Comedia di Iacob e Ioseph/Atto primo

Atto primo

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ATTO PRIMO

Nel quale si tratta la vita di Ioseph figliolo di Iacob.


SCENA I

Iacob, Ioseph, Sjban servo.

Iacob.   Fa’, Ioseph figliol mio, che ti stia a mente

tutto quel ch’io t’ho detto, e il mio precetto
in ogni tua azion si ripresente;
     e benché molte cose io t’abbia letto,
e molte con parole ancora espresso,
tutte al fin si riducono a uno effetto.
     Che se in questa tua etá novella, adesso
c’hai sedici anni, tutte non le imprende,
questo sol ne la mente ti sia impresso:
     Dio teme sempre et a Lui grazie rende,
perché la vita nostra e nostra sorte
tutta da Lui, come suo autor, dipende.
     Questo ti pò bastar, con queste scorte
se menerai tua vita, abbi per certo
che non t’offenderan né mal né morte.
Ioseph.   Io ’l farò voluntier, ma essendo incerto
che cosa è questo Dio, par che mi faccia
men pronto a l’obedire e meno esperto;

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     però ti prego che narrar ti piaccia

che cosa è Dio, dov’è sua abitazione,
che nome è il suo, che forma ha la sua faccia.
Iacob.   Figliol mio caro, la tua questione
risolver non si pò per mortai lingua,
ché tra Dio e noi non è proporzione;
     né si trova intelletto che distingua
o che descriver possa la sua essenza:
per questo adunque il tuo voler s’estingua.
     Per ora aver ne pòi questa scienza,
ch’el è primo fattor di quei che sanno
et è infinita e summa sapienza.
     Questo ti basti, e non pigliare inganno
di credere o adorar cosa creata,
ché caderesti ne l’eterno danno.
Ioseph.   Padre, fu mai al mondo anima nata
che questo Dio vedesse o gli parlasse,
fu mai persona che gli fusse grata?
Iacob.   Figliol, le tue dimande non son basse:
giá non è la tua etade ancor capace
a intenderlo, s’io ben tei dichiarasse.
     In certi modi, come a Lui sol piace,
s’è dimostrato in parte et in effetto
solo ad alcun, per dargli eterna pace:
     si come al nostro padre Adamo, eletto
primo nel mondo, e come anche a Noè,
che santo visse inanti il suo conspetto;
     si come al tuo bisavo ancora fe’,
io dico Àbramo, che gli fu si grato,
che in vari modi a dimostrar si die’.
     In questo modo ancora fu onorato
l’avo tuo Isac, et io per sua clemenza
di questo don mi reputo beato.
     Niuno di noi però mai sua presenza
in terra vide, ché l’umana luce
attingere non pò la sua esistenza.

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     Ma attendi pur, figliol, abbil per duce,

e per tua guida e scorta e tuo signore,
ché questo a dimostrarsi ai bon l’induce.
Ioseph.   Ma che modo ho a tener per fargli onore
e farmi grato a lui, tu me l’insegna,
acciò ch’acquistar possa anch’io il suo amore.
Iacob.   Figliol, questa dimanda è iusta e degna:
tei dirò in breve, attendi al parlar mio,
e di tenerlo in cor sempre t’ingegna.
     Fa’ che in Lui fermi tutto il tuo desio,
e Lui sol temi et ama e Lui ringrazia,
e Lui sol lauda, e fa’ sii casto e pio.
     Del resto, se acquistar vói la sua grazia,
non fare ad altri quel che s’altri fèsse
in verso te, l’aresti tu in disgrazia;
     e pel converso, quel che tu volesse
ch’altri fèsse ver’ te, poni ancor cura
farlo verso altri, come a te il facesse.
     Questa è la santa legge di natura,
questa per ora basti a tua salute,
questa fará la vita tua secura.
Ioseph.   Io prego adunque Dio che Lui m’aiute,
e Lui drizzi i mei passi ad obedirte,
e ad amar Lui mi dia possa e virtute.
     Io voglio ancora questo, o padre, dirte,
che mai mi partirò da’ toi precetti:
comanda, padre mio, ch’io vo’ sequirte.
     Ma ben ti prego pei toi dolci affetti,
mettimi in capo la tua santa mano,
acciò che li atti mei sian benedetti.
Iacob.   Nissun tuo priego mai con me fu invano.
Caro figliol, che sei la mia dolcezza,
che Dio ti faccia sempre salvo e sano!
     Sai ch’io t’ho generato in mia vecchiezza,
e sopra i toi fratelli tutti quanti
t’ho amato et amo con gran tenerezza.

