economico di Malthus, tra il circolo filosofico di Hume: il cristianesimo è imprigionato dentro questi tre dilemmi pagani, non procedete oltre. Ma l’età nostra, come l’età di Colombo è turbata da presentimenti e da desiderii che sono indizio e stimolo delle nascenti forze: anche i nostri cuori, come il cuore di Colombo, ripetono: la Provvidenza non può aver lasciato tanto spazio vuoto e deserto, tanti tempi senza consolazione e senza luce; e forse anche a noi come ai nocchieri del XV secolo sta innanzi un nuovo mondo; forse ci assediano d’ogni parte le facili verità, mentre noi ci lasciamo sviare da più lontane e più sterili promesse. Chi sa quante volte noi pure girammo disattentamente gli occhi sul vero che da gran tempo ci aspetta! Chi sa quante volte ci lasciammo cader di mente come inutile ingombro un’idea, che, fecondata dall’attenzione, poteva recarci inestimabili beneficii! Gran parte di genio è l’attenzione; e l’uomo che non vede se non quello che fu educato a vedere, se non quelle che le abitudini, il linguaggio, le tradizioni sociali gli ripetono e gli presentano d’ogni parte, non darà un passo mai verso l’avvenire. Più volte prima di Colombo l’Oceano avea tradito il suo segreto: a’ tempi di Cesare Augusto, a’ tempi del Barbarossa, a’ tempi di Sigismondo imperatore la tempesta aveva gettato sui lidi europei le fragili navicelle dei selvaggi. Poteva dunque varcarsi l’Atlantico; poteva rifarsi ad arte la via che le procelle avevano insegnato. Ma niuno vi pensò: e il mondo, rivelato già quasi dal caso, aspettò d’essere di nuovo scoperto dalla forza riflessiva e dalla pertinace volontà.