Conchiglie/Un giorno di nozze
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Un giorno di nozze.
Quel mattino del 26 gennaio che doveva essere il giorno più bello della sua vita, Battista Poma aprendo la finestra alzò subito gli occhi al cielo per vedere se finalmente dopo un mese di pioggia e di nevischio il tempo volesse mettersi al sereno. Tra la sua finestra e il cielo non vi erano ostacoli, poiché centoquindici scalini ben contati lo avevano portato ad una altezza conveniente sopra i tetti circostanti, così che egli vide subito la fitta nuvolaglia grigia incombente ancora sulla città e che non prometteva nulla di buono quantunque per il momento non piovesse.
Ritirò il capo crollandolo con aria malcontenta e si pose a chiamare:
— Papà, dormi?
Dalla camera vicina venne per tutta risposta un brontolio indistinto il quale tuttavia fu sufficiente a Battista per fargli comprendere che anche suo padre si stava alzando.
— Ricordati, papà, di cambiare la camicia.
In seguito a questo mònito Battista si diede attorno a ricomporre la camera per far sparire le tracce della nottata. Il letto nuovo, i due cassettoni nuovi, i comodini, le quattro sedie, ogni cosa lucente per l’ultima vernice data dal falegname, faceva la sua discreta figura in quello scialbo mattino.
«Se ne avessi solamente pagata la metà!» pensava Battista infilando il suo abito nuovo che gli aveva portato via — 38 lire completo — ogni suo avere. Ma il falegname non era stato pagato per la stessa ragione che il calzolaio avanzava due paia di scarpe e il padrone di casa tre mesi di affitto.
— Maledetta la Russia! — mormorò Battista, dando un calcio nel muro, dietro il quale egli scorgeva probabilmente una figura che gli dava noia.
Nell’altra stanza dove dormiva il padre, e che serviva anche da cucina, il brontolio continuava or alto or basso accompagnato da uno strascicare di ciabatte e di sputi.
— Battista! — chiamò finalmente una voce soffocata a mezzo dal catarro.
— Cosa vuoi papà?
— Dove hai messo la spazzola?
— La spazzola!... — ripetè il giovinotto, affacciandosi sulla soglia dell’uscio con un fare smemorato. — Non c’è.
— Come non c’è?
— Quella vecchia è stata abbruciata ieri, ti ricordi? che non aveva più attaccato nemmeno un pelo e quella nuova, quella nuova...
— Ebbene?
— Anche quella nuova non c’è; è ancora in bottega. Non ho trovato posto per essa nelle spese, sai, furono tante!
— Naturale quando si incomincia dalle carrozze!
Mancò poco che un impeto d’ira strozzasse il vecchio, il quale si fermò dall’altra parte della soglia a liberarsi del suo catarro, finchè sfiatato ed ansimante non ebbe soggiunto:
— A’ miei tempi si aveva meno fumo, ma una spazzola in casa perdinci l’ho sempre trovata. Non potrà dire altrettanto la signora sposa che arriva in carrozza.
Questa della carrozza era l’incubo del vecchio. Gli sembrava già una follia la risoluzione presa dal suo figliolo di ammogliarsi proprio in un momento in cui si trovava senza posto fisso, pieno di debiti, che non aveva nemmeno potuto pagare il letto e s’erano dovute cucire insieme due trapunte logore perchè quelle a credenza non le avevano volute dare, e come non bastasse eccoti il puntiglio della sposa, della mamma della sposa e delle amiche della sposa di esigere le carrozze ad ogni costo. Si può forse andare in municipio senza carrozza? aveva gridato la madre che faceva la lavandaia di colore e che stendendo i panni sopra un certo terrazzino sotto cui sfilavano le carrozze degli sposi che vanno a compiere il voto alla Madonna di S. Celso si era giurata che anche sua figlia sarebbe passata di là. La Tina forse forse poichè in fondo voleva bene al suo Battista non avrebbe sofisticato tanto, ma le amiche facendo coro alla mamma non mancarono di gridare che a piedi non si sposano oramai altro che i cani, che sarebbe stato un disonore e tale che tutti i vicini non potevano a meno di mormorarne.
— Non si usa più! — aveva decretato per finirla la mamma Francesca rizzandosi sulla sua persona lunga lunga di pertica nodosa.
— E quando non vi sono denari?! — aveva risposto il vecchio catarroso. Egli non dimenticherebbe certo mai più lo sguardo altezzoso di mamma Francesca e la risposta:
— Denari ve ne sono sempre.
