Cristoforo Colombo (Correnti)
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CRISTOFORO COLOMBO
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Spesso, lettori, avrete voi pure pensato, maravigliando e dubitando, a quella contraddizione di giudizii singolarissima, per cui l’Italia talora è celebrata come maestra antica e naturale d’ogni civiltà, e talora compianta come immedicabilmente fantastica e destinata, per le blandizie del suo cielo, per la diversità de’ suoi popoli, e per la sua stessa disadatta giacitura, a lunghi ozii e a dissidj perpetui. E mentre v’ha chi ci grida stirpi dilombate ed anime svampate quasi sotto la sferza del sole meridionale, altri ci decreta pur tuttavia risolutamente l’universale primato, infeudatoci fin dai Pelasgi, dagli Etruschi e da Roma. E, a dir vero, la stessa provvidenza educatrice, con qual consiglio lo potranno forse argomentare i venturi, lasciò che su questa terra fatale si versasse luce più ardente, più varia e di più cieche tenebre avvicendata. Di che la tanta diversità dei giudizii e il trapassar facilmente dall’orgoglio alla viltà, anzi il congiungere le miserie dell’uno colle miserie dell’altra; e il rassegnarsi disprezzando, come di chi abbia vita immortale e non curi il tempo presente più che un’ombra fuggevole; e l’intricare ogni concetto con lungo strascico di memorie e con remotissime previsioni dell’avvenire. Codesto vacillamento di vasti e indeterminati pensieri toglie fermezza all’ingegno e nerbo alla volontà e ci fa andar curvi ed invecchiati sotto il peso delle famose ruine. E quando sento taluni, che non solo vorrebbero rivendicarci, come preziosa e vivente eredità, la superbia per cui Roma fu grande e odiata, ma che pur vanno ristuzzicando colla storia passioni e diseppellendo nomi di parte, su cui da cinque secoli pesa la maledizione dell’Alighieri e la condanna della seguace sciagura, m’addolora il dubbio, che i popoli per ringiovanire abbiano bisogno, come per le anime immaginava Pitagora, di bere il provvido oblio. — Ma poi m’assicura il pensare, che davanti alla storia vera si dissiperanno codeste storiche mitologie; le quali vorrebbero ricondurci, senza la scusa dell’inesperienza, alle illusioni per cui gli avi nostri credevansi solo popolo civile, e condannavano di barbarie la robusta, snella e semplice gioventù d’altre genti. E perchè codeste teorie, che, capo volgendo l’ordine della tradizione, sovrappongono il passato al presente, e codeste letargiche lusinghe di un’arcana predestinazione, le quali perturbano ogni ragione storica, di niun’altra cosa più volentieri si giovano, che della memoria degli uomini miracolosi, per rispetto ai quali l’Europa tiene ancora in qualche onore il nome italiano; è a desiderarsi che il culto de’ nostri genii si riduca a ragionevole ossequio, ed offra piuttosto esempi imitabili a tutti, che argomento di puerile e scoraggiata meraviglia o di misteriose speranze.
Certo intorno alla storia di sommi Italiani assai bene potrebbe ordinarsi la storia dell’italiana civiltà; e ne parrebbe forse più viva, più vera, più popolare; e nel cercare come e perchè ci crebbero que’ gloriosi, si risponderebbe assai opportunamente a chi vitupera la natura o gli uomini d’Italia; nel cercare come e perchè quasi tutti i nostri genii vissero infelici, profughi, irosi a’ loro tempi, pietosi indarno a’ tempi venturi, si assennerebbero coloro, che a far risorgere le glorie antiche, non temono tornare agli antichi errori. Fu destino d’Italia, che le sue glorie uscissero dalle sue sciagure: poichè quella strana complicazione d’opinioni e di forze, che nel medio evo l’aveva fatta riboccante di molteplice vita o infelicemente feconda di popoli diversi e sobbarcati alla mole di tutto l’edificio feudale e clericale della Cristianità, e sbranata dalle ambizioni, che altrove furono provvidamente unificatrici, e sviata ad ogni tratto da venerabili memorie, e assottigliata da intempestivi presentimenti, quella strana complicazione medesima, e le pressure dolorose che la accompagnarono, accesero le anime straordinarie, le quali si levarono su quelle età, come da tizzo tormentato per forza interna di fuoco e per forza esterna, che lo percuota, sprizzano roventi e impetuose le faville. Niuna nazione ebbe vita positiva più convulsa e confusa, niuna ebbe più libera e splendida la vita ideale. Lo sforzo vario e la lotta serrata di tante avverse attitudini non potendo spiegarsi nei fatti, si sviluppò ne’ grandi uomini, ciascuno de’ quali appar quasi una personificazione monumentale delle grandi idee, che nacquero tutte insieme, forti, armate, implacabili, e tutte si consunsero in una guerra mortale. Ma una gloriosa famiglia di esuli, di solitarii e di veggenti, uscendo dal tumulto delle feroci e pur troppo necessarie discordie, e purificando col pensiero quella ricchezza di passioni e d’energia, che nell’infanda lotta doveva profondersi indarno, vengono incontro all’avvenire a cercarvi la patria e la verità! E intorno ad essi, che furono la coscienza de’ loro tempi, naturalmente si ordina, meglio forse che intorno ai disgregati municipii ed alle instabili famiglie signorili, tutto il processo della storia italica; intorno ad essi rivivono le forti e irrequiete generazioni, che li educarono e li addolorarono; rivive quella lunga catena d’uomini oscuri, pei quali lo studio ebbe poche consolazioni d’onore, e che nondimeno durarono faticando, sperando e preparando, quasi con paterna compiacenza, le splendide vie al presentilo genio. Ond’è che la sua grandezza più non apparirà un isolato miracolo, e alla luce ch’egli diffonde scopriremo i beneficii e le glorie di quelle vite operose e segrete, che serbano la magnanimità anche nella modestia dell’ingegno e della fortuna. E forse avverrà, che i moltissimi i quali mai non pensarono, o già disperarono di ottener pregio di rara fama, piglino da ciò conforto agli alti desiderii e ai degni amori, pensando che solo alle generazioni magnanime concede Iddio d’operare i grandi falli e di produrre non indarno i grandi uomini.