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     Ecco la mano in capo, fatti inanti,

ti benedico, e il gran Fattor di sopra
con tutto ’l coro de’ spirti soi santi,
     de la sua eterna grazia ti ricopra,
et ogni tuo pensiero et azione
sempre governi, ogni parola et opra.
     E per fermarti ne la mia opinione...
Vien qua, Sibán, va in casa prestamente,
guarda dove le veste si ripone:
     e cerca ben fra quelle attentamente,
e quella tunicliella ricamata
d’oro e di seta si politamente,
     portala qui. Quella ti fia donata
pel tuo portare, Isepe, acciò s’intenda
quanto la tua persona a me sia grata.
Siban.   Ecco la vesta: se vói ch’io la stenda,
questa mi par secondo il tuo disegno;
che la sia dessa par che si comprenda.
Iacob.   Dolce mio caro e prezioso pegno,
Isepe mio, questo ti metto in dosso,
questo de l’amor mio ti sia per segno.
Ioseph.   Io ti ringrazio, padre, quant’io posso,
con tutta la mia mente e tutto il core,
che mai dal tuo voler será rimosso.
     IACOB. Ben ti ricordo, acciò non pigli errore
per tua semplicitá, che in alterezza
mai non ti levi per il mio favore;
     ma con ogni umiltate e con bassezza
sempre ti porti, perché l’umiltate
al fin conduce l’omo in grande altezza.
     Ma vedo venir qua queste brigate:
e’ son, si come io vedo, i toi fratelli,
ch’aranno fòr le pecore inviate.
     Espertamente qui vengono aneli’elli.
In questo mezzo tu, Sibán, va’ drento,
e per far sacrificio dui vitelli
     fa’ che apparecchi: in ciò non esser lento.

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SCENA II

Dan, Gad, Ruben con li altri sette fratelli, Iacob e Ioseph.

Dan.   Non è piú bella cosa in compagnia,

che Tesser tutti eguali unitamente
e che nessuno avvantaggiato sia,
     tra quei che son fratei massimamente:
ché come il padre un piú de li altri apprezza,
l’odio convien che nasca incontinente.
Gad.   Dan dice il ver. Deh, guarda gentilezza
di Iacob! ancor noi siam soi figlioli,
e lui Ioseph solo ama et accarezza.
     Le fatiche portiamo pur noi soli,
con le bestie in campagna a le pasture,
e Ioseph solo par che in alto voli!
     Lui si sta con Iacob senz’altre cure,
con veste ricamate e preziose:
l’ho troppo in odio a causa tal venture!
Ruben.   Non sono tal materie si noiose
come le femo, se con bon pensiero
noi riguardiamo tutte queste cose.
     Niuno noi negará, per dirne il vero,
che non abbino i padri questa usanza
d’amar piú quel fígliol ch’è men altero,
     e che ha men anni e che ancor li altri avanza
di puritá e ch’è nato in sua vecchiezza:
in quello par che mettin sua speranza.
     Poi ch’ama Isepe con tal tenerezza
il nostro vecchio padre, e noi dovemo
esser contenti de la sua allegrezza;
     poiché è del proprio sangue e che sapemo
che giá per questo men non ama nui.
Un’altra volta di ciò parlaremo,