A questo modo, lasciando intatti tutti i debiti, colla casa vuota, le coperte posticcie, ragranellati fin gli ultimi soldi messi da parte in un berretto da notte del vecchio e ceduti con lunga battaglia, le carrozze erano state noleggiate per gli sposi e per gli invitati.
Adesso Battista era pronto, col suo completo color avana e una cravatta verde tenero. Si guardò prima nell’uno poi nell’altro dei due specchi che sormontavano i cassettoni senza ritrarne un giudizio rassicurante. Cacciò a buon conto tutte e due le mani nei capelli sollevandoli dietro le tempia come piacevano alla Tina e mise fuori un sospiro che si sarebbe potuto interpretare in diversi modi. Dalla cucina intanto veniva un tramestio di pignatte e di scodelle.
— Cosa fai, papà?
— Cerco se fosse possibile di far scaldare un po’ di broda.
Battista andò in cucina e si intenerì vedendo il povero vecchio curvo sul focolare. Aiutarlo non poteva per non sciupare l’abito nuovo ma gli disse:
— Ora non ti seccherai più in codeste faccende. La Tina accenderà lei il fuoco, preparerà lei la zuppa e tu sarai servito come un re.
Il vecchio non si voltò nemmeno continuando a racimolare fascelli sotto la cenere, ma in quella positura tossiva più che mai e si vedeva la sua schiena alzarsi e abbassarsi come un mantice.
Battista tacque un poco e poi disse:
— Vado dal Rico.
— Rhum... rhum! — grugnì il vecchio.
⁂
Strada facendo, fosse effetto del tempo sempre grigio o della visione esatta del pericolo che sembra rivelarsi a certe nature impressionabili allora appunto più nitida quanto più è irrevocabile, il pensiero di Battista si andava coprendo di nuvoloni.
Era ben vero che da tanti anni amoreggiava colla Tina, avendo incominciato quando tutti e due andavano a gettar sassi contro i castani del bastione, e che la gente parlava e che un momento o l’altro bisognava finirla. Ma perchè l’ultima volta che egli era a posto da un fornaio galantuomo dove si trovava tanto bene, perchè fu richiesto di un lavoro straordinario, per piacere e dietro compenso, il Rico gli aveva dato quel brutto consiglio di ribellarsi? I padroni possono essere buoni e possono essere cattivi ma sono uomini alla fine, e se non piace all’operaio di farsi schiacciare è naturale che non piaccia nemmeno a loro. Senza il consiglio del Rico egli non si sarebbe mosso dal suo posto, e qualche debito di meno ci sarebbe, se non pure qualche risparmio. Così, gira di qua gira di là, cattiva lavandaia non trova mai buona pietra. Ouff!
Il Rico, lui, poichè mangiava il pane del governo con una gamba sopra l’altra nell’anticamera del Demanio, lui, sì, poteva permettersi il lusso di parlar male del prossimo, capo primo de’ suoi principali diretti e di tutti i principali in genere, ma un fornaio lo deve fare il pane, questo innanzi tutto!
Giunto al palazzo del Demanio trovò il Rico proprio come se lo era immaginato, seduto davanti ad un tavolino con una gamba sopra l’altra, il piede destro dondolante nel vuoto, il piede sinistro appoggiato contro un piano di legno inclinato messo là apposta per proteggerlo contro l’umidità del suolo. Leggeva un giornale disteso tutto sul tavolino e tenendo ambedue le mani in tasca si dondolava sull’asse della propria persona quasi accompagnando il ritmo del periodo; e rideva in pelle in pelle sprigionando dagli occhi un ventaglio di grinze col gusto di uno che assapora il più saporito manicaretto.
— Rivoluzione! Rivoluzione! — esclamò appena vide apparire la mite faccia melanconica del Battista.
Ma Battista, assorto nei suoi pensieri, diede al giornale un’occhiata indifferente e disse a bassa voce:
— È per oggi.
— Benone! — fece il Rico battendo il pugno davanti a sè.
Poi stettero tutti e due un momento a guardarsi, il Rico colla faccia ancora accesa di una fiamma malvagia, l’altro imbarazzato e quasi intimidito dall’attitudine spavalda dell’amico. Disse finalmente tanto per dire qualche cosa.
— Fa molto caldo qui.
— Sicuro che fa caldo! Ci vogliono far crepare coi loro caloriferi. I capi, nei loro gabinetti, hanno le valvole da aprire e chiudere a piacer loro, ma noi siamo trattati al pari delle bestie. Farci crepare vogliono. Oh! ma vedremo chi creperà prima!
