Commedia (Buti)/Inferno/Canto XXVIII
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ventottesimo
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C A N T O XXVIII.
1Chi poria mai pur con parole sciolte1
Dicer del sangue e delle piaghe a pieno,
Ch’io ora vidi, per narrar più volte?
4Ogni lingua per certo verria meno
Per lo nostro sermone e per la mente,
Ch’ànno a tanto comprender poco seno.
7S’el s’adunasse ancor tutta la gente,2
Che giace in su la fortunata terra
Di Puglia, fu del suo sangue dolente,
10Per li Troiani, o per la lunga guerra3
Che dell’anella fe sì alte spoglie,
Come Livio scrive, che non erra:4
13Con quella, che sentì de’ colpi doglie
Per contrastare a Ruberto Guiscardo,
E l’altra, il cui ossame ancor s’accoglie
16A Ceperan, là dove fu bugiardo5
Ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
Dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo:
19E qual forato suo membro, e qual mozzo
Mostrasse, ad equar sarebbe nulla
Al modo della nona bolgia sozzo.6
22Già veggia per mezzul perder o lulla,
Com’io vidi un, così non si pertugia,
Rotto dal mento in fin dove si trulla.
25Tra le gambe pendevan le minugia,
La curata parea, e il tristo sacco7
Che merda fa di quel che si trangugia.
28Mentre che in lui veder tutto m’attacco,
Guardommi, e con le man s’aperse il petto,
Dicendo: Or vedi come mi dilacco;
31Vedi come storpiato è Maometto:8
Dinanzi a me sen va piangendo Alì
Fesso nel volto dal mento al ciuffetto:
34E tutti li altri, che tu vedi qui,
Seminator di scandali e di scisma
Fuor vivi; e però son fessi così.
37Un diavol è qua dietro, che n’ascisma
Sì crudelmente, al taglio della spada,
Rimettendo ciascun di questa risma,
40Quando avem volta la dolente strada:9
Però che le ferite son richiuse
Prima, ch’altri dinanzi li rivada.
43Ma tu chi se’ che in su lo scoglio muse,10
Forse per indugiar d’ire alla pena,
Ch’è giudicata in su le tue accuse?
46Nè morte il giunse ancor, nè colpa il mena,
Rispose il mio Maestro, a tormentarlo;
Ma per dar lui esperienzia piena,
49A me, che morto son, convien menarlo
Per lo Inferno quaggiù di giro in giro:
E questo è ver così, com’io ti parlo.
52Più fur di cento, che quando l’udiro,
S’arrestaron nel fosso a riguardarmi
Per maraviglia, obliando il martiro.
55Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
Tu che forse vedrai lo Sole in breve,
S’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
58Sì di vivanda, che stretta di neve11
Non rechi la vittoria al Navarrese12
Ch’altrimenti acquistar non saria leve.13
61Poiché l’un piè per girsene sospese,
Maometto mi disse esta parola,
Indi a partirsi in terra lo discese.14
64Un altro, che forata avea la gola
E tronco il naso in fin sotto le ciglia,
E non avea ma che una orecchia sola,15
67Restato a riguardar per maraviglia
Con li altri, innanzi alli altri aprì la canna,
Ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia,
70E disse: Tu, cui colpa non condanna,
E cui io vidi su in terra latina,16
Se troppa simiglianza non m’inganna,
73Rimembriti di Pier da Medicina,
Se mai torni a veder lo dolce piano,
Che da Vercelli a Marcabò dichina.
76E fa sapere a’ due miglior di Fano;
A messer Guido et anco ad Angiolello17
Che, se l’antiveder qui non n’è vano,
79Gittati saran fuor di lor vasello,18
E mazzerati presso alla Catolica,19
Per tradimento d’un tiranno fello.
82Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
Non vide mai sì gran fallo Nettuno,
Non da pirati, non da gente argolica.20
85Quel traditor, che vede pur con l’uno,
E tien la terra, che tale è qui meco,
Vorrebbe di vederla esser digiuno,21
88Farà venirli a parlamento seco;
Poi farà sì, che al vento di Focara
Non farà lor mestier voto, nè preco.2223
91Et io a lui: Dimostrami e dichiara,
Se vuoi ch’io porti su di te novella,
Chi è colui della veduta amara.24
94Allor puose la mano alla mascella
D’un suo compagno, e la bocca li aperse,
Gridando: Questi è desso, e non favella:
97Questi, scacciato, il dubitar sommerse
In Cesare, affermando che il fornito
Sempre con danno l‘attender sofferse.
100O quanto mi parea sbigottito
Con la lingua tagliata nella strozza,
Curio, che a dire fu così ardito!
103Et un, ch’avea l’una e l’altra man mozza,
Levando i moncherin per l’aere fosca,
Sì che il sangue facea la faccia sozza,
106Gridò: Ricordera’ti ancor del Mosca,
Che dissi, lasso! Capo à cosa fatta,
Che fu mal seme per la gente tosca;25
109Et io li aggiunsi: E morte di tua schiatta;
Perch’elli accumulando duol con duolo
Sen gìo, come persona trista e matta.
112Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
E vidi cosa, ch’io avrei paura,
Sanza più pruova, di contarla solo;
115Se non che coscienzia mi assicura,
La buona compagnia che l’uom francheggia
Sotto lo sbergo del sentirsi pura.
118Io vidi certo, et ancor par ch’io il veggia,
Un busto sanza capo andar, sì come
Andavan li altri della trista greggia.
121E il capo tronco tenea per le chiome
Pesol con mano a guisa di lanterna,
E quel mirava noi, e dicea: O me!
124Di sè facea a sè stesso lucerna;
Et eran due in uno, et uno in due;
Com’esser può, Quei il sa, che su governa.
127Quando diritto a piè del ponte fue,
Levò il braccio alto con tutta la testa,
Per appressarne le parole sue,
130Che fuoro: Or vedi la pena molesta
Tu, che, spirando, vai veggendo i morti,
Vedi s’alcuna è grande come questa,
133E perchè tu di me novelle porti,
Sappi ch’io son Beltram dal Bornio, quelli26
Che diede al re Giovanni i mai conforti.2728
136Io feci il padre e il figlio in sè rebelli:29
Achitofel non fe più d’Assalone,30
E di Davit coi malvagi pungelli.31
139Perch’io parti’ così giunte persone,
Partito porto il mio cerebro, lasso!
Dal suo principio, che è in questo troncone:
142Così si osserva in me lo contrapasso.
- ↑ v. 1. C. M. porria
- ↑ v. 7. C.M. s’aunasse
- ↑ v. 10. C. M. e per la lunga guerra
- ↑ v. 12. C. M. Livio lo scrive,
- ↑ v. 16. C. M. A Ceparo,
- ↑ v. 21. C. M. il modo
- ↑ v. 26. C. M. La corata apparea al tristo sacco
- ↑ v. 31. C. M. come scoppiato
- ↑ v. 40. Avem; voce primitiva dall’infinito avere. E.
- ↑ v, 43. muse. Musare; tenere il viso fiso, guardare fisamente. E.
- ↑ v. 58. C. M. Sì di vidanda, che stretto di nieve.
- ↑ v. 59. al Noarese
- ↑ v. 60. C. M. lieve.
- ↑ v. 63. C. M. lo distese,
- ↑ v. 66. Ma che; più che, se non che, dal latino magis quam. E.
- ↑ v. 71. C. M. vidi in su terra latina,
- ↑ v. 77. C. M. Angelello
- ↑ v. 79. C. M. vagello,
- ↑ v. 80. C. M. mazzarati
- ↑ v. 84. C. M. da pirate,
- ↑ v. 87. C. M. di veder esser digiuno,
- ↑ v. 90. C. M. Non serà lor mestier
- ↑ v. 90. Preco, ne’ princìpi di nostra lingua dissero i nostri maggiori. E.
- ↑ v. 93. dalla veduta
- ↑ v. 108. C. M. il mal seme
- ↑ v. 134. C. M. del Bornio,
- ↑ v. 135. C. M. che diedi
- ↑ v. 135. L’Antaldino legge « Che al re giovane diedi i mai conforti » ; e bene sta: perocchè Enrico d’Inghilterra, figliuolo d’Enrico II fu coronato re, giovanissimo. E.
- ↑ v. 136. C. M. ribelli:
- ↑ v. 137. Assalone; così è scritto presso gli antichi. E.
- ↑ v. 138. C. M. puntelli.
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C O M M E N T O
Chi poria mai ec. In questo xxviii canto l’autor nostro tratta
della nona bolgia ove si puniscono li commettitori delli scandali e
delle discordie, e seminatori delle eresie e delle scisme; e dividesi
principalmente in due parti: imperò che prima l’autor tratta delli
scismatici e seminator di scisma; nella seconda, de’ commettitori di
discordie e di scandali, quivi: Un altro, che forata avea la gola ec.
