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roso monumento le catene, e su cui l’ipocrisia di re Ferdinando scriveva una pubblica lode, che nel tempo stesso dal suo fisco faceva disonestamente contrastare. E chi avrebbe potuto prendere le parti di Cristoforo Colombo? Egli, tuttochè divenuto don Cristoval Colon ammiraglio dell’Oceano e vicerè delle Indie, era pur sempre uno straniero, un non si sa chi, venuto non si sa donde, uomo di fortuna. Porras, Oieda, Rolando, qual altro siasi pur minimo degli hidalghi, è sempre agli occhi di tutti più spagnuolo, più gentiluomo e più creduto del profetico trovatore di un mondo.

E sta bene. Sta bene che Colombo abbia smozzicato e imbarbarito indarno il suo bel nome poetico: sta bene che l’oro dell’America, scoperta da un italiano, abbia servito a crescer forze e vasti pensieri a Carlo di Gand, il gran vendicatore delle italiane stoltezze. Per questa via, benchè troppo tardi e spesso invano, imparano i popoli a non essere irriverenti e disattenti agli ingegni che loro concede Iddio; imparano gli uomini che niuno, neppure i fortissimi, ponno impunemente dividere il loro destino dal destino della patria, quand’anche essa sia turpemente e giustamente infelice.

Ma qualche meno acerba lezione vorremmo trarre da questa storia d’amore e di dolore. Omai compiuta è l’opera del grande ammiraglio: il mondo è tutto quanto scoperto, misurato, posseduto, diviso; e a noi non resta più luogo ove trasportare i profughi Penati. Condannati a vivere sulla tomba de’ nostri padri accettiamo la funesta condanna, senza dire con Giovanni da Empoli che siamo uno zero, senza giudicare le cose civili dal numero e alla misura, senza scordarci che nella Palestina e nella Grecia, due angoli del vecchio mondo, crebbe la doppia forza che ancor governa la civiltà. Costretti a cercare gli elementi della