— Forse — suggerì ingenuamente il Battista — si potrebbe aprire una finestra?...
Per tutta risposta il Rico crollò le spalle con una espressione che significava chiaro: Sei un grande asino. E tornò a cacciare il naso sul suo giornale.
Trascorso qualche altro minuto Battista si fece animo a interrompere la lettura dell’amico.
— È per le tre. Verrai?
— Naturalmente, se l’ho promesso!
— Temevo che non fossi libero.
— Vorrei vedere! Vorrei vedere! Tutti siamo liberi, capisci? Chi può comandare all’uomo libero?
— Credevo... credevo.
— Asino.
Battista abituato al linguaggio del compare, non fece caso neppure di questo secondo: asino. È il suo carattere — pensava — ognuno abbiamo i nostri difetti. Anzi, per non irritarlo maggiormente, con tono conciliativo, soggiunse:
— Si potrebbe entrare un momento dal signor ragioniere Brambilla?
— Che?!
— Domando se è permesso, se non disturberei a entrare un momento dal signor Cesarino Brambilla.
— Tu conosci questa gente adesso? Ti fai amico dei signori? Ih! Ih! Non me lo sarei mai immaginato.
— È da quando sono nato che conosco il signor Cesarino. Siamo dello stesso paese.
— Buon pro’ ti faccia.
— È tanto una brava persona.
— Ih! Ih!
— Gentile colla povera gente.
— Ih! Ih! Zampe di velluto e artigli di ferro, come i gatti.
— No, Rico, ti assicuro. Egli ha fatto del bene alla mia famiglia quando si trovava in condizioni diverse, povero signor Cesarino! Chi avrebbe immaginato che si sarebbe ridotto a fare l’impiegato... È da poco tempo che lo so.
— Sta a vedere che lo compiangi adesso perchè ha una poltrona sotto al sedere e una valvola da aprire e chiudere a suo piacimento. Lavoriamo noi, lavori anche lui. È forse fatto di un’altra pasta questo signore? Per me non lo posso soffrire; deve essere aristocratico come un accidente con tutte le sue smorfie di graziosità.
Battista che aveva l’abitudine di cedere, specialmente col Rico, non credette opportuno di continuare il panegirico del signor Brambilla e si accontentò di ripetere:
— Posso entrare? Avrei una parola da dirgli.
— Si accomodi — disse il Rico balzando in piedi ed aprendogli un uscio con cerimonia canzonatoria. — Il signor ragioniere riceve tutti.
⁂
Nella stanzetta piccola e piuttosto scura, piena di polvere e di odore di carte un uomo dai quaranta ai quarantacinque anni stava intento a scartabellar fogli sotto la luce dell’unica finestra. Era mingherlino, vestito di nero con una sopramanica di tela sul braccio destro. Il suo volto dalla tinta giallina dell’avorio vecchio aveva la secchezza ascetica di certi fraticelli scolpiti nel legno. Con una mano pallida, quasi femminile, voltava i fogli di carta bollata che non scricchiolavano neppure al suo contatto come fossero carte veline preposte alle miniature di un messale antico.
— Desidera?... — domandò sollevando gli occhi un po’ stanchi dalle palpebre arrossate.
Ma appena Battista ebbe esclamato: Non mi riconosce signor Cesarino? egli soggiunse subito con accento cordiale:
— Oh! Battista, che buon vento. Come stai?
— Mi riconosce! — esclamò Battista commosso — Sa che sono molti anni che non ci vediamo? Forse sette od otto. L’ho saputo da pochi giorni appena che anche lei si trovava a Milano.
— Da due anni.
— Già da due anni e non ci siamo mai incontrati!... Ma! è così grande questa città.
— Più grande di Zogno, non è vero? — disse il signor Cesarino con un sorriso melanconico.
— Oh! bei tempi passati!
— Cosa fai a Milano?
— Dovrei fare il fornaio, che è sempre stato il mestiere della mia famiglia; ma un po’ gli scioperi, un po’ una storia un po’ l’altra sono a spasso la metà dell’anno.
Egli non volle confessare al signor Brambilla di aver perduto un buon posto per colpa sua, a mezza responsabilità col Rico.
— E tuo padre?