E la prima, che sarà la prima lezione, si divide in sei parti: imperò
che prima l’autore premette una scusa del suo dire, se non fosse
sì pulito in questo canto, come nelli altri; nella seconda pone molte
similitudini a mostrare in genere il modo della nona bolgia, quivi:
S’el s’adunasse ec.; nella terza pone una similitudine a mostrare
spezialmente alcuno tormento che quivi vide, quivi: Già veggia per mezzul ec.; nella quarta pone com’egli dice che uno demonio è
deputato a dar loro quella pena, e domanda chi è l’autor, quivi: Un diavol ec.; nella quinta pone come Virgilio risponde alla domanda,
quivi: Nè morte il giunse ec.; nella sesta dice come quello spirito li
pone una ambasciata, quivi Or dì a fra Dolcin ec. Divisa la lezione, adunque è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.
Poiché l’autor di sopra à posto lo suo passamento dell’ottava
bolgia nella nona, nell’ultima parte del canto passato, incominciando a 1 questo scusandosi se il parlare non fosse sì pulito, dice: Chi potrebbe pur con parole elette e belle dire del sangue e delle piaghe pienamente ch’elli vide in questa nona bolgia, benché più volte ne parlasse? Quasi dica: Nessuno; ma ogni lingua certamente verrebbe meno e sì per lo sermone che è insufficiente ad esplicarlo, e per la mente che è insufficiente a comprenderlo; et a ciò dire induce alquante similitudini, dicendo: Se si ragunasse ancor tutta la gente che sparse il suo sangue in Italia per li Troiani, ove Puglia fu
dolente del suo sangue per li Pugliesi che furon morti, quando
Turno fu sconfitto da’ Troiani, e per la lunga guerra che fece sì
grande spoglie dell’anella delli Romani vinti da Annibale a Canni,
che moggia ne mandò il detto Annibale a Cartagine, come scrive e
narra Tito Livio nella terza 2 deca, libro terzo; con quell’altra sconfitta che fu nella detta contrada di Puglia, a quella terra chiamata Ceperano, o Ceparo, ove ciascun Pugliese fu bugiardo; e quella di Curradino, cioè la sconfitta che ebbe a Tagliacozzo in Campagna per lo consiglio di messer Alardo, e tutti mostrassono le loro piaghe e le loro membra tagliate, sarebbe nulla a pareggiare le moltitudini dell’anime tagliate e dimoncate che si vedeano nella nona bolgia. E discende a narrare d’uno, che vide rotto dal mento in fino alla parte strema del ventre, stempanato più che non fu mai botte; e pendevali le interiore tra le gambe, e la curata pareasi e lo stomaco et
ogni altro intestino. E mentre che tutto si mette a guardarlo, dice
che elli guardò lui e con le mani s’aperse il petto, dicendo: Vedi
come scoppiato è Macometto; e dinanzi a me vedi Ali fesso nel
volto dal petto infino alla sommità del capo; e tutti li altri, che tu
vedi quivi, furono seminatori di scandali e di scisma, e però sono
così fessi; e sappi che, come noi giriamo questo fossato, le piaghe si
risaldano; ma là istà uno demonio che, come giugnamo a lui con la
spada che tiene in mano, a ciascuno rifende la sua piaga saldata;
ma tu chi se’ che aspetti in su lo scoglio, forse per indugiar la pena
a che se’ stato giudicato? Allora dice l’autore che rispose Virgilio,
dicendo: Costui non è ancor morto, nè colpa commessa lo mena a
tormento; ma per darli piena esperienzia della giustizia di Dio, io
che sono morto, lo meno per lo inferno di giro in giro; e questo è
vero, com’io ti dico. Et allora dice che più di cento di quelle anime
s’arrestaron per vederlo per maraviglia; e poi che Macometto fu
dichiarato, dice l’autore ch’elli disse: Or dì a fra Dolcino tu, che
forse lo vedrai, che s’armi s’elli non mi vuole in brieve seguitare
qui, e pigli vittoria facendo penitenzia nel monte........, che
altrimenti non potrebbe acquistare sanza grande fatica. E questa ambasciata li diede, incominciato ad alzare già lo piede per andarsene; e poi che ebbe data la imbasciata, lo stese in terra a partirsi. E qui finisce la sentenzia litterale della prima lezione: ora è da vedere il testo con l’esposizioni.
C. XXVIII — v. 1-6. In questi due ternari l’autor nostro incomincia lo canto, e premette scusa inanzi, perché sa che nel processo li verrà usato vocaboli non netti, nè puliti come altrove, dicendo che di questo è cagione la materia; e però dice: Chi poria mai; cioè potrebbe mai, pur con parole sciolte; cioè solamente con vocaboli eletti, come si convengono al parlar pulito, et ancora alle rime per far la consonanzia, Dicer del sangue e delle piaghe a pieno; cioè sufficientemente, Ch’io; Dante, ora vidi; cioè quando finsi ch’io fossi menato da Virgilio, la notte del venerdi’ santo sopra al sabato santo, a veder l’inferno e parte del purgatorio, come appare nel poema, per narrar più volte; cioè, benché ne parlasse più volte, non se ne potrebbe mai dire a pieno, pur con parole sciolte; cioè sparte in prosa, non che in rima, ch’è uno parlar quasi dica legato al suono et a piedi e sillabe diversi? E così appare che questo detto viene a determinare quel Dicer a pieno, che va innanzi. Ogni lingua per certo verria meno; cioè certamente ogni lingua mancherebbe, Per lo nostro sermone e per la mente, Ch’ànno a tanto comprender poco seno; ora rende la cagione di questa impossibilità, la quale è questa; che il nostro parlare et ancora la nostra mente; cioè umana, ànno poca virtù a tanto comprendere; e parla per similitudine che, come grande senno 3 comprende grandi cose; così lo piccolo senno 3 comprende piccole cose. Et è qui da notare che il nostro parlare non può avere perfezione, perchè più sono le cose che li vocaboli; e similmente la nostra apprensione è atto finito, benché per potenzia sia infinita.
C. XXVIII — v. 7-21. In questi cinque ternari l’autor nostro, cominciando a narrare i tormenti della nona bolgia, mette inanzi cinque similitudini di gran battaglie ove fu grande tagliamento e guastamento di uomini, dicendo che, se tutti li guasti e dimoncati 4 e squarciati in quelle battaglie, le quali tutte furono in Italia, si ragunassono insieme e mostrassono le loro ferite, nulla sarebbe a pareggiarsi con quelle ch’erano nella nona bolgia, della quale elli al presente intende di trattare; e però dice: S’el s’adunasse; cioé insieme, ancor tutta la gente, Che giace in su la fortunata terra; cioé fatta a’ Troiani; et intende d’Italia la quale fu fortunata a’ Troiani, come dice Virgilio; o vero, perchè Italia fu avventurata nelle battaglie a soggiogare co’ Romani tutto il mondo, Di Puglia; questa Puglia è una provincia che n’è capo Napoli; cioè nel qual luogo i Pugliesi furono morti, e però dice: fu del suo sangue dolente; questo dice, perchè qui lo sparse, Per li Troiani; cioè che i Troiani ne furono cagione che sconfissono Turno, lo quale avea seco in aiuto tutto lo sforzo di Puglia, come appare nella colletta che pone Virgilio nel settimo libro dell’Eneida; e questo Per li Troiani determina quel verbo giace. Sopra la qual parte è da sapere che, quando Enea troiano venne in Italia, siccome le risposte delli idii comandavano, fu per che l’Italia era fatata a’ Troiani, e però dice l’autore in su la fortunata terra; cioè Italia. Fu ricevuto dal re Latino lo quale avea il suo regno nelle contrade ove è ora Roma, e promiseli per moglie Lavina sua figliuola, la quale la madre di Lavina detta e moglie di Latino avea promessa a Turno re de’ Rutili ch’era suo parente; Turno fece suo sforzo d’ogni gente da turno 5, e perch’elli signoreggiava Ardea, cittade posta in verso Napoli, ebbe molti Pugliesi in aiuto; e combattendo con Enea fu sconfitto sì, che allora i Troiani uccisono molti Pugliesi; e però dice l’autore: Di Puglia, fu del suo sangue dolente; e questa istoria si contiene di sopra nel primo capitolo. o per la lunga guerra; qui pone la seconda battaglia, dicendo: S’el s’adunasse ancor tutta la gente; cioè e quella che giace in su la fortunata terra d’Italia, per la lunga guerra ch’ebbono li Romani con Annibale duce de’ Cartaginesi; la qual guerra durò da xvii anni, nella quale guerra morirono e furono tagliati e dimoncati molte migliaia d’uomini in vari luoghi d’Italia, e massimamente in una grandissima sconfitta ch’Annibale diede a’ Romani a Canni, lo quale è uno fiume in Puglia ove tanti Romani morirono, che l’anella loro che portavano in dito li uomini di pregio, si raccolsono e furono tre moggia e mezzo, secondo che dicono alquanti, e secondo altri uno moggio, li quali Annibale mandò a Cartagine per Mago suo fratello; e questo scrive Tito Livio nel terzo libro della terza decade, la quale si chiama seconda, perchè la seconda non si truova; e però dice: Che dell’anella fe sì alte spoglie; cioè la lunga guerra fece sì alte spoglie dell’anclla de’ Romani morti a Canni; nel quale luogo era uno borgo posto in Puglia 6, benché allora non portassono anello se non li grandi