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     perché venirli in qua vedo lor dui:

meglio è che ’l sappia quel che far vogliamo,
e pigliaremo licenza da lui.
     Diletto padre, noi ti salutiamo,
e prima che diciamo altre parole,
la tua benedizion ti dimandiamo.
Iacob.   Cari figlioli mei, l’eterno Sole,
Dio, come creator, vi benedica
e dia a ciascun di voi quello che ’l vòle.
Ruben.   A questi mei fratei piace ch’io dica,
et io dirò. Abbiamo giá inviate
le nostre gregge e armenti con fatica
     fora in campagna, e con lor sono andate
le guardie lor de’ cani e de’ famigli,
e da noi seran presto seguitate.
     Ma come a noi convien, che ti siam figli,
te ne avvisamo ’nanti al partir nostro,
per aver toi ricordi e toi consigli.
Iacob.   Laudo e commendo in tutto il parer vostro:
li angioli santi vi sian scorta e guida.
Farete adunque quel ch’io vi dimostro.
     Sempre onorate Dio. Chi in Lui si fida
di bene in meglio va, si che per questo
il suo timor da voi mai si divida.
     Amatevi l’un l’altro, perché è onesto
tra fratelli l’amarsi, et al suo offizio
ciascun sia diligente, pronto e desto.
     L’inerzia e l’ozio è causa d’ogni vizio,
e di tristi pensieri empiono il petto.
Vegliate adunque e state in esercizio;
     ché del star troppo ne le piume e in letto,
altro che vani insomni non s’acquista,
col pei’der tempo, e qualche mal concetto.
Ioseph.   Questo dir de li insomni mi racquista
ne la memoria i somni, quali ho fatti,
che mi parea d’averli quasi in vista.

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     Udite, fratei mei, quali eran li atti,

che mi parea veder: io mi pensava
che i gran dei campi ancor non eran tratti,
     e le lor cove ognun di noi ligava.
Poi, stando l’altre cove in terra stese,
la mia per prima in piedi si levava,
     poi l’altre vostre; e allora, come accese
di reverenza, intorno a la mia stando,
ad adorarla tutte eran cortese.
Dan.   Vedete quel che va costui parlando!
Di’ poi che invidia et odio sian cagione,
e non tal cose, ch’el va seminando!
     Vorresti mai con questo tuo sermone
dir ch’esser signor nostro ancor dovessi,
e subiugarci a la tua devozione?
Ioseph.   Essendo ancor dal sonno i sensi oppressi,
vidi un insomnio ancor di cose belle.
E’ mi parea vedere chiari e espressi
     il sol, la luna e undici altre stelle,
che m’adoravan con sua ardente face,
si come alcun s’adora quando eccelle.
Iacob.   Insomni pur ciascun come gli piace!
Voi, mei figlioli, al cammin vostro andate
in hon viaggio, e con guadagno e pace.
Ruben.   A Dio ti lassam, padre. Or non curate,
fratei, vi prego, questo van sognare,
ch’è d’un fanciullo, se voi ben mirate.
     Andiam pur presto noi, si che arrivare
possiam li armenti e ritrovar bon loco,
dove noi li possiam ben pascolare.
Iacob.   Fatti in qua inanti, Isepe, dimmi un poco,
questo insomnio c’hai fatto che vói dire?
è vero insomnio, oppur detto da gioco?
     Non curar da qui inanti riferire
simili insomni, che arrecar ti ponno
invidia et odio, che son da fuggire.

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     Credi tu che per quel c’hai visto in sonno,

tuo padre e madre e toi fratelli in terra
ti debbino adorar, che maggior sonno?
     Guarda che per li insomni spesso si erra:
or ne va’ in casa, e drento al tuo secreto,
laudando sempre Dio, tuo pensier serra. —
     O Dio, che stando immobile e quieto
il tutto movi, et hai ne le tue mano
le nostre voluntá senza divieto,
     tutto quel che si pensa a te fia piano,
quel che si dice e fa ti fia palese,
il futuro, il passato, il vero, il vano.
     Perdonami, Signor, tutte le offese:
di poi ti prego, pel tuo nome santo,
che d’una grazia tu mi sii cortese.
     Li insomni di Ioseph, qual amo tanto,
Signor, rivolgi in bene et in letizia,
che non sian causa a me né altrui di pianto.
     Io so che da la fronte è la divizia
de la tua grazia e spesso in l’intelletto
dal sonno del futuro vien notizia;
     et io considro pur nel mio concetto
che non senza misterio il figlici mio
veduto ha il somnio e a qualche grand’effetto.
     Tu stimma causa, vivo e vero Iddio,
converti in bene questa sua visione:
laudato sia il tuo nome santo e pio.
     Or vado drento a far mia orazione
col santo sacrificio, perché spero
che Dio ara a’ mei figli remissione,
     e conduralli al dritto suo sentiero.