— Vive con me; non potevo lasciarlo a Zogno solo, nevvero? Egli fa qualche piccolo servizio presso un droghiere e in fondo è ancora lui che tiene in piedi la baracca. Era forse meglio che non ci fossimo mossi dal nostro paese, ma come si fa? Tutti dicevano: andate a Milano che è mar grande. Sembrava, a udirli, che qui ci fossero le strade lastricate di salsiccia, ma oramai siamo in troppi anche qui e ci diamo i gomiti nelle costole.
— E dunque? — fece il signor Brambilla con una voce fioca nella quale parve ripassare la stanchezza di lotte anche troppo conosciute.
Quella interrogazione così semplice, così naturale sconcertò tuttavia il buon Battista. Egli sì era messo oramai per uno sdrucciolo nel quale era difficile trovare una uscita comoda per annunciare il suo matrimonio; ma poichè era appunto questa la ragione che lo conduceva dal signor Brambilla, dovette dirla alla fine, non senza una interna vergogna che gli rimetteva sotto gli occhi più grave che mai la sua imprevidenza.
Infatti, Cesarino Brambilla, col volto inondato da un rossore improvviso che non si capiva bene perchè gli fosse venuto ma che cedette subito ad una pallidezza anche più cerea dell’usato, esclamò:
— Prender moglie in simili condizioni! Battista, hai riflettuto bene?
Battista voltava e rivoltava il suo cappello nelle mani. Lo sapeva anche lui di fare un passo falso, ma vi era trascinato ineluttabilmente dalla sua debolezza, dall’esempio, dalla contagione di spiriti ribelli cui non soverchiava alcun ideale di resistenza e di sacrificio. Rispose a bassa voce:
— È tanto tempo che ci amiamo.
La fiamma ricomparve sulla fronte del signor Cesarino, sulla fronte solamente, mentre stringeva le labbra con una contrazione spasmodica.
— Ti auguro... ti auguro... di essere felice.
Nel silenzio che seguì, gli sguardi dei due uomini caddero sul rettangolo della finestra velato da vetri sporchi al di là dei quali il nevischio ricominciava a scendere, uggioso e freddo. Vedevano forse entrambi la loro valle lontana e le lontane primavere tra le siepi di nocciole.
Facendosi coraggio, Battista cacciò la mano nella tasca e ne trasse un involtino.
— Se permette...
— Che cosa? — fece Cesarino Brambilla trasalendo come uno destato improvvisamente da un sogno.
— È un’usanza del nostro paese... i confetti, sa; dovrebbe darglieli la sposa, ma la mia Tina non la conosce e se permette... scusi la libertà... in memoria dei benefici ricevuti.
Le dita pallide del ragioniere si alzarono a tergere alcune stille di sudore apparse alla radice dei capelli e veramente singolari in quella stagione.
— Grazie... ti sei voluto disturbare... non occorreva. Grazie.
— Mio dovere.
— No, no, che dovere! se abbiamo fatto qualche cosa una volta...
— Tanto, tanto hanno fatto, lei e la sua famiglia e la mia riconoscenza sarà eterna.
— Egli è che...
Le dita pallide, dalla fronte erano scese sul panciotto ed erravano tremebonde intorno al taschino, poi fuggirono presso un ripostiglio più interno e sostarono indecise palpando la fodera. Con uno sforzo che gli alterava la voce dandogli un suono di trombetta scordata, il signor Cesarino si fece a sua volta un gran coraggio sporgendo la mano che era riuscita ad afferrare gli ultimi spiccioli della mesata e balbettando:
— Vorrei fare di più ma i tempi sono cambiati... sai...
— Oh! signor Cesare che dice! — esclamò Battista colpito da una luce improvvisa, quasi mortificato per l’imbarazzo in cui vedeva il suo antico signore.
Ringraziò con effusione e con tristezza insieme.
— Salutami la tua sposa e, di nuovo, auguri! — interruppe il signor Cesarino tentando di sorridere, ma non riuscendo che ad una smorfia intorno alla quale si accese per la terza volta una vampata di rossore.
Sulla soglia i due poveri si strinsero la mano.
Cesare Brambilla chiamato ad honorem ragioniere, impiegato a mille e seicento, quando il suo compaesano si fu allontanato rimase per un pezzo colla mano inerte sui fogli di carta bollata. Il vuoto della sua tasca, assoluto oramai in seguito al dono che aveva dovuto fare al Battista, ma sopratutto la causa stessa del dono lo inducevano a malinconiche riflessioni.
Ecco dunque che Battista a ventidue, ventitre anni — non poteva averne di più — garzone fornaio a spasso — lo aveva detto lui — moveva leggero verso il matrimonio. È tanto tempo che ci amiamo! — aveva detto ancora lui...