uomini, Come Livio scrive; cioè Tito Livio descrive nel luogo detto di sopra, che non erra; questo dice, perchè Livio fu istoriografo e non poeta, e scrisse la pura veritade delle istorie Romane, e sempre è posto e reputato de’ più veritieri scrittori che mai fossono, e fu padovano, e per sua grandissima eloquenzia e scienzia e virtude fu cancelliere de’ Romani al tempo dell’imperadore, Con quella, che sentì de’ colpi doglie; qui pone la terza battaglia, dicendo: S’el s’adunasse ancor tutta la gente; che è detta di sopra nelle dette due battaglie, Con quella che sentì de’ colpi doglie; cioè con quelli Pugliesi che in Puglia sentirono lo dolore de’ colpi mortali, Per contrastare a Ruberto Guiscardo; cioè per volersi i Pugliesi difendere da lui, che li venne ad assalire in Puglia e combattelli e vinseli et uccise. Questo Ruberto Guiscardo fu conte di Fiandra, e passò in Puglia per acquistarla; e trovando tutta la Puglia a lui rebelle et avversa, la combattè più anni, tanto la 7 soggiogò e tennela con tirannesco modo molti anni; e perchè nell’acquistarla, molti Pugliesi furono tagliati e dimoncati, però dice l’autore: Con quella che sentì de’ colpi doglie Per contastare; a lui come detto è, E l’altra, il cui ossame ancor s’accoglie A Ceperan; qui tocca la quarta battaglia, dicendo: S’el s’adunasse tutta la gente; che detta è di sopra nelle dette tre battaglie, E l’altra, il cui ossame ancor s’accoglie A Ceperan; questo fu nelli anni Domini 1265. Essendo in Cicilia et in Puglia alquanti rettori, li quali erano in discordia coi prelati di Santa Chiesa, tra quali era lo re Manfredi, figliuolo secondo, lo quale Manfredi dopo la morte del padre signoreggiò lo regno di Cicilia e di Puglia, lo quale regno è feudario di Santa Chiesa; et essendo stato Federigo secondo imperadore molto nimico e rebelle a’ pastori della Chiesa di Roma e da loro scomunicato e perseguitato; et essendo morto nella detta contumazia e dopo lui rimaso re di Sicilia e di Puglia lo detto suo figliuolo Manfredi non legittimo, ancora seguendo delle vestigie del padre, benché non fosse di tanta potenza, venne in discordia co’ detti pastori della Chiesa; onde lo papa e li cardinali pensarono di levare a costui il detto reame e mandarono per Carlo conte di Proenza fratello del re Lodovico, re di Franzia, e promisonli di coronarlo e farlo re di Cicilia e di Puglia. A questo Carlo piacque, e fece grande sforzo e venne a Roma, et allora tra’ Romani era grande dissensione; e però lo ricevettono come figliuolo di santa Chiesa, e fecionlo loro senatore. E stato quivi da quattro mesi, e fatto et adunato ogni suo sforzo, si mise in via per volere acquistare lo regno di Cicilia e di Puglia, avendo l’aiuto e favore di santa Chiesa ch’avea scomunicato lo re Manfredi. Lo quale re con sua forza e gente assai si fece incontro al detto Carlo, incoronato re per santa Chiesa; et avendo lo re Manfredi mandati due suoi baroni con gran forza per contrastare a certa entrata stretta del regno, l’uno di loro fu traditore al re Manfredi, e tanto contese con l’altro che il re Carlo passò e rubellossi da lui; onde lo re Manfredi, vedendolo accostato al re Carlo et esso re con sua forza entrato nel regno, temendo che la Puglia si ribellasse inanzi che combattesse, diliberò combattere; e fatto suo sforzo, seguitò co’ suoi Pugliesi lo re Carlo ch’era ito a Benevento; e giunto quivi, vennono a battaglia, nella quale lo re Manfredi fu sconfitto: imperò che tutti i Pugliesi fuggirono, et in quella fugga ne furono molti tagliati et ancora nella sconfitta, e simile de’ Franceschi e Provenzali assai per li molti balestrieri et arcadori ch’ebbe lo re Manfredi; e però dice: E l’altra il cui ossame ancor s’accoglie A Ceperan; cioè se s’adunasse, s’intende, con quelle sconfitte dette di sopra, quest’altra le cui ossa s’accolgono a Ceperano; lo quale Ceperano fu il luogo ove fu data la sconfitta e li uomini tagliati, perchè ancora quivi si trovavano le ossa delli uomini morti, là dove fu bugiardo Ciascun Pugliese; questo dice perchè fuggirono, avendo promesso al re Manfredi d’essere con lui fedelmente, e là da Tagliacozzo; cioè se s’adunasse, s’intende, con le quattro battaglie dette di sopra, quella gente il cui ossame ancora s’accoglie là da Tagliacozzo; qui fa menzione della quinta battaglia che fu a Tagliacozzo in Puglia similmente; onde è da sapere che, poiché il detto re Carlo vincitore di Manfredi fu re di Cicilia e di Puglia, favoreggiava molto la parte guelfa di Toscana; onde li Toscani ghibellini sollicitarono Curradino figliuolo del re Currado (lo quale re Currado fu figliuolo legittimo dell’imperadore Federigo secondo predetto ) che della Magna venisse con sua potenzia a difendere li amici e lo regno del suo avolo Federigo secondo: però che oltre alla corona dell’imperio, esso Federigo e’ suoi passati per molti tempi erano stati re del regno di Cicilia e di Puglia, e così s’intitolavano esso Federigo secondo imperadore et ancora l’altro Federigo; cioè il Barbarossa; cioè Federigo per la divina potenzia imperadore dei Romani e sempre accrescitore e re di Gerusalem e di Cicilia ec.; onde Curradino giovanetto si mise in via con suo sforzo, e venne con lui il Duca di Baviera e il Conte di Tiralli per conducitori del suo esercito, e venne prima a Verona. Udito dal re Carlo, ch’era allora verso la Toscana, che Curradino era venuto, lasciò uno suo vicario in Toscana et andossene in Puglia, perchè una citta chiamata Nocera, abitata da’ Saracini i quali il re Manfredi tenea a suo soldo alla guardia di Puglia, et avea fatta la detta città per tenere la Puglia con quella forza, udito l’avvenimento di Curradino, si ribellò dal re Carlo per lo mal governo che faceano li Franceschi di quella e di tutta Puglia, trattandogli male. Dopo questo, lo detto Curradino se n’andò per Monferrato, et entrò in mare e venne a Pisa e cavalcò sopra Lucca. Allora lo maliscalco del re Carlo, venendo per soccorrer Lucca, fu sconfitto e morto da Curradino e dalla parte de’ ghibellini di Toscana ch’era venuta tutta all’obbedienzia sua. Et allora Curradino cavalcò a Roma ov’era senatore messer Arrigo fratello dal re 8 di Castella, lo quale odiava lo re Carlo per la sua alterezza; e ricevuto da lui onorevolmente, e stato con lui contra il volere del papa quel che li parve, si mosse col senatore e col suo consiglio e suo sforzo et andò in Puglia; e trovatosi in uno piano ad uno luogo che si chiama Tagliacozzo, col detto re Carlo combatterono insieme; nella quale battaglia lo detto re Carlo fu vincitore per consiglio di messer Alardo suo cavaliere, lo quale essendo già sì vecchio, che non poteva più portare l’armi, diede per consiglio al re che facesse tre schiere; e nell’una ponesse uno suo cavaliere con l’armi sue, che rappresentasse elli e suoi, la persona del re e la sua baronia, et esso re Carlo stesse appiattato dopo uno monte con una certa brigata di cavalieri scelti sì, che se la sua gente fosse rotta, elli rompesse poi l’inimici quando rubassono il campo e si spergessono credendosi essere vincitori. E così avvenne che, essendo Curradino coi Tedeschi virilmente nella battaglia con l’aiuto della parte ghibellina, et avendo sconfitta la schiera ove mostrava d’essere lo re Carlo, misono in rotta tutta quella gente, e cominciarono poi sanza ordine a rubare il campo; onde essendo questi vincitori sparti qua e là rubando, lo re Carlo uscì fuori col suo aguato 9 et assalì la gente di Curradino, e sconfesseli 10 e prese fra li altri Curradino e il conte Gaddo da Pisa, e fece loro levare le teste, essendoli stati condotti nelle mani da uno, che li dovea passare in Cicilia, con tradimento. E perchè in questo luogo fu grande tagliamento di gente, però ne fa menzione l’autore dicendo: S’el s’adunasse ancor tutta la gente ..., il cui ossame ancor s’accoglie ... là da Tagliacozzo; cioè in quel luogo di Puglia ove fu la sconfitta sopraddetta, Dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo: però che vinse col savio consiglio, essend’elli disarmato per ch’era vecchio. E però li Pisani quando sconfissono a monte Catino la parte guelfa di Toscana e gente di Puglia, ch’erano venuti in aiuto a’ Fiorentini mandati dal re Uberto, e perchè li Tedeschi intendeano a rubare, dice il Chiosatore pisano che fu comune detto nel campo: Ricordivi di Curradino. Premesse le cinque battaglie, ritorna a proposito et adatta la similitudine, dicendo: E qual forato suo membro, e qual mozzo Mostrasse; delle dette genti ferite e morte nelle dette cinque battaglie, ad equar; cioè a pareggiar, sarebbe nulla; cioè non si potrebbe assomigliar per alcun modo, Al modo della nona bolgia sozzo; cioè vituperoso, della quale bolgia intende ora di trattare.
