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c a n t o    xxviii. 707

22Già veggia per mezzul perder o lulla,
      Com’io vidi un, così non si pertugia,
      Rotto dal mento in fin dove si trulla.
25Tra le gambe pendevan le minugia,
      La curata parea, e il tristo sacco1
      Che merda fa di quel che si trangugia.
28Mentre che in lui veder tutto m’attacco,
      Guardommi, e con le man s’aperse il petto,
      Dicendo: Or vedi come mi dilacco;
31Vedi come storpiato è Maometto:2
      Dinanzi a me sen va piangendo Alì
      Fesso nel volto dal mento al ciuffetto:
34E tutti li altri, che tu vedi qui,
      Seminator di scandali e di scisma
      Fuor vivi; e però son fessi così.
37Un diavol è qua dietro, che n’ascisma
      Sì crudelmente, al taglio della spada,
      Rimettendo ciascun di questa risma,
40Quando avem volta la dolente strada:3
      Però che le ferite son richiuse
      Prima, ch’altri dinanzi li rivada.
43Ma tu chi se’ che in su lo scoglio muse,4
      Forse per indugiar d’ire alla pena,
      Ch’è giudicata in su le tue accuse?
46Nè morte il giunse ancor, nè colpa il mena,
      Rispose il mio Maestro, a tormentarlo;
      Ma per dar lui esperienzia piena,

  1. v. 26. C. M. La corata apparea al tristo sacco
  2. v. 31. C. M. come scoppiato
  3. v. 40. Avem; voce primitiva dall’infinito avere. E.
  4. v, 43. muse. Musare; tenere il viso fiso, guardare fisamente. E.