Cesare Brambilla reclinò la testa. Tutto il suo passato gli riapparve dinanzi incominciando dalla fiorente casa di Zogno dove era nato fra le agiatezze e i sorrisi della vita; agiatezze e sorrisi che sparvero a poco a poco nella stessa guisa di vedute dissolventi, ma dei quali ricordava con intensità di impressione il bel portico soleggiato aperto ai suoi giuochi infantili mentre riparata da una tenda di rigatino azzurro la giovane madre lavorava sorvegliandolo. Oh! bello Zogno! Ricordava la lunga scalinata che adduce al tempio, e il tempio stesso, e le vie salienti sul dorso della collina e i verdi boschi d’abetine e di faggi.
Ma un garofano, un grosso garofano morellone sporgente de un muro, quello era il ricordo dei ricordi. Quanti passi, quanti sguardi, quanti sospiri!...
Tanto tempo che ci amiamo — aveva detto Battista per giustificarsi, — ma poteva essere questo tempo più di cinque, sei, sette anni? E lui invece?... Dio! Dio! Pensare che i suoi capelli erano così neri allora ed i suoi occhi così pieni di fuoco. Quanti anni erano dunque passati? Tutta la vita, ecco, la vita gagliarda dai venti ai quaranta trascorsa a sperare, a desiderare, a tacere. In qual modo avrebbe potuto pensare a prender moglie se la sua famiglia cadendo in isfacelo lo aveva lasciato debole e solo a lottare contro il bisogno? Nella età più fervida del desiderio amoroso egli aveva avuto debiti da pagare, una povera vecchia da mantenere, cause, liti, brighe di ogni genere. Ed era delicato, era timido; la scarsa salute non gli aveva concesso di terminare gli studi. Ottanta lire al mese furono il suo primo stipendio. Ma non poteva vestirsi di fustagno lui; non lo avrebbero accettato in nessun posto. Furono lotte continue, umiliazioni, privazioni, oh! privazioni inaudite che andavano dalle rinuncie spirituali alle più crude mancanze fisiche. E il peggio?... vedere una cara persona deperire d’anno in anno, un caro volto invecchiare, perdere le fragranti rose, ingiallire a poco a poco e non poter far nulla!... Non poter sollevare l’amata sulle sue braccia, sul suo cuore! Non poterla rapire al destino! Non poterle dire: sei mia! — mai mia, neppure una volta!...
Ne erano sbocciate delle primavere fresche, aulenti, facendogli correre nelle vene brividi di vita che egli aveva dovuto respingere come tentazioni. Al qual pro’ accoglierle? Se non poteva, se non poteva affrontare gli impegni di una famiglia nuova! Mille volte si era messo a far conti, ad allineare cifre, a tracciare progetti, a fabbricare castelli in aria, ma tutto inutilmente. Tirate le somme gli cascavano le braccia. Non poteva! Non poteva!
Povero signor Cesarino! Il sacchetto di raso lilla contenente i confetti del Battista gli stava davanti sullo scrittoio rinnovandogli la memoria di tutti i suoi dolori. Quello lì lo aveva il cuor leggero. Egli non aveva pensato nè tanto nè quanto all’avvenire. Per i debiti non si va più in prigione; per malattie, disgrazie, vecchiaia, abbandono, morti, seppellimenti, la carità ha provveduto; per i figliuoli meglio ancora poichè dal momento che nascono trovano baliatico, asili, scuole, sottoscuole, refezioni, vesti. Dunque!... A questo proposito si ricordò le cinquantamila lire che una sua congiunta aveva lasciato a scopo di beneficenza per i figli dei poveri e non potè a men dal fare qualche amara riflessione sui figli propri che per mancanza di denaro non sarebbero mai neppur nati.
La caduta rumorosa del fascicolo d’ufficio sul nudo suolo lo ricondusse alla materialità del suo còmpito. Raccattò i fogli sparsi, li ricongiunse, tornò a passare e ripassare sopra di essi la sua mano pallida di anemico e le ore consuete trascorsero nello studiolo angusto finchè la luce venne meno dietro la finestra dai vetri sporchi.