C. XXVIII — v. 22-27. In questi due ternari l’autor nostro, poi ch’à detto generalmente delle pene che sono ordinate alli seminatori dello scisma e delli scandali, ora spezialmente tratta di quelle pene; onde è da vedere qui spezialmente di questo peccato, siccome è veduto di sopra delli altri, e delle pene che per li autori li sono appropiate. E prima doviamo sapere che qui finge l’autore che si punisca la nona spezie della fraude, che si chiama scandolo, o vero scisma, che è peccato sottopposto all’invidia et è delle sue spezie: imperò che si contrappone alla unione che si contiene sotto la carità la quale è contraria all’invidia; et è questa la nona spezie della fraude: imperò che questi seminatori di scisma e di scandali, sotto spezie di bene, li seminano a danno del prossimo, a ciò che non se ne possano guardare; et è differenzia tra infedeltà, eresia e scisma: imperò che infedeltà s’oppone alla fede, et è non credere quello che crede la fede in ogni cosa; et eresia è partirsi dalla fede in alcuna parte, o fare mutamento in alcuna parte di quel che la fede catolica tiene; e scisma è partirsi in tutto dalla fede e dall’unità della santa Chiesa, e però questo è maggior peccato che i due primi, e però finge l’autore che sia punito più basso; et è scisma divisione e separamento dall’unità della fede e dalla carità. Le spezie dello scisma sono tre; cioè dipartimento dalla fede cristiana, e questo propriamente si chiama scisma; dipartimento dalla concordia civile, e questo si chiama parzialità; e dipartimento dal prossimo, e questo si chiama scandalo: e questa à altra specie; cioè dipartimento de’ congiunti per affinità 11; e dipartimento de’ congiunti per amicizia. Ora doviamo notare le sue compagne, le quali sono ipocresia, adulazione, bugia, simulazione: le sue figliuole sono errore, odio, detrazione, offensione in avere et in persona, guerre e battaglie: li rimedi contra sì fatto peccato sono investigamento di verità, fermezza, consideramento del bene dell’unità, e respetto del fine. Ora sono da considerare le pene le quali l’autor finge essere sei, secondo le spezie del detto peccato: imperò ch’elli pone che qual fosse fesso il volto dal ciuffetto al mento, quale dal mento alle membra disoneste, quale forato nella gola e tagliato il naso infino al ciglio e l’uno orecchie 12, qual tagliato la lingua, qual tagliato le mani, quale portava il capo in mano; e tutti circundano la bolgia, ritornando ad un diavolo che così li ferisce ogni volta da capo, poiché nel circuire le ferite sono chiuse. E questo finge l’autore, per mostrare che la pena loro sia infinita e che sieno sanza riposo: imperò che nella vita ànno sempre guasto lo riposo e la pace de’ fedeli cristiani e de’ cittadini e de’ parenti e delli amici e de’ congiunti; ma finge che sieno fessi in diversi modi, secondo diverse spezie del detto peccato. E però si dee notare che quelli che sono fessi, ànno commesso scisma e fatta divisione nella santa Chiesa, la quale dè essere uno corpo di tutti i Catolici, del quale Cristo è capo; e perchè ànno diviso questo così fatto corpo della Chiesa, però finge l’autore che sieno fessi ellino: quelli che sono forati nella gola et ànno tagliato il naso e l’uno orecchie, ànno commessi scandali tra’ grandi cittadini e tra’ signori delle contrade, imperò sono così tagliati nel capo, perch’ànno divisi quelli che sono capo delle città e delle contrade: e quelli ch’ànno smozzicato le mani, ànno messo scandalo e resia 13 tra’ parenti e congiunti: e quelli ch’ànno tagliato il capo e portanlo in mano, ànno messo scandolo et errore tra padre e figliuolo. E veramente queste pene sono convenientemente fitte 14 dall’autore: imperò che chi divide la carità e l’unione, degnamente dè essere diviso nell’inferno; et allegoricamente si convengono a quelli del mondo, che sempre stanno divisi col pensiere nelli modi detti di sopra, come s’adatterà meglio quando sporremo ciascun passo. Torniamo adunque al testo che dice: Già veggia; qui pone una similitudine, dicendo che mai botte non fu sì forata per perdere tempano o lulla, com’elli vide forato uno peccatore dal mento alla parte di sotto; e dice così: Già veggia; cioè botte, per mezzul; cioè tempano, perder o lulla: lulle sono le parti dal lato del tempano, Com’io; cioè Dante, vidi un; cioè peccatore, così non si pertugia; cioè non si fora, Rotto dal mento; questo peccatore, in fin dove si trulla; cioè infino alla parte di rieto di sotto, disonesta a nominare, onde si fa spesse volte sono per ventosità del ventre. Tra le gambe; di quel peccatore, pendevan le minugia; cioè l’enteriora; cioè le budella, La curata; cioè fegato, cuore e polmone, parea; cioè si vedea, e il tristo sacco; cioè lo stomaco, o quella parte che è di sotto allo stomaco; e chiamalo il tristo sacco per quello che vi sta dentro; cioè la feccia, e questo dice ch’ancora si vedea, Che merda fa di quel che si trangugia; cioè che fa feccia di quel che si mangia e mandasi giuso: imperò che trangugiare è mandar giuso; et è chiamata la feccia per sì fatto vocabolo, perchè deriva da merum che viene dire puro, quasi per contraria cosa non pura; o vero a moera 15 che viene a dire divisione: imperò che nello smaltire si divide questo grosso umore dal nutrimento del corpo. E perchè l’autore sapea che dovea usare sì fatti vocaboli, però mise inanzi la scusa nel principio del canto, quando disse: Chi poria mai ec.
C. XXVIII — v. 28-36. In questi tre ternari l’autor nostro dichiara chi è quel peccatore, che di sopra à posto così aperto nel ventre dal mento al fesso di sotto; et aggiugne d’un altro ch’era fesso nel volto dal mento al ciuffetto 16, e dice quivi di colui: Dinanzi a me ec. Dice adunque così: Mentre che in lui; cioè che in colui che detto fu di sopra, veder tutto m’attacco; cioè tutto m’affiso, Guardommi; cioè quel peccatore, e con le man s’aperse il petto: cioè il petto suo ch’era fesso, Dicendo: Or vedi come mi dilacco; cioè mi straccio et apro Vedi come storpiato è Maometto; qui finge l’autor che questo peccatore nomina sè stesso, e dice ch’elli è Maometto. Questo Maometto, secondo che pone maestro Iacopo de’ frati Predicatori nel libro delle Leggende de’ Santi nella leggenda di papa Pelagio, ove di questo Maometto pone in diversi modi la storia; ma io ò preso quel che più mi par vero 17. Dice adunque così: Che nell’anno dc dalla natività di Cristo al tempo di papa Bonifazio terzio, e nello imperio d’Onorio, fu nelle parti d’Arabia uno uomo chiamato Maometto, e questo uomo fu di grande sapere, e fu grande mago, e nel tempo della sua giovanezza facea mercatanzia, et usava in Gerusalem et in Egitto; e, come uomo saputo, si domesticava coi Cristiani e co’ Giudei, intanto che perfettamente imparò la legge di Moisè e quella di Cristo, e tanto parve di grande sapere a quelli popoli, ch’ebbono fede che fosse messo di Dio, per li miracoli ch’elli facea per arte magica. E vedendosi in tanto onore, crebbe in superbia e publicamente predicava al popolo ch’elli era messia mandato da Dio, et arrecossi a dare nuova legge a quelli popoli, mescolando quella di Moisè con quella di Cristo, e traendone tutte le cose di diletto per potere meglio pervertere lo popolo a sua intenzione; e per sì fatto modo acquistò la signoria, pigliando per moglie una potente donna ch’avea nome Cadiga, ch’era donna d’una provincia chiamata Carecama 18. E così tra per forza e simulazione di santità, fingendo che li parlasse lo Spirito Santo in specie di colomba, la quale avea avvezza e costumata a beccare nell’orecchie sue per granella di biada, che sempre vi tenea, e faceala occultamente lasciare nel cospetto del popolo, venendo la colomba all’orecchie sue, e mettendoli il becco nell’orecchie, dicea al popolo clhe era lo Spirito Santo che li parlava. Concorse ancora a quel tempo che, levandosi molti eretici, uno monaco chiamato Sergia 19 entrato nella setta di Nestorio eretico, cacciato del monasterio pervenne in Arabia, e trovandovi Maometto già famoso, aggiunsesi a lui, e come molto saputo lo ammaestrava in tutte cose; e Maometto lo teneva rinchiuso, e dicea ch’era l’Angelo Gabriello che li parlava. Altrove si legge che questi fosse arcidiacono d’Antiocia 20 e fosse iacobita; et altri dicono che questo monaco fosse mandato dalla Chiesa ad ammaestrare quelli popoli d’Arabia nella fede, e