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SCENA III

Ioseph parla solo:

     Non parla indarno il vecchio padre mio,

col savio suo ricordo che ’l tacere
nocer non pò, né far effetto rio,
     ma il parlar si; ché, spesso, a non tenere
quel che si sa, chi ’l dice, non volendo,
fa offesa a quelli a chi lo fa sapere.
     Questo vói dir mio padre, ché comprendo
che alcun dal mio parlar sia forsi offeso,
ch’io noi vorria, né il so né questo attendo.
     È stato in mala parte il mio dir preso,
et io per mal noi dissi, né ancor so
di che importanza sia né di qual peso.
     Semplicemente io parlo e a bon fin vo,
sallo il mio corc: ma per voluntá
mai non offesi né mai offenderò.
     La mia natura ben mio padre sa,
ma cosí mi consiglia perché intende
in simil cose come il mondo va;
     ché chi non vòle offender, non offende
quanto è per lui, ma chi offeso si tiene,
dal suo estimare e dal suo creder pende.
     Ma sai quel ch’io farò? di quel che avviene
poco curando, pronto a l’obedire,
tacendo, amando, attenderò a far bene:
     e dica pur ciascun quel che vói dire!

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SCENA IV

Siban servo dice cosí solo:

     Tutto quel che bisogna al sacrifício,

foco, acqua, incenso e dui vitei ben grassi,
si come apparecchiai, per far mio officio,
     cosí il vecchio patron, con lieti passi
montando il colle, su l’altare ha offerto
devotamente, come dai bon fassi;
     e in genocchion, con braccia e petto aperto,
con li occhi al ciel, sta questo solo orando,
che guardi i figliol soi dal caso incerto.
     Poco spazio stará cosí pregando:
tanto è tenero padre e diligente,
che giá saper di lor va meditando.
     Son dieci giorni, s’io l’ho bene a mente,
che i soi figlioli andorono in pastura;
e perché nova alcuna non se sente,
     vói mandarli a veder perché ha paura
sempre di qualche mal, perché ha provato
com’orno esperto. Et io vo’ poner cura
     di andare a far quel che m’ha comandato.

SCENA V

Iacob e Ioseph.

Iacob.   Non posso riposar nel mio secreto.

De’ mei figlioli s’io non sento, mòro:
forza è saperne, s’io vo’ star quieto.
     Vien qua, Ioseph, e lassa il tuo lavoro.
Toi fratelli in Sichém sono in pastura;
io vo’ che tu ne vadi insino a loro.

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Ioseph.   Eccomi, padre mio; quanto mi dura

la vita e forze mie, son presto e pronto:
comandami pur, padre, a la secura.
Iacob.   Va’ e vedi se stan bene, e sappi a ponto
se van le cose prospere per essi
e pel bestiame, e rendine bon conto.
     Tu ti parti d’Ebrón: fa’ che non cessi
per fino che in Sichém tu sii arrivato.
Va’ presto, e torna e fa’ come i bon messi.
Ioseph.   Il farò voluntieri, anzi mi è grato,
perché desidro di vederli anch’io,
si come a’ mei fratelli affezionato.
     Servirò insieme il mio col tuo desio:
anderò a casa a tòr mio bastoncello,
e per la porta del giardin m’invio.
Iacob.   Va’, che sii benedetto! Mai fratello
fu simile a costui verso li soi,
se ben è giovinetto e tenerello.
     Dio l’accompagni e riconduca a noi
salvo e securo, il che spero sera
et io contento restarò dappoi.
     Son certo che ’l cammin bono averá,
perché da qui in Sichém la via è si corta.
Lui che va voluntier, camminerá
     via di bon passo, e questo mi conforta
ch’el è destro e leggier di sua persona:
sera lá presto, il cor le gambe porta.
     Or vo’ veder qui in casa chi ragiona.

SCENA VI

Ioseph e Hiras.