Allora il signor Cesarino si alzò, terse la penna con diligenza, con diligenza piegò i fogli e levatasi la sopramanica di tela la ripose accuratamente in un cassetto della scrivania. Poi tornò a ravvolgere nella carta il sacchetto di raso lilla e lo mise a giacere nella medesima tasca dove prima c’era il suo ultimo biglietto da cinque. Questo atto lo compì sospirando, con un pensiero inquieto per certe scarpe di gomma ch’egli vagheggiava da un pezzo a sollievo delle frequenti infreddature e che per quella improvvisa sottrazione minacciavano di ritornare per qualche tempo ancora nel mondo delle ipotesi. Staccò dall’attaccapanni il suo cappello e il suo cappotto, diede un’occhiata ingiro e adattandosi le maniche del cappotto con un movimento concentrico di tutte e due le braccia verso il petto uscì serio, meditabondo, con quell’aria stanca e distratta che il Rico chiamava aristocratica. Rico però questa volta non lo vide, avendo già abbandonato il suo posto in anticamera per andare a far da testimonio allo sposalizio di Battista.
Il signor Cesarino si avviò solo solo nel dedalo di strade grigie coperte di fanghiglia che dovevano condurlo al suo secondo lavoro. Poichè le mille e seicento lire dello stipendio coprivano appena le spese di vitto, alloggio, lavatura, abiti, e di quei benedetti fosfati che costavano un occhio e dei quali aveva tanto bisogno, gli aveva detto il medico, per reggere alla fatica (non poteva, lui, farseli dare gratis alle ambulanze), si era assunto in onta alla legge delle otto ore un secondo ufficio presso una casa di commercio che lo aiutava ad arrivare a fin d’anno senza debiti. Era un lavoro noioso, meticoloso, fatto alla luce del gas che gli faceva bruciare le palpebre e del quale usciva a sera inoltrata, sfiaccolato e senza appetito per andare a mangiare un boccone e poi buttarsi a letto. Sì in letto, subito, perchè a girare per la città correva rischio d’imbattersi coi colleghi d’ufficio più di lui vogliosi di godersi una bibita al caffè o un posticino in piedi al teatro.
Il signor Cesarino invece, sotto il duplice peso delle sue incombenze, se riusciva a salvare qualche liretta al mese la metteva da parte con una speranza così vaga, così vaga che non poteva quasi chiamarsi speranza, ma nella quale si rifugiavano tuttavia sgomentati e palpitanti tutti i sogni della sua giovinezza. Chi sa che a furia di economie — era questo l’ultimo sogno — non potesse raggranellare tanto da comperarsi un nido, un piccolo nido modesto dove addurre l’amata, un breve guanciale su cui posare insieme le fronti stanche ed i cuori fedeli ed ivi attendere il riposo eterno...
Tra questi ed altri pensieri il signor Cesarino urtò senza quasi avvedersene un gruppo di persone fra le quali riconobbe il Rico ed il Battista. Intravide alcune donne, udì un bisbiglio di voci, uno scintillare di falsi strass sotto le sciarpe di seta dai colori vivaci. Tutta la comitiva nuziale insomma. Egli si strinse contro il muro facendosi piccino, preso da una timidezza improvvisa e insieme da una curiosità di distinguere fra tutte quelle persone la sposa. Ma il gruppo gli passò davanti tumultuariamente mascherato dagli ombrelli e sparve nell’androne di una osteria dove lo sguardo del signor Cesarino lo seguì a lungo carico di nostalgia e di tristezza.
⁂
La lunga Francesca aveva finalmente avuta la soddisfazione di vedere sua figlia in carrozza col velo bianco appuntato da un ramoscello di fiori d’arancio; ma non era poi andata ad accompagnarla in chiesa perchè si trovava troppo mal vestita e un po’ anche perchè avendo litigato tutta la mattina a proposito delle spese fatte le si era voltato l’umore di roseo in nero. Andavano dunque gli sposi colla madrina, il vecchio padre, un cugino venuto appositamente da Baggio e il Rico. Il Rico a dir vero, vantandosi ateo, perchè gli sembrava una prova d’ingegno superiore, reagì un poco contro la cerimonia religiosa ed espresse il desiderio di seguirli solamente in Municipio, ma poichè mancava un testimonio si rassegnò di mala voglia accontentandosi di ghignare tratto tratto sotto i baffi.
Congiunti due volte, prima dall’Assessore poi dal Parroco, gli sposini tornarono a casa a prender mamma Francesca, e la Tina anche per spargere qualche lagrima intanto che le toglievano il velo bianco.
— Oramai quel che è fatto è fatto — le disse per consolarla la madrina, operaia come lei in una fabbrica di bottoni — io voglio aspettare a maritarmi quando ci sarà il divorzio, così almeno se mi stanco del primo potrò prendere il secondo e magari il terzo.