promessoli lo cappello; e tornando poi e non essendoli attenuto, si ritornò in Arabia et accostossi a Maometto, et indusselo a dare nuova legge, e partirsi dalla legge de’ Cristiani. E per questo modo tanto crebbe Maometto, che fu reputato nell’Arabia, e nello Egitto e per quelli reami vicini, messia di Dio; e pigliavalo spesso la gotta caduca, e cadendo in terra, dicea quando si levava, che gli era apparito l’Angelo Gabriello; e perchè non potea patire lo suo splendore, però venia meno, e mori nelli anni Domini dcxxi a mezzo luglio. E perchè questi falsamente ingannò quelli popoli, e partilli dalla legge di Cristo, però finge l’autore ch’elli sia nell’inferno storpiato 21, e che tutte l’intestina avesse fuor del ventre; sì com’elli nella vita levò quelli popoli, ch’elli ingannò, traendoli del seno della santa Madre Chiesa, e per lui intende tutti li altri che simil peccato facessono. E così questi così fatti peccatori nel mondo, allegoricamente si possono dire storpiati 22; cioè sciarrati, et avere fuor del ventre le puzzolenti intestina, perchè mettono fuori la fraude che ànno dentro, seminando la 23 scisma. Seguita: Dinanzi a me; dice ancora Maometto a Dante, sen va piangendo Ali; questo Alì, secondo ch’io truovo, fu discepolo di Maometto; ma per quel ch’io credo, elli fu quel cherico che l’ammaestrò, lo quale elli chiama Alì, forse perchè in quella lingua così si chiama il maestro; e questo mi fa credere la pena diversa che l’autor finge ch’egli abbia, che se fosse stato suo discepolo, non li averebbe dato diversa pena da Maometto. Di queste istorie m’abbi scusato tu, lettore, che non se ne può trovare verità certa. Dice poi: Fesso nel volto dal mento al ciuffetto; e questa pena è convenientemente finta dall’autore: imperò che costui ch’era de’ cherici che sono capo della Chiesa dopo Cristo, debitamente si può dire diviso nel capo, poi ch’elli divise sè dalli altri cherici che sono capo. E così allegoricamente si può dire di lui, quando fu nel mondo, che fosse diviso nel capo: imperò che aprì la sua fraude a Maometto, e la sua falsa sentenzia ch’elli avea nel capo, e seminolla in lui. E tutti li altri; poi che à parlato singularmente delli scismatici, parla in generale di tutti li seminatori di scisma e scandalo, dicendo: E tutti li altri, che tu vedi qui; cioè in questa bolgia fessi e troncati in diversi modi, come si dirà di sotto, Seminator di scandali e di scisma; qui si piglia scisma generalmente per ogni divisione, Fuor vivi; cioè quando viveano, e però son fessi così; cioè come tu vedi in diversi modi.
C. XXVIII — v. 37-45. In questi tre ternari l’autor nostro continua ancora a parlare di Maometto, dicendo com’elli manifesta chi dà loro queste ferite, e come domanda chi è Dante, dicendo così: Un diavol è qua dietro; dice Maometto, che n’ascisma: cioè che divide e taglia noi, Sì crudelmente; come tu vedi, al taglio della spada; ch’elli tiene in mano, s’intende, Rimettendo ciascun di questa risma; cioè di questa setta: risma si chiama lo legato delle carte della bambagia di xii quaderni, e qui si pone per la setta, Quando avem volta la dolente strada; cioè quando aviamo 24 girata questa selva 25 ove sono dolori e pene; e così manifesta il tempo: Però che le ferite son richiuse; cioè le ferite nostre che ci à dato, Prima, ch’altri dinanzi li rivada; e così dimostra la rinnovazione della pena, e così si manifesta la cagione. Et allegoricamente si può dire per quelli del mondo che, discorrendo per sì fatti peccati d’anno in anno la vita loro, continuamente sono tentati dal dimonio di rinnovare scandali, divisioni e discordie; e così convenientemente finge dopo la vita esser data loro sì fatta pena. Et aggiugne poi come domanda Dante, dicendo: Ma tu chi se’; dice Maometto a Dante, che in su lo scoglio muse; cioè in sul ponte ch’era di pietra intera sì, come uno scoglio di mari, aspetti e staiti, Forse per indugiar d’ire alla pena; elli medesimo aggiugne la cagione ch’elli crede, che tenga Dante in sul ponte; cioè per indugiar la pena, Ch’è giudicata in su le tue accuse; cioè alla quale tu se’ dannato per le accuse 26 fatte contra di te? Seguita la risposta di Virgilio a questa dimanda.
C. XXVIII — v. 46-54. In questi tre ternari l’autor finge che Virgilio rispondesse per lui a Maometto, dicendo così: Nè morte il giunse ancor; intende di Dante, e così mostra che sia ancor vivo, nè colpa il mena; cioè Dante, Rispose il mio Maestro; cioè Virgilio, a tormentarlo; e questa è determinazione a quel verbo il mena; Ma per dar lui; ora assegna la cagione per ch’elli è quivi; cioè per avere esperienzia dell’inferno, e però dice: per dar lui; cioè per dare a lui Dante, esperienzia piena; cioè pruova manifesta, A me, che morto son; cioè a me Virgilio, convien menarlo; cioè lui Dante, Per lo Inferno quaggiù di giro in giro; sicché il veggia tutto, altrimenti non sarebbe piena esperienzia: E questo è ver; cioè quel ch’io ti dico, così, com’io ti parlo; questo dice l’autore, per salvare il vero, che vero era che Virgilio non menava Dante, nè parlava a Maometto; ma per dare verisimilitudine al poema, parla in questa forma secondo la fizione dello autore. Più fur di cento; cioè anime, che quando l’udiro; questo che Virgilio disse, S’arrestaron nel fosso; cioè giù nella bolgia, a riguardarmi Per maraviglia; cioè me Dante, che maraviglia era ch’io vivo andassi per la region de’ morti, obliando il martiro; cioè dimenticando la lor pena.
C. XXVIII — v. 55-63. In questi tre ternari l’autor nostro finge clic Maometto li disse 27 una ambasciata, ch’elli la portasse a frate Dolcino. Questo frate Dolcino, secondo ch’io truovo, fu uno scismatico lo quale abitava nelle parti di Navarra ove sono grandissimi freddi sì, che il verno non si potea montare, nè scendere per la neve, sì che Maometto prevedea ch’elli dovea essere perseguitato; et imperò dice a Dante che li dica che si fornisca ben, la state per lo verno, di vittuaglia, s’elli non vuol morire di fame: imperò ch’elli prevedeva che la state li dovevano esser messi li aguati 28, e doveva esser preso dal re di Navarra, in quanto discendesse; e se non discendea, lo verno dovea morire di fame. E però dice: Or dì; tu, Dante, a fra Dolcin dunque; cioè che tu se’ vivo e se’ per tornare al mondo, Tu che forse vedrai lo Sole in breve; cioè tu, Dante, che tosto forse tornerai al mondo, S’ello non vuol qui tosto seguitarmi; cioè s’elli non vuol venir tosto a star qui meco, che s’armi; cioè si fornisca, Sì di vivanda; che n’abbia il verno; e però dice: che stretta di neve; cioè che la strettura della neve non lo faccia morir di fame; e però dice: Non rechi la vittoria al Navarrese; cioè al signor di Navarra ch’andava cercando di giugnerlo, et allora li sarà vittoria quando sentirà che sia morto, Ch’altrimenti acquistar non saria leve; cioè ch’altrimenti non si potrebbe, se non co 29 malagevolezza, giugnere; sì si sapea appiattare per quelle montagne. Poiché l’un piè per girsene sospese; pon qui il modo che tiene colui che se 30 arrestato, quando si vuol partire cioè che lieva l’un piè e stendelo inanzi et appresso l’altro; e però dice che poiché Maometto mi disse esta parola; che detta è di sopra; cioè l’ambasciata di fra Dolcino; e nota che l’autor dice Maometto et altri Io chiama Magumetto: imperò ch’era mago, Indi; cioè poi, a partirsi; cioè per partirsi, in terra lo discese; sì che tanto stette in uno piè, ch’elli diede l’ambasciata.
Un altro, che forata ec. Questa è la seconda lezione del canto sopraddetto, nella quale lo autore nostro fa menzione de’ seminatori
delli scandali e delle discordie, poi che di sopra à detto propiamente delli scismatici; e dividesi questa lezione in cinque parti:
imperò che prima pone d’uno peccatore che seminò scandalo e discordia tra li tiranni di Romagna; nella seconda pone come quel
peccatore li mostrò Curio, che seminò scandalo tra Cesare 31 e Pompeio, quivi: Et io a lui: ec.; nella terza finge che il Mosca, che seminò scandalo in Firenze, se li nominasse, quivi: Et un, ch’avea ec.; nella quarta finge com’elli s’affisse a riguardare coloro, ch’anno messo discordia tra padre e figliuolo, quivi: Ma io rimasi ec.; nella quinta pone come alcun di quelli peccatori si manifestono, quivi: Quando diritto ec. Divisa adunque la lezione, è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.
