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riscontro, e il poema scade da tanta divinità sino a pigliare talvolta aspetto di cronica verseggiata. E perciò forse un argutissimo critico disse inutile codesta introduzione, la quale sembra il preludio di una cantica biblica. Ma nel processo quasichè non bastassero le idee divine, quasichè non fosse ricchissimo tema l’America, si sviò il Costa in molti episodii europei, lungamente descrivendo la guerra di Granata e la Alambra e le italiane sciagure. In mezzo a tanta cura di storica verità trovò pur luogo l’invenzione, e ciò che i nostri rettori chiamarono con sì reo e materiale vocabolo la macchina. L’invenzione sono gli amori di Diego figlio di Colombo con Azema bellissima selvaggia, figlia di un discendente di quel Tedisio Doria, che dugent’anni prima di Colombo si perdè tentando di varcare l’Atlantico. La macchina sono i sogni, le visioni, le profezie di Colombo; sono gli invasimenti, le controversie dei selvaggi. Il poema è dì otto canti, che l’autore latinamente chiama libri. Nei due primi Colombo non è ancora partito, nei due ultimi è già tornato; e questi poi non d’altro s’avvivano che delle feste, dei balli, delle giostre e delle accoglienze oneste e liete: il che parmi difetto gravissimo, non essendo siffatte accoglienze un momento importante nel dramma di Colombo. Nè potrebbe il poeta scusarsene coll’esempio dell’Iliade, perchè il rito funereo d’Ettore è la sepoltura di Troja. Questi due libri, colla descrizione minuta del viaggio di Colombo da Siviglia a Barcellona, colla miniatura dei cavalli, degli arredi, delle cerimonie cortigiane e delle caccie dei tori sono nute all’anima e fan parere il poema povero e vuoto. E invero poco pensò il Costa all’America ed agli Americani. E questa nuova razza d’uomini, che Colombo andò cercando per affratellarla all’antica, desta nel poeta poco meglio che ribrezzo e