— Ben detto! — esclamò il Rico lanciando una occhiata incendiaria alla giovine operaia. Si è o non si è liberi. Io sto sempre col progresso.
La lunga Francesca offri a tutti una marasca nello spirito, dopo di che uscirono insieme per recarsi all’osteria del Cavallino dove li aspettava il pranzo nuziale e dove appunto furono veduti da Cesare Brambilla.
Sedettero intorno ad una tavola già apparecchiata, le tre donne da una parte, i quattro uomini dall’altra.
— Siamo in sette come i peccati capitali — osservò il cugino venuto da Baggio.
Battista si versò un gran bicchiere d’acqua e la sposa ne volle un poco anche lei. Disse il Rico:
— Non bagnatevi troppo, pulcini.
— L’acqua è nociva alla salute — soggiunge il cugino — quando noi eravamo in marcia i superiori non ci permettevano di bere.
Successe un certo silenzio interrotto solo nel momento in cui fu portato in tavola il risotto, un risotto asciutto e pallido che sembrava polenta mal cotta.
— Non ho appetito affatto — dichiarò la sposa.
— Verrà verrà — disse il Rico con una espressione che voleva essere furba.
La lunga Francesca rigida e dura non diceva nulla. Di fronte a lei il vecchio padre tossiva e gracchiava.
— Che allegria! — esclamò la compagna della sposa gettando una occhiata al Rico.
Era costei una giovinetta dall’aspetto risoluto quasi impertinente. Vestiva una camicetta rossa tutta a pizzi, stretta in cintura, svolazzante sulle spalle, ed aveva la più mirifica pettinatura che si potesse vedere, coi capelli arricciati e spartiti in tre grandi ciuffi sui quali troneggiavano cinque pettini variamente luccicanti. Rico le contraccambiò l’occhiata.
— L’ho portata anch’io la camicia rossa — disse a un tratto il cugino da Baggio desideroso di attaccare discorso; ma l’operaia lo guardò d’alto in basso come se avesse parlato della luna.
Egli allora si rivolse agli uomini e mostrando un moncherino dentro alla manica del suo gabbano disse ancora:
— È per questo che mangio con una mano sola.
Nessuno fiatò.
— È stato a Bezecca.
Fu l’ultimo tentativo. Accorgendosi che la sua storia e le vicende in cui si era svolta non interessava alcuno, il reduce delle patrie battaglie si rassegnò a mangiare il risotto in silenzio. Ma questo divenne così generale che lo sposo, il buon Battista, si credette finalmente in obbligo di contribuire anche lui alla conversazione e disse:
— Nasce un frate.
Uno scoppio di risa accolse la vecchia facezia. Rico volle ribattere:
— È un po’ presto per parlare di nascite.
Intanto il ghiaccio era rotto. Uno stufato pieno di droghe essendo venuto per seconda portata ognuno vi immollava religiosamente il suo pane e il litro del vino incominciava a vuotarsi, secondando la legittima aspettativa dell’oste che da un pezzo se ne stava colle mani in mano.
A un tratto si aperse la porta di strada ed entrò un ragazzino titubante e vergognoso con una sporta sul braccio.
— Ancora qui? — fece l’oste; ma paternamente lo guidò in cucina, poi rivolgendosi ai commensali soggiunse ridendo: — È il più fedele dei miei avventori. Pare impossibile che vi sia della gente così priva di giudizio da mettere al mondo figli in queste condizioni.
— Chi è? — domandò la Tina.
— È figlio di un calzolaio qui vicino, ubbriaco sette giorni alla settimana e padre di sette marmocchi che la madre in miseria riesce a mantenere per amor di Dio e dei santi.
La Tina, quando il fanciulletto ripassò, trovatisi in tasca mezza dozzina di confetti glieli fece scivolare nella manina diaccia. Il Rico si pose a gridare battendo il pugno sulla tavola.
— Ecco che cosa fa il vostro Dio! Se Dio esistesse e volesse fare del bene dovrebbe permettere a un padre di famiglia di ubbriacarsi tanto?
— Dio veramente — si arrischiò a ribattere il cugino di Baggio — non può tenere la chiave di tutte le cantine.
— Ma se è Dio non dovrebbe permettere!
— Cosa volete? Dio fa l’uomo e poi lo lascia andare colla sua ragione dove vuole, poichè gliela dà, nevvero? e se vi sono degli animali che...
— No, no — interruppe il Rico inferocito — perchè Dio, un vero Dio come lo intendo io, non dovrebbe nemmeno permettere che vi siano degli animali.
— Ma se tu sei l’uomo della libertà! — disse ingenuamente Battista.
Seria seria mamma Francesca sentenziò:
— Io direi che toccherebbe al governo a proibire che nascano figli quando non si può mantenerli.
— Già! — fece il cugino — e mettere un carabiniere sotto ad ogni letto.
Le risate ricominciarono fragorose, insistenti, alimentate dal secondo litro di vino e da un formaggio pizzicante che ne chiamò subito un terzo senza che nessuno si impegnasse di dichiararlo l’ultimo.
Le donne bevevano poco, le due giovani almeno, poichè la lunga Francesca si lasciò forse andare un po’ più in là, ed avendo il vino triste si fece a ripensare i suoi debiti. Tanto per la tela, tanto per le guarnizioni, tanto per gli abiti. Non voleva sfigurare lei e le cose le aveva fatte in grande; ma adesso che non c’era più rimedio quella grossa somma le sembrava una montagna, tale e quale una montagna sullo stomaco. E di chi era la colpa? Non certo sua, che aveva lavorato tutta la vita come una martire senza cavarsi un sol grillo, nè di sua figlia che se le era venuta la voglia di maritarsi era ben naturale, e più naturale ancora che volesse comparire più di quel che era. Diamine! Si deve forse mostrare a tutti che si è poveri? E non fanno tutti così? E si potrebbe diversamente senza far parlare la gente? Di chi era la colpa?... del Battista. Perchè era povero anche lui? Perchè si era innamorato di sua figlia? Ecco tutto il guaio. Battista che si era innamorato della Tina.
Fatta questa scoperta mamma Francesca si voltò tutta d’un pezzo verso suo genero apostrofandolo in malo modo:
— La finirete di bere sì o no! È ora di andare a letto.
Non aspettò nemmeno la risposta e vedendo in fondo alla tavola il vecchio a cui nessuno aveva mai rivolta la parola lo coinvolse nell’aggressione dicendogli che suo figlio era senza testa. Ma il vecchio tossiva e gracchiava facendo: rhun... rhun: nè fu possibile cavargli altro. Mamma Francesca allora si pose a gemere:
— Ohimè! Ohimè! cosa ho mai fatto! Avere una figlia sola e darla in mano a questi pezzenti.
— La gran riccona che siete voi! — saltò su a rispondere Battista, cui il vino bevuto conferiva maggior coraggio del solito.
— Ricca ero quando non avevo debiti, prima che si parlasse di questo sciagurato matrimonio. Ohimè! Ohimè! Quarantasette lire per le camicie e scommetto che non fanno nemmeno durata, con quei pizzi che si stracciano subito, undici lire ancora! E la sarta che già da un mese ha detto di non voler aspettare... Ci voleva tanto a stare a posto? Almeno non avrei dovuto anticipare io anche la spesa delle lenzuola che questa dovrebbe proprio toccare all’uomo di diritto.
Voleva dire, evidentemente, di dovere; ma a furia di udir confondere i due termini non li discerneva più e diritto, così a orecchio, le sembrava più squillante.
— La finirete una buona volta — disse ancora Battista — vi paion discorsi da fare qui?
— Se i miei discorsi non vi piacciono andiamocene.
— Oh! è presto — interruppe il Rico guardando alternativamente un grosso orologio d’argento che aveva nel taschino e i tre ciuffi scintillanti della giovine operaia.
Il cugino da Baggio soggiunse:
— Quando si è in ballo bisogna ballare cara Francesca. Questo per fortuna è un ballo piacevole. Se foste stata a Bezecca...
Ma anche questa volta l’argomento non attecchì. La lunga Francesca più che mai irritata dai fastidi, dal vino cattivo e dalla stanchezza di quella giornata continuò ad aizzare il genero che finalmente perduta la pazienza la chiamò vecchia strega. Allora Tina si pose a piangere e tutti si alzarono, gli uomini barcollando un poco, l’operaia aggiustandosi i pettini sull’edificio della capigliatura, mentre Francesca intascava un pezzo di formaggio che le era avanzato.
Uscirono così nella via nebbiosa coperta di fanghiglia, rasentando il muro ad uno ad uno per evitare il frequente gocciolio dei tetti in seguito al disgelo. Sul muro opposto un’ombra sottile scivolava parimenti silenziosa.
Era il signor Cesarino che rincasava con un pacco di carte sotto il braccio per lavorare ancora un poco prima di coricarsi.