Poiché Maometto si fu partito, un altro ch’avea divisa la gola e mozzo il naso e l’uno orecchie 32, restatosi a riguardar Dante che avea udito ch’era ancor vivo, parlò innanzi alli altri e disse: Tu, che non se’ condannato ancora e ch’io vidi in Italia, se la simiglianza non m’inganna, ricordati di Piero da Medicina, se mai ritorni a veder lo dolce piano di Lombardia e di Romagna; e fa sapere a’ due miglior di Fano; cioè a messer Guido et ad Angioletto, che se l’antiveder qui non m’inganna, elli saranno ammazerati a tradimento in un luogo di Romagna, che si chiama la Catolica, e fiene fatto quello strazio che mai non fu fatto in mare da i corsali; e il traditore sarà quel di Rimino che è cieco dell’un occhio, che li farà venire a parlamento con seco e farà loro quel che detto è di sopra; la qual terra; cioè Arimino, uno che è qui meco, vorrebbe essere digiuno ancora d’averla veduta. Onde Dante incontanente domandò chi era colui. Allora lo sopra detto li si mostrò e nominossi, dicendo ch’era Curione che messe scandalo tra Cesare e Pompeio, e sollicitò Cesare che venisse contra Pompeio e la sua parte. Et un altro poi ch’avea amendu’ le mani mozze, levando li moncherini in suso, gridò a Dante: Ricordera’ti ancor del Mosca che confortò li Uberti d’uccidere quello de’ Bondelmonti, dicendo: Cosa fatta capo à, che fu mal principio per Fiorenza, e di tutta la sua schiatta, secondo che aggiunse l’autore. Allora dice che si partì, come persona stolta e trista, e Dante si rimase; e dice che vide cosa che non l’ardirebbe a dire solo, se non che la coscienzia l’assicura, che fiancheggia 33 l’uomo quand’ella è pura. E dice che vide uno busto sanza capo andare, e il capo portava in mano come lanterna; e quando fui a piè del ponte, alzò la testa con la mano per veder Dante e per appressarli le sue parole, e disse: Or vedi la pena nostra molesta tu, che se’ vivo e vai vedendo li morti, e sappi ch’io fui Beltramo d’Albornio lo qual diedi mali conforti al re Giovanni, e misi discordia tra lo padre e il figliuolo, come Achitofel tra Davit e Assalone; e perch’io parti’ lo padre dal filliuolo, porto partito lo mio capo dal suo principio che è in questo busto, e così s’osserva in me lo contrapeso della giustizia. E qui finisce lo canto: ora è da vedere lo testo con l’esposizioni.
C. XXVIII — v. 64-90. In questi nove ternari l’autor nostro finge che, poi che Virgilio ebbe detto a Maometto che Dante era vivo, uno di quelli ch’erano arrestati, che si chiamava Piero da Medicina, se li arrecò alla mente et ancora li diede l’ambasciata, come Macometto; e però dice: Un altro; cioè peccatore, che forata avea la gola; cioè divisa, E tronco il naso; cioè tagliato, in fin sotto le ciglia; cioè che l’avea tagliato tutto, E non avea ma che una orecchia sola; sì ch’elli avea l’uno orecchio talliato, Restato a riguardar; cioè Dante, per maraviglia Con li altri; de’ quali disse di sopra: Più fur di cento ec. — , innanzi alli altri apri la canna; cioè della gola, Ch’era di fuor; cioè della gola, d’ogni parte vermiglia: però ch’era sanguinosa, E disse: Tu, cui colpa non condanna; cioè tu, Dante, che non se’ condannato a pena: con ciò sia cosa che sia ancor vivo, E cui io vidi su in terra latina; cioè el quale io vidi su nel mondo in Italia, Se troppa simiglianza non m’inganna: alcuna volta la somiglianza fa ingannare altrui, e fa parere che l’uomo sia quel che non è, Rimembriti; cioè costui priega Dante, dicendo: Ricorditi di Pier da Medicina; questo Piero fu bolognese, gentil uomo de’ Cattani d’una terra che si chiama Medicina, posta nel contado di Bologna; e fu seminator di scandalo tra’ cittadini bolognesi e tra i tiranni di Romagna. E convenientemente finge l’autore ch’elli avesse tagliato tutto il naso: imperò ch’elli avea divisi li gentiluomini del contado di Bologna da la città: come il naso è ornamento e bellezza del capo; così lo contado è ornamento e bellezza della città, che n’è capo; e però conveniente era a lui tal pena: e perch’avea divisi li grandi cittadini che sono alla città come li sentimenti al capo, però finge ch’avesse talliato l’uno orecchio: e perchè avea divisi ancora li gentiluomini del contado tra loro insieme, però finge ch’avesse divisa la gola: come la gola sostiene e notrica lo capo; così la città è sostenuta e nutricata dal contado sì, che degna cosa era ch’elli fosse così diviso. Et allegoricamente s’intende di quelli del mondo ch’adoperano sì fatte discordie, li quali si possono dire così divisi, come dividono altrui. E per tanto finge l’autore che costui se li ricordasse e disseli l’ambasciata che seguita, per mostrare che i peccatori dell’inferno, ostinati nelli loro peccati, vorrebbono sempre fare quello ch’anno fatto; e per tanto, per seminare tra quelli tiranni di Romagna, de’ quali si dirà di sotto, scandalo, dà all’autore la infrascritta ambasciata; ovvero altrimenti per ch’elli avea seminato tanto scandalo tra loro, che ne dovea seguire quello, elli lo facea predire perchè non seguisse, acciò che non li crescesse la pena. E tutto questo finge l’autore poeticamente, che questi predicesse quello ch’era già stato, quando l’autore compuose questo poema; ma non quando finge che avesse la deliberazione di componere questo poema. Se mai torni a veder; tu, Dante, lo dolce piano: a quelli dell’inferno pare questo mondo dolce. Questo piano è lo piano della Lombardia e della Romagna; e per questo vuole intendere, Se mai torni; a veder la Lombardia, ricordati di me, Che da Vercelli: Vercelli è una terra posta nel capo di Lombardia in monte, onde comincia quel piano, e però dice: a Marcabò dichina; cioè discende a Marcabò: Marcabò è una terra nella fine della Romagna, in sul lito di verso Vinegia. E fa sapere a’ due miglior di Fano; qui dà l’ambasciata sua a Dante, che predica a messer Guido et ad Angiolello ch’erano li maggiori e migliori cittadini di Fano, che è una terra in Romagna, come messer Malatestino da Rimino, ch’era cieco dell’uno occhio, li farà uccidere a tradimento: imperò che li farà venire, sotto spezie di parlamentare con loro, a uno luogo comune che si chiama la Catolica, e quivi li farà ammazzerare, e poi caccerà la parte loro di Fano e piglierà la terra per sè; e però seguita: A messer Guido et anco ad Angiolello; qui à nominati li detti cittadini di Fano, Che, se l’antiveder qui non n’è vano; questo dice: però che l’infernali per congetturazione possono prevedere, e non altrimenti; o in quanto è loro revelato, come toccato fu di sopra, Gittati saran fuor di lor vasello; cioè saranno l’anime lor gittate per forza fuori de’ corpi: lo corpo è vasello dell’anima, E mazzerati; cioè gittati in mare: ecco il modo come saranno morti: mazzerare è gittare l’uomo in mare in uno sacco legato con una pietra grande, o legate le mani et i piedi et uno grande sasso al collo, presso alla Catolica; ecco che nomina il luogo ove fu il detto tradimento, Per tradimento d’un tiranno fello; cioè falso e rio, com’è messer Malatestino da Rimino. Tra l’isola di Cipri e di Maiolica: Cipri è un’isola posta nel mare Mediterraneo verso l’oriente più su che veruna, e Maiolica è nell’occidente; quasi voglia dire: In tutto il mare Mediterraneo Non vide mai sì gran fallo Nettuno; cioè lo idio del mare che si chiama poeticamente Nettuno, Non da pirati; cioè da corsali, non da gente argolica; cioè di mare o vero naviganti: Argos fu chiamata la prima nave de’ Greci ch’andò per mare. Quel traditor; cioè messer Malatestino da Rimino, che vede pur con l’uno 34; perchè è cieco dell’altro occhio, E tien la terra; cioè Arimino, che tale è qui meco, questo dice, perchè Curione romano, del quale si dirà di sotto, Vorrebbe di vederla esser digiuno; cioè che non la vorrebbe mai aver veduta: questo dice, in quanto non vorrebbe aver le pene ch’egli à per quello che adoperò, quivi; ma non, perchè si penta di quel ch’adoperò perchè non si può pentere, perchè è ostinato nel peccato, Farà venirli a parlamento seco; cioè messer Malatestino li sopra detti due; messer Guido et Angiolello, farà venire a parlamento con lui, Poi farà sì; cioè a lor due, che al vento di Focara Non farà lor mestier voto, nè preco: Focara è uno luogo in mare nella Marca tra Pesaro e la Catolica ove è sì gran tempesta di vento, che quando li naviganti vi passano, per la fortuna si botano 35 e fanno priego ai Santi; ma quando l’uomo è morto, non gli è bisogno nè voto, nè priego a campare; e però vuol dire che li farà uccidere; cioè gittare in mare, come fu detto di sopra, sicché non fia bisogno loro di tornare per quello mare a casa loro, e far voto, nè priego a Focara per la tempesta del vento.
