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XI.

Amico mio, pel quale io scrivo queste pagine, la storia volge oramai al suo termine. Voi l’avrete letta con pazienza amorevole, spero; anzi, meglio, ne ho fede. L’accento della verità ha sempre avuto questo potere su noi, di destare un intimo senso nel profondo dell’anima nostra e di trattenerci, curiosi o commossi, ma sempre benevoli, in ascolto.

Io vi ho narrato il vero, ho ricorso per voi i più minuti particolari del mio tempo felice, come si ripiglia a filo a filo una trama disfatta. Ed è stato un dolce soffrire per me, come è [p. 268 modifica] sempre dolce riandare nella memoria qualche bel giorno della nostra vita trascorsa.

Vi è egli mai avvenuto, ritornando col pensiero a qualche scena felice del vostro passato, vi è egli mai avvenuto di notare come spiccati e ricisi ne balzassero fuori dalla vostra memoria i contorni? e come vi si schierassero ad uno ad uno davanti agli occhi tanti particolari, a cui, assorto nella vostra allegrezza, in quel giorno felice non avevate pure badato?

Così, rifacendomi indietro colla mente, io vi ho tutto narrato. Ma egli c’è un colmo di felicità, che mal si potrebbe raccontare, perchè tutti gli artifizi della parola, tutti i più meditati ravvolgimenti della frase, non basterebbero ad esprimere la pienezza del gaudio d’aver sua, tutta sua, una creatura adorata, in cui non s’appaga mai il desiderio, perchè l’occhio amante sa discoprire nuove [p. 269 modifica] bellezze ogni giorno. Che dire, poi, se la bellezza esteriore di questa donna è come centuplicata dalla bellezza interiore? se alla stupenda leggiadria delle forme rispondono le care grazie dello spirito, la coltura dell’ingegno e la nobiltà del sentire, che la fanno dimestica a tutte le più riposte squisitezze del pensiero, e pari a tutti i più ardui rapimenti dell’affetto? Vi trovate allora e di primo slancio tant’alto, che un senso di stupore v’invade, e attonito domandate tra voi: ma sono io che ella ama? sono io che la possiedo? e sono io veramente degno di lei? P

er altro, siccome ci si acconcia facilmente alla felicità, io mi adattai di buon grado alla mia. La donna gentile aveva approfittato della mia assenza per colorire il mio disegno, e allogare il nostro idillio amoroso in quella cara solitudine. Ora, non è da dire com’io pigliassi volentieri il mio posto, e come la [p. 270 modifica] mia allegrezza la facesse andar lieta della sua bella trovata. Ella era mia, tutta mia, salvo una cosa da nulla. Ignoravo e dovevo ignorare l’esser suo, com’ella ignorava il mio; questo era l’unico punto oscuro tra noi. Ma potevo io lagnarmene? Non dovevo io vedere in quelle lettere, da me recate alla posta di Bologna, un pietoso artifizio, e tutto per utile mio? Ella, sicuramente, ravvicinata a me da un debito di gratitudine, aveva sentito compassione di me. Il destino l’aveva condotta fin là, ed ella aveva accettato di grand’animo i suoi decreti. Gratitudine, pietà, non son queste le sorelle precorritrici d’amore?

Ma chi era ella dunque? Da quali indizii argomentare la sua condizione? Ai modi eletti e alla ingenita alterezza che governava ogni suo atto, si sarebbe potuto crederla una principessa senz’altro. Ma come si era trovata a viaggiare così, senza l’utile codazzo di un [p. 271 modifica] servidorame importuno? La coltura del suo spirito era veramente straordinaria; parlava quasi tutte le lingue d’Europa, e la nostra, segnatamente, assai bene, ma senza un accento particolare, che indicasse questa o quell’altra delle nostre provincie, e senza quell’altro, anche più notevole nella sua studiata rotondità, che ci fa conoscere a tutta prima le regine del palcoscenico, le sacerdotesse di Melpomene, di Talìa o d’Euterpe. Tutto sommato, poteva non essere italiana. I capelli nerissimi non erano già un indizio sicuro. La sua carnagione era bianca; ma certi toni più caldi del viso mi facevano pensare al sole dell’India. Dopo tutto, non veniva ella da Brindisi?

Inglese, dunque? Ma no; l’inglese lo parlava con scioltezza bensì, ma senza masticarselo tra quelle due file di candidissimi denti, come fanno, sebbene assai meno dei [p. 272 modifica] loro uomini, le bionde figlio d’Albione. È vero, per altro, che le donne, quando ci si mettono, farebbero perder la scherma anche ad un padre inquisitore. Ma già, inglese non era di certo. Io feci cadere più d’una volta il discorso sull’India, su Malta, su tutti i possedimenti della corona britannica, e non potei cavarne un costrutto; poichè ella, se conosceva molto le cose forestiere, mostrava di conoscere anche più le nostrane.

Dopo tutto, o non era naturale che una donna come lei e che certamente aveva molto viaggiato, sapesse delle cose del tempo nostro tutto ciò che ai più ornati intelletti, a coloro che veramente possono dirsi cittadini del mondo, era dato saperne? Le donne, per lo più, ripiene la mente di graziosi nonnulla, come a un dipresso le cantoniere dei loro salotti, non hanno tempo, nè modo, e neppure hanno avuto indirizzo, a pensