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pensano che questi uomini meravigliosi, parte morirono infami, parte inutilmente martiri e, quel che è più pauroso a dirsi, parte furono senza frutto, fortunati e potenti. V’erano allora in Italia — e chi no ’l vede? — v’erano nello stesso secolo le forze vive di Grecia, di Roma e di Cartagine. Eppure soltanto le belle arti crebbero e appassirono, come un fiore solitario, sulla tomba di quella età suicida.

E perciò appunto preferiamo le vite del Colombo scritte dagli stranieri ove non troviamo l’eco pettegolesco di que’ miserandi dissidii: fra le quali rimane ancora non superata quella del Washington Irving, sebbene mancandovi affatto il fondo e il contorno della pittura dei tempi, v’appaia isolata la figura del grande navigatore: piuttosto ritratto che istoria. E nel Washington Irving alcuna cosa rimane a desiderare anche rispetto al sentimento: perchè la vita di Colombo è un dramma così artisticamente aggruppato dalla Provvidenza, che richiederebbe colori più forti e più gravi. Se in Colombo non si avesse a guardare che la scoperta dell’America, la sua storia sarebbe finita col primo viaggio, anzi appena toccata la prima isola del nuovo mondo: perchè da quel punto fu sciolto il problema, e, come disse egli stesso, dappoi anche i sarti e i calzolai potevano andare alla scoperta. Ma Colombo non è solo una grande idea come Arnaldo, come Bacone. Egli è anche un grand’uomo e il vedere un uomo grande alle prese colla fortuna è — per dirla collo stoico Romano — uno spettacolo degno di Dio.

Fin presso ai 50 anni Colombo era rimasto un’idea: ei cominciò a vivere quando gli altri cominciano a morire. Il suo primo viaggio fu breve, avventurato, confidente, pieno di liete promesse, come la gioventù: egli trova un arcipelago accessibile e seminato d’isole