C. XXVIII — v. 91-102. In questi quattro ternari l’autor nostro finge ch’elli domandasse di Curione, e come Piero da Medicina gliel mostrasse; e però dice: Et io a lui; cioè et io Dante dissi, a lui; cioè a Piero da Medicina: Dimostrami e dichiara; quel che seguita, Se vuoi ch’io porti su di te novella; questo dice, per tanto che di sopra nel pregò quando disse: Rimembriti ec.— , Chi è colui della veduta amara; ecco quel ch’addomanda che dichiari; cioè chi è colui che vorrebbe ancora esser digiuno d’aver Veduto Arimino. Allor puose la mano; cioè sua lo detto Piero, alla mascella D’un suo compagno, e la bocca li aperse, Gridando: Questi è desso, e non favella: imperò che avea tagliata la lingua, oltre all’altre tagliature che elli avea come lo detto Piero. E finge l’autore che questi fosse Curione il quale fu nobile romano, e fu grandissimo legista e molto eloquente, e questa eloquenzia adoperava per chi gli dava prezzo e pagamento, non guardando ad alcuna dirittura; e per tanto finge l’autore convenientemente che in vendetta di ciò li fosse tagliata la lingua, e che fosse di sì fatta condizione l’afferma Lucano, quando dice: Audax venali comitatur Curio lingua. Questo Curione era molto avaro e fu al tempo della discordia tra Cesare e Pompeio; e vedendo elli che Cesare tornava dell’occidente con grandi ricchezze, per avere di quelle ricchezze, prese la parte di Cesare; e cacciato uscì di Roma et andossene co’ tribuni che favoreggiavano Cesare, e però erano cacciati di Roma, ad Arimino ove Cesare era giunto, e non s’ardiva di venire più oltre, e tanto scandalo mise tra Cesare e Pompeio e li altri cittadini di Roma, confortando Cesare che venisse a Roma e pigliasse la impresa contra Pompeio e li altri. Di che Cesare venne oltre innanzi, e prese Roma e perseguitò Pompeio ch’era stato suo genero e li altri grandi cittadini di Roma tanto, che dopo la sconfitta di Tessaglia, Cesare fece Pompeio e tutta la sua famiglia morire, e Catone e molti altri nobili e grandi cittadini di Roma, onde poi prese la signoria. E però l’autore finge convenientemente che Curio sia punito in questo luogo con quelle pene che dette sono di sopra, perchè divise lo genero dal suocero, e l’uno cittadino dall’altro e li cittadini contra la sua città. Questi; cioè Curio, scacciato; di Roma co’ tribuni, il dubitar sommerse In Cesare, affermando che il fornito; cioè l’apparecchiato, Sempre con danno l’attender sofferse; secondo che dice Lucano che Curio disse a Cesare; cioè: Tolle moras: semper nocuit differre paratis. — O quanto mi parea sbigottito; dice ora l’autore di Curio, perchè quando andò a Cesare dice Lucano ch’elli disse: Audax venali comitatur Curio lingua; sicché allora fu ardito e linguacciuto, et ora per lo contrario parea sbigottito, Con la lingua tagliata nella strozza; perché nel mondo l’ebbe tanto sciolta a commetter e parlar male, Curio; ora lo nomina l’autore, che a dire fu così ardito! come detto è di sopra.
C. XXVIII— v. 103-111. In questi tre ternari l’autor nostro finge che tra costoro fosse il Mosca de’ Lamberti da Fiorenza. Questo messer Mosca fu cavalieri e fu de’ Lamberti, casato nobile e grande e furono una cosa con li Uberti, et erano in grande stato con li altri ghibellini di Fiorenza. E venne caso che fu fatto 36 parentado tra li Amidei (erano ghibellini et una con li liberti e Lamberti); et i Buondelmonti (erano de’ capi di parte guelfa) e fu in questo modo; che uno giovane de’ Bondelmonti dovea prender per moglie una giovine delli Amidei 37; et ordinato il matrimonio, alcuni per aontare la detta setta delli Uberti e di lor seguaci e disfare il matrimonio, confortarono il giovane che dovesse lasciare quel parentado, profferendoli una bellissima fanciulla de’ Donati, allora grandi capi di parte guelfa, assegnando al giovane loro ragioni, e fra l’altre che la fanciulla che avea presa era rustica e sozza. E indotto il giovane a questo e li suoi maggiori e congiunti consenziendo a ciò, e venuto il giorno che si doveano adunare le parti, secondo l’usanza di Fiorenza, li Donati feciono ragunata, come li Amidei, e quello del Bondelmonti con la sua ragunata quando fu a mezza via da casa i Donati 38, una donna de’ Donati, madre della fanciulla promessa, uscì fuori com’era ordinato e disse al giovane del Bondelmonte: Ove vai tu, che se’ così bel giovane? e vai a sposare una bertuccia? Se tu vuoi costei, io la ti darò. Costui accettando, sposò questa figliuola e tornossi a casa co’suoi; onde li Amidei sdegnati e li Uberti e Lamberti e li altri loro seguaci, saputa la cagione, si tennono tutti fortemente ingiuriati da costui, e ristretti insieme feciono consiglio quello che dovessono fare di questo fatto; e dopo molti ragionamenti lo detto messer Mosca, dimostrando con molti argomenti lo grande oltraggio che questo giovane e’ suoi aveano fatto loro, consigliò che questo giovane si dovesse uccidere. E perchè forse era chi dicea una, chi un’altra 39, esso messer Mosca disse: Cosa fatta capo à; quasi volesse dire: Facciasi questo 40, qualche fine avrà poi la guerra. E dato l’ordine, lo giovane fu morto, perchè tutta Fiorenza ne fu divisa e ridotta a parte: chi con l’una setta e chi con l’altra, e per tutta Toscana si dilatò questa maladizione, che chi favoreggiò l’una parte e chi l’altra. E finalmente li Uberti e la parte ghibellina furono cacciati di Firenze; e però finge l’autore che questo messer Mosca, perchè seminò questo scandalo tra cittadini della sua città e del contado, et ancora dell’altre città, sia tagliato come li altri detti di sopra; et ancor più che abbie 41 le mani mozze, perchè diede lo consiglio d’operare le mani all’omicidio; e questa è conveniente pena, e però dice: Et un, ch’avea l’una e l’altra man mozza; cioè messer Mosca, Levando i moncherin per l’aere fosca; cioè oscura, Si che il sangue facea la faccia sozza; cioè per sì fatto modo, che fregandolesi al volto s’imbruttiva il viso di sangue, oltre alle altre ferite ch’avea del naso e dell’orecchie, Gridò: Ricordera’ti ancor del Mosca; cioè quando sarai nel mondo, Che dissi, lasso; cioè dolente! Capo à cosa fatta; cioè quando diede il consiglio che il giovane fosse morto, Che fu mal seme per la gente tosca; cioè di Toscana, che tutta entrò in parte et in divisione per questo, Et io; cioè Dante, li aggiunsi: E morte di tua schiatta: però che i Lamberti et anche li Uberti et altre schiatte assai ne furono disfatti, Perch’elli accumulando duol con duolo; cioè accrescendo dolore con dolore e sì per la gente di Toscana come per la sua schiatta; e segu’a dir: Sen gìo, come persona trista e matta; dice trista: imperò che dato li avea tristizia lo ricordo che li fece l’autore; e dice matta: imperò che da mattia venne a dare tal consiglio, e non guardare lo fine e dire: Cosa fatta capo à.