Ioseph.   Mi par mill’anni i cari mei fratelli

poter trovare, e saper come stanno,
che voluntier mi vederanno anch’elli,

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     per intender di noi, se non m’inganno,

e di mio padre, che mo sta in pensiero
per l’assenza di loro, et in affanno.
     Ecco ch’io so’ in Sichém, e non è il vero
che sian qua i mei fratelli. Or dove andrò?
che via debbo pigliare o qual sentiero?
     Dove debia voltarmi io non lo so:
s’io vado et entro lá in quel vallone,
dubito certo ch’io mi smarrirò.
Hiras.   Olá, di’ su, che cerchi tu, garzone?
M’accorgo che tu sei quasi smarrito.
Che vai facendo in questa regione?
Ioseph.   Dio ti salvi, fratei, io avea sentito
che qui in Sichém i mei fratei pasceano:
insegnami a trovarli alcun partito.
Hiras.   L’è vero che le pecore qui aveano,
ma son partiti, e dove si sian vólti
io non lo so. Ma udii quando diceano:
     — Andemo in Dottain —-et al fin tolti
di qui si sono, e se di qui anderai,
potrai veder se li si son raccolti.
Ioseph.   Di tutto quello che insegnato m’hai
te ne ringrazio, et ancor io farò
sempre per te quel che comanderai. —
     Dove mostra costui, lá ne anderò.
Et or ch’in questo poggio son montato,
mi par vederli, se bon veder ho.
     Son dessi certo: o Dio, tu sii laudato,
ché, senza gran fatica e molto affanno,
per te quel ch’io cercava ho ritrovato!
     Vedo che insieme a ragionar si stanno.

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SCENA VII

Neptal n, Dan, Gad, con tutti li altri soi fratelli,
vedeno Ioseph, che viene a visitarli.

Neptalin.   Non so s’io vedo bene o s’io m’inganno:

non voglio in affermarlo dir busia,
come fan quelli che ’l certo non sanno.
     Ma ’l mi par di veder lá a quella via,
tra quei dui colli, s’io non piglio errore,
Ioseph, che in qua verso di noi s’invia.
Dan.   Tu di’ il ver, Neptalino. Il sognatore
è questo che in qua viene! Or vogliam noi
pigliare un bon partito pel migliore.
     Io dirò il mio parer, se piace a voi:
dico cosí, che noi ’l debiamo occidere,
e far che qui finischin li di soi.
Asser.   Dan parla ben: costui si vói dividere
cosí da noi. Quest’è il miglior partito.
Che piú se l’ammazziam? mi farai ridere!
Gad.   Non si potria dir meglio. E a far compito
questo pensier, venite: or l’ammazziamo
adesso tutti, e coni’ el sia finito,
     qui in la cisterna vecchia lo buttiamo,
e poi diremo che l’ha divorato
una pessima fèra. A che piú stiamo?
     Quando morto li drento el sia gittato,
non potrá suscitare! Allor vedremo
quanto l’insomni soi gli arán giovato.
Ruben.   Or come al nostro padre renderemo
questo fanciul, se questo fier trattato
conduce il poveretto al punto estremo?
     Deh, non fate, fratei, tanto peccato,
ché Dio offendemo e il nostro padre insieme
e il fratei nostro, che non l’ha merlato!

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     Noi siamo nati pur tutti d’un seme:

perché volete adunque insanguinarvi?
non so come a pensarvi il cor non treme.
     Lassate, o car’ fratelli, consigliarvi,
non mettete nel sangue suo le mano,
che Dio vendicator potria impagarvi!
Dan.   Ruben, il tuo consiglio è pazzo e vano:
ch’el mòra al tutto abbiam deliberato,
come inimico nostro altèro e strano.
Ruben.   (Vo’ pur veder s’io son si avventurato,
ch’io possa con qualch’arte liberarlo,
ché almen non mòra questo infortunato.)
     Me ascoltate, fratelli: di lassarlo
costui non dico, ma per mio parere,
el non è bon pensiero d’ammazzarlo.
     Spandere ’l sangue suo non è dovere,
ma in altro modo li provvederete,
dacché ’l medesmo effetto si pò avere.
     In la cisterna vecchia el gittarete,
ch’è senz’acqua nel bosco, et in tal modo
le man vostre innocenti salvarete.
Ioseph.   Cari fratelli, quanto posso io lodo
il summo Dio, poi che star ben vi veggio
e d’avervi trovati insieme io godo.
Dan.   Io credo che veder vorresti peggio!
Tra’ fora questa vesta, e poi vedrai
s’io faccio daddovero o s’io dileggio.
Gad.   Trálla fòr presto! che aspetti, che fai?
Noi ti farem morir ne la cisterna:
li forsi meglio tu t’insomniarai.
Ioseph.   Pel nostro grande Iddio che ’l ciel governa,
pel nostro vecchio padre che m’aspetta,
per la pietá, che è debita, fraterna,
     dolci fratelli mei, non fate in fretta:
udite un poco, et a pietá vi mova
la mia tenera etade giovinetta!

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     La morte mia, fratelli, a voi che giova?

a che nel vostro sangue incrudelire,
se in me peccato o iniuria non si trova?
     Pensate che no’ abbiam tutti a morire,
pensate che dal cielo ancor potria
iusta vendetta sopra voi venire.
     Quanto dolore e qual malinconia
sera nel padre nostro ancor pensate,
quando ara nova de la morte mia!
     Di lui vi mova almen qualche pietate,
dolcissimi fratelli, ché pur semo
del sangue suo: però mi perdonate!
Asser.   Fin che orecchie a costui noi ne prestemo,
che sa componer ben sue parolette,
quel ch’abbiamo proposto non faremo.
     Ligamogli le braccia, che sian strette.
Vien’ pur con noi, che la tua leggerezza
ara quel che l’insomnio ben promette!
Ioseph.   O dolce padre mio, quanta tristezza
vedo nel petto tuo, quanto dolore!
Come fia sconsolata tua vecchiezza!
     Il tuo diletto Ioseph qui pur mòre,
e tu noi vedi, né lo può’ aiutare:
de la tua doglia mi si strugge il core!
     Ahimè, che non mi giova il mio chiamare!
O bon Iacob, o padre benedetto,
questa morte crudel mi convien fare.
     O Dio immortale, o ben summo e perfetto,
senza il qual non si move cosa al mondo,
e tutto vedi con benigno aspetto,
     io t’apro il mio secreto e nulla ascondo.
Son senza colpa e senza alcun peccato:
abbi pietá di me, Signor iocondo!
     Ti prego, che al mio padre sconsolato
virtú doni e fortezza e pazienza,
quando de la mia morte fia avvisato. —
     P. Collenuccio, Opere - n. ii

[p. 162 modifica]
     Mutate, o fratei mei, vostra sentenza!

Perdonanza vi chiedo in ginocchione,
disposto servo a vostra obedienza.
Asser.   Non ci bisogna qui tua orazione!
Leva pur su, qui drento in tua malora,
in questo fondo la vita depone!
  (d’accordo lo metteno ne la cisterna)
Dan.   Va’, insomnia mo! va’, di’ ch’ogni om t’adora,
padre, madre, fratelli! Or li ti sta’,
che freddo e fame e vermi ti divora!
Asser.   Come ben fatto abbiamo! E cosí va:
chi crede ingannar altri, è ben ragione
che sia ingannato lui. Cosi si fa!
     Facciamo, se ’l vi pare, colezione:
poniamoci a seder qui in l’erba fresca,
poi che ci abbiamo tolto tal moscone.
Neptalin.   A me par mo ch’ogni cosa m’accresca,
che levato ci abbiam costui da dosso,
e che nissuna cosa piú m’incresca.
Ruben.   Io non ho fame ancor, mangiar non posso.
Me n’anderò, fin che mangiate, a spasso:
questo caso m’ha pur troppo commosso!
Gad.   Vedo qua da lontan del monte a basso,
che ne vien molta gente a piè e a cavallo,
e vengon per la strada di bon passo.
     Credo sian caravane, s’io non fallo,
d’ismaeliti e d’altri viandanti,
che van da Galaád e fan qui callo:
     e penso che sian quelli mercatanti,
che portali rasa e mirra e speziarla
lá per Egitto e passan qui davanti.
Iuda.   Se l’è cosí, mi viene in fantasia
che noi pigliam partito assai migliore
di questo Ioseph, per un’altra via.
     Che utilitá trarrasse o che favore,
se questo fratei nostro morto aremo
(ché morirá se non fia tratto fòre)

[p. 163 modifica]
     e se ’l suo sangue noi nasconderemo?

Non è assai meglio che noi lo vendiamo
a questi ismaeliti che vedemo,
     e che ’l prezzo da lor noi ne pigliamo
(ché mercatanti son, che ’l compreranno)
e li dinar tra noi poi ci partiamo?
     L’è pur nostro fratello, senza inganno,
e nostra carne ancor; cosí in un tratto
lui liberiani da morte e noi d’affanno.
Levi.   Iuda, tu parli ben, ne arérn bon patto
di questo Ioseph, e sarem contenti:
ché questo è piú benigno e miglior atto.
Gad.   Il dir di Iuda, a chi Levi consenti,
a tutti no’ ancor piace. Ora n’andiamo
e a trarlo fora ormai non siam piú lenti.
     Ma scale ne bisogna e corde in mano.
Vien fòr, Ioseph, e ben t’acconcia e lega,
come pòi meglio: aiútati pian piano.
Ioseph.   Se pur di me qualche pietá vi piega,
dolcissimi fratelli, questa morte
piú non mi date: ché ’l mio cor vi prega.
     Io era giá condutto a cotal sorte,
di freddo, fame, doglia e di timore,
che non era sol’una, ma piú morte.
     lllDA. Di te farem quel che a noi fia migliore.
Via pur da noi, non ti vogliamo appresso!
tu muterai paese e ancor signore.
Gad.   Quel che ti valeran vedremo adesso
le lusinghe e carezze e le delizie,
che non serai patron pur di te stesso!
Simeone.   O madianiti, che tante divizie
d’oriente portate ne lo Egitto,
se care avete le nostre amicizie,
     vi prego che ascoltate il nostro ditto.
Abbiamo un servo qui tutto elegante,
giovine e bon da farne ogni profitto,

[p. 164 modifica]
     leggiadro di persona e ben aitante,

sano e fedele. Se non vi dispiace,
vel venderemo, ma a denar contante.
Mercatanti.   Siam mercatanti, e quando in bona pace
d’accordo offerta n’è la mercanzia,
noi spendiamo il denar, se la ci piace.
     Veder vogliamo se l’è bona o ria,
saper il prezzo, e poi, se ci accordiamo,
mettete che ’l mercato fatto sia.
Simeone.   Ecco qui il servo, che noi vel mostriamo:
se per trenta dinari el vi talenta,
che sian d’argento, noi ve lo vendiamo.
     Ioseph è il nome suo. Qua t’appresenta,
fatti inanti, Ioseph. Or se ’l vi è grato
il servo, il prezzo a chi piace consenta.
Mercatanti.   Contenti siam di far questo mercato.
Fa’ che a costor, Balác, incontinente
trenta dinar d’argento abbi contato.
Ioseph.   O Dio immortale, santo e omnipotente,
se iustizia è nel ciel, come ognun crede,
ti supplico col cor pietosamente,
     abbi, Signor, di me qualche mercede!
Tu sai pur ch’io son libero e ben nato:
venduto son per servo, ognun lo vede.
     Perdona ai fratei mei questo peccato,
e dona al padre mio tanto vigore,
che per me non si mòra disperato.
     Ora ov’è, padre mio, quel tanto amore,
ov’è la caritá che mi mostravi,
ov’è de la mia etá quel puro fiore?
     Ov’è quel bene che di me speravi,
ove son li piacer, sollazzi e feste,
ove i santi ricordi che mi davi?
     Ove son le parole gravi e oneste,
ove tante delizie e si pietose,
ove son l’allegrezze manifeste?

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     Se mai tal cose a noi fúr graziose,

or seran pel contrario aspre et amare,
ingrate a ricordarle e dolorose.
     Ti son lontan, né mi vale il chiamare:
ma in quel modo ch’io posso, la licenza
piglio da te, qual forza è di lassare.
     Dio, che è iustizia e summa sapienza,
almen prima ch’io mòra, faccia un tratto
ch’io possa riveder la tua presenza!
     Par che ’l cor fòr del corpo mi sia tratto:
a te, padre mio, ’l lasso, sta’ con Dio.
Men vado servo misero e disfatto.
Mercatanti.   Or su, non dubitare, o figliol mio:
monta su questa soma e ormai depone
tua passione et ogni pensier rio.
     Ti menaremo in bona regione,
e ben serai da noi sempre trattato,
e non ti mancará condizione.
     Or l’andar nostro non sia piú tardato.
A Dio, fratelli, a Dio, noi vi lassamo:
tempo è che noi pigliam da voi commiato.
Iuda.   Poi che questa bon’opra fatto abbiamo,
ora convien che a far qualche trovato
col nostro padre noi ne provvediamo,
     si che in tutto di noi gli sia levato
ogni sospetto e che per via indiretta
con qualche astuto modo el sia avvisato:
     talché la cosa sia secreta e netta.