C. XXVIII — v. 112-126. In questi cinque ternari l’autor nostro dimostra la quarta spezie delle pene, che à finte essere nella nona bolgia; cioè che v’erano busti sanza capo, et andavano come li altri al tondo della bolgia con la testa in mano e con essa parlavano come si 42 fosse congiunta col busto. E convenientemente finge questa pena a coloro che seminarono scandalo tra’ congiunti per sangue, come tra padre e figliuolo, e tra fratello e fratello: e bene si conviene a loro tal pena che, come ànno divisi quelli che deono essere uno per congiunzione di sangue; così ellino sieno divisi nel capo loro sì 43, che il capo e il busto che deono essere uno a mantenere il corpo, ovvero la vita corporale, sieno divisi runo dall’altro. Et allegoricamente si può intendere di quelli del mondo che sono in tal peccato: imperò che sempre ànno e portano diviso il capo dal busto: imperò che una cosa dicono con la lingua et altro anno nel cuore, sicchè l’uno è diviso dall’altro; e però dice l’autore: Messer Mosca se n’andò come persona trista e matta. Ma io; cioè Dante, rimasi a riguardar lo stuolo: stuolo è moltitudine di galee da .... in su; ma qui si transume e ponsi per la multitudine di quell’anime ch’erano della quarta spezie, E vidi cosa, ch’io; cioè Dante, avrei paura; cioè temerei, Sanza più pruova; cioè di me, di contarla solo; questo dice l’autore, per fare verisimile la sua fizione e per accordarsi con uno suo detto che dice nel C. xvi Sempre a quel ver, che à faccia di menzogna ec.-, Se non che coscienzia mi assicura; cioè a dire e a porre sì fatta pena, chente 44 alla ragione detta che si debba convenire a sì fatto peccato, La buona compagnia; questo dice della coscienzia la quale, quando sa che l’uomo parla la verità, sicuramente fa parlare altrui, che l’uom francheggia; cioè lo fa gagliardo e sicuro, Sotto lo sbergo del sentirsi pura; come lo coretto 45 dà franchezza all’uomo di mettersi tra’ ferri; così la purità del vero dà sicurtà da parlare, perchè noi sappiamo bene che questo, che fìnge di sì fatte pene, non è vero; ma fingelo per una convenienzia, et in questo sta la verità; cioè che tal pena è conveniente. Io vidi certo, et ancor par ch’io il veggia; cioè io Dante: imperò che sempre mel pare avere nella memoria, o vero fantasia, Un busto sanza capo; cioè lo corpo sanza la testa, andar, sì come Andavan li altri della trista greggia; cioè intorno per la bolgia; e dice li altri della trista greggia: greggia è stalla e mangiatoio 46 di pecore sì, che qui la pone per la bolgia la quale era loro abitacolo pieno di tristizia. E il capo tronco tenea per le chiome; cioè per li capelli, Pesol con mano; cioè pendente giù dalla mano, a guisa di lanterna; cioè a modo 47 dell’uomo porta una lanterna, E quel; cioè capo, mirava noi; cioè me e Virgilio, e dicea: O me; perchè si lamentava, però dicea così! Di sè facea a sè stesso lucerna; cioè quel capo guidava l’altro corpo, e rendeva il veder delle cose, come fa la lucerna a chi la porta in mano, Et eran due in uno; cioè due parti divise in uno individuo, et uno; individuo, in due; parti divise cioè lo capo e il busto, la qual cosa è impossibile: imperò che uno individuo si chiama uno uomo: imperò che non si può dividere, sicché diviso fia quel che è prima; e qui diviso era quel che prima, innanzi che si dividesse; e però aggiugne: Com’esser può; questo è uno individuo 48, sia diviso quel che prima, innanzi che si dividesse, Quei il sa, che su governa; cioè Idio, che governa ogni cosa di sopra, sa come questo impossibile sia possibile. Et è qui da notare che molte cose sono impossibili, e però sono li miracoli che non sono possibili per via di natura; ma per potenzia di Dio; e però finge qui l’autore che questo sia miracolosamente fatto per la potenzia di Dio, per convenienzia di giustizia.
C. XXVIII — v. 127-142. In questi cinque ternari et uno verso dimostra l’autore chi era quello del quale à detto di sopra, et induce lui a parlare di sè stesso, dicendo così: Quando diritto a piè del ponte fue; cioè questi del quale fu detto di sopra, Levò il braccio alto con tutta la testa; la quale portava in mano, Per appressarne le parole sue; cioè per approssimare a noi le sue parole, le quale parlava quella testa così divisa, Che; cioè le quali parole, fuoro: Or vedi la pena molesta; la quale io sostengo, Tu; cioè Dante, che vai veggendo i morti, spirando; cioè vivendo, Vedi s’alcuna è grande come questa; quasi dica: Nulla. E perchè tu di me novelle porti; cioè suso nel mondo, dice questa testa così divisa, Sappi ch’io son Beltram dal Bornio, quelli; si nomina questo peccatore, dicendo che fu Beltramio dal Bormio: fu cavaliere del re Riccardo d’Inghilterra, molto onorato; lo quale essendo in grazia del detto re, e dandoli il re molta fede, seminò tanto scandolo tra il detto re Riccardo e il detto re Giovanni suo figliuolo, che feciono guerra insieme e combatterono insieme; e per questo finge Dante che sia posto a tal pena, la quale è a lui conveniente come mostrato fu di sopra; e però dice: quelli Che diede al re Giovanni; figliuolo del re Riccardo, i mai conforti; cioè li rei conforti, che si ribellasse contra il padre; e però soggiugne: Io feci il padre; cioè lo re Riccardo, e il figlio; cioè lo re Giovanni, in sè; cioè contra sè, rebelli; perchè guerreggiarono insieme: Achitofel non fe più d’Assalone, E di Davit; qui fa comperazione di sè ad Achitofel principe della milizia di Davit, che mise tanto scandalo tra lui e il suo figliuolo Assalone, che combatterono insieme, et Achitofel uccise in quella battaglia Assalone; di che Davit ne fu molto tribolato, come scritto è nella Bibbia nel Libro de’ Re, coi malvagi pungelli; cioè coi malvagi consigli e conforti. Perch’io parti’ così giunte persone; cioè come il padre e il figliuolo; et assegna qui la cagione della convenienzia della sua pena: Partito porto il mio cerebro, lasso; cioè io abbattuto e tristo porto partito lo mio capo, intendendo lo capo per lo cerebro! Dal suo principio; cioè dal cuore ch’è fonte di vita al cerebro et a tutti li membri del corpo quanto allo spirito vitale, e il fegato è quanto al sangue et al nutrimento, che è in questo troncone; cioè lo cuore e il fegato, che sono principio della vita del cerebro, sono in questo busto diviso da me: Così si osserva in me lo contrapasso 49; cioè com’io passai contra lo debito della ragione, facendo tale divisione; così la giustizia passa contra lo debito della natura in rendermene debita pena; e così conchiude la sua pena essere conveniente. E qui finisce lo xxviii canto: seguita lo xxix.
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Note
- ↑ incominciando questo
- ↑ C. M. nella prima decade, libro
- ↑ 3,0 3,1 C. M. seno
- ↑ C. M. feriti e
- ↑ C. M. gente intorno,
- ↑ Altrim. lo quale era uno borgo, posta nella provincia di Puglia, benchè
- ↑ C. M. tanto che tutta la soggiogò
- ↑ C. M. del re
- ↑ C. M. fuori delle insidie et
- ↑ C. C. sconfisselo
- ↑ C. M. dai congiunti per sangue; dipartimento
- ↑ C. M. l’uno orecchio, quale -. Orecchie ripete più volte il nostro Codice, come vedesi adoperato in altre antiche scritture per la nota conformità di terminazione. Il figliole, il fume, il pome, il profete, e tali s’incontrano presso i nostri Classici. E.
- ↑ C. M. et eresia
- ↑ C. M. finte - Il nostro Cod. - fitte - alla maniera latina - E.
- ↑ C. M. o vero a meris, che viene
- ↑ C. M. al tuppetto,
- ↑ La imperfezione di questo periodo non dee recare maraviglia ai pratici di nostra lingua, perchè non di rado ne avranno scorte in altri Classici de’ primi secoli. E.
- ↑ C. M. Corcania.
- ↑ C. M. Sergio
- ↑ Antiocia per Antiochia trovasi in Ricordano Malespini «si chiamano il legnaggio d’Antiocia». E.
- ↑ C. M. scoppiato,
- ↑ storpiati, altrim. - scoppiati; cioè
- ↑ C. M. lo scisma.
- ↑ Aviamo; per la nota uniformità di cadenza, la quale pure si cambiò temano, vedemo in temiamo, vediamo. Avemo si mutò in aviamo, a cui d’ordinario si preferisce abbiamo. E.
- ↑ C. M. questa bolgia dove
- ↑ C. M. per le cose fatte
- ↑ C. M. li desse una imbasciata,
- ↑ C. M. essere poste le poste, e dovea
- ↑ Co; con, gittato via l’n, come in no per non; e questo sempre a cagione d’ eufonia. E.
- ↑ Se; voce legittima e regolare da sere, tronco di essere. E.
- ↑ C. M. Cesari
- ↑ C. M. orecchio,
- ↑ C. M. che fiangheggia
- ↑ Costrutto mentale, dove riesce facile intendere: che vede pur con l’uno occhio. E.
- ↑ Si botano; si votano, pel consueto scambio del v in b, come imbolare per involare e simili. E.
- ↑ C. M. fu incominciato parentado
- ↑ C. M. delli Uberti;
- ↑ Notisi proprietà di nostra lingua; di tralasciare talora la particella di, indicante cagione formale. Da casa i Donati; da casa dei Donati. E.
- ↑ Ellissi, dove facilmente s’intende: chi dicea una cosa, chi un’altra cosa. E.
- ↑ C.M: questo, bene arà poi fine la guerra.
- ↑ Abbie; oggi meglio abbia, ma in sul principio di nostra lingua il singolare del presente congiuntivo terminò in e; allette, pinghe, ec. E.
- ↑ C. M. come se fosse
- ↑ C. M. nel loro corpo sì,
- ↑ C. M. pena quale la ragione ditta che è che si debbia
- ↑ C. M. coretto, o vero panzera, dà
- ↑ C. M. mangiatoia
- ↑ C. M. a modo che l’omo
- ↑ C. M. questo che uno individuo . . . prima innanti è che si dividesse,
- ↑ Bernardo Segni dichiarando l’Etica d’Aristotile, riferisce questo verso e vi aggiugne «Questo contrapasso da’ nostri dottori di legge è detto la pena del talione, perchè tale sia il castigo, quale è stato il danno». Lib. v. E.