SCENA Vili

Ruben, Iuda, Gad, Neptalin e li altri fratelli.

Ruben.   Rispondi, Isepe, e ’l mio saluto accetta:

son tuo fratei Rubén. El non risponde.
O cisterna crudele e maledetta!

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     La cosa è chiara mo, né piú s’asconde:

credo che morto sia il meschinello.
Morte crudele, che’l mio cor confonde!
     Che avete fatto del nostro fratello?
Son stato a la cisterna, el non compare:
poveretto fanciullo, ornato e bello!
     Ahimè meschino, ahimè che debbo fare?
dove anderò? l’avete forsi morto?
Di vederne vendetta giá mi pare.
Iuda.   Non ti turbar, Rubén, ché aresti il torto:
quel ch’è fatto è pur fatto, ma sta’ certo
che Isep’è vivo e pigliane conforto.
     Vogliam che quel che è fatto ti sia aperto:
passando mercatanti madianiti,
che d’oriente vengon pel deserto,
     noi gliel vendemmo, in questo tutti uniti,
per fare il meglio e cosí via mandarlo,
come di dargli morte giá pentiti.
     Per non far sangue questo è parso farlo,
bastando assai ch’el stia da noi lontano,
e in la cisterna a morte non lassarlo.
Ruben.   A cosa fatta ogni pensiero è vano.
La servitú e la morte, ambe ad un segno
le mette ognun che d’intelletto è sano!
Iuda.   Ma avemo ancor trovato un bell’ingegno
di coprir nostra colpa al padre nostro:
però ti piaccia il nostro bon conseglio.
Gad.   Di Ioseph è la vesta ch’io vi mostro,
io l’ho tinta di sangue d’un capretto:
vedete se sta bene al modo vostro.
     Io l’ho tinta in piú lochi, a questo effetto,
che la parrá d’un corpo lacerato
da le fère selvagge, al primo aspetto.
Iuda.   Ti dirò quel che abbiam deliberato.
Questa vesta daremo a un qualche messo
non conosciuto e ben ammaestrato,

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     che al nostro padre la riporti adesso,

e mostri a caso averla ritrovata
qua per il bosco, come accade spesso.
     E1 crederá che una fèra affamata
abbia morto il figliol: cosí da noi
il sospetto e la colpa fia levata.
     Come noi vede inanti a li occhi soi,
piú non ci penserá, si come avviene
che ’l tempo ogni dolore ammorza poi.
     Or trovar questo messo ci conviene
e farlo instrutto et io torrò l’impresa,
si che ’l nostro disegno anderá bene.
     Tu hai mo questa cosa tutta intesa:
mo ch’abbiamo il nimico fora spinto,
non tener la tua mente piú sospesa.
Ruben.   Di paura e sospetto ho il mio cor cinto,
perché un altro nimico drento il punge
maggior assai, che mi tien lasso e vinto;
     et un maggior dolore ancor s’aggiunge,
che come un verme sta, che ’l cor mi rode
né mai da la conscienza si disiunge.
Neptalin.   Quel che è fatto bisogna al fin si lode.
Attendi a far bon core e bona fronte,
e piglia il mondo come’l véne, e gode!
Iuda.   Andate voi, fratei, di lá a quel monte,
dov’io credo che sia bona pastura,
andate presto pria che ’l sol tramonte.
     Abbiate al vostro officio bona cura,
si che non stian le pecore al disaso,
al sole, a l’ombra, a l’acqua, a la verdura.
     In questo mezzo io spaccerò a bell’aso
il messo che in Ebrón vorrò mandare
con la vesta di Ioseph, che ’l suo caso
     per quella possa il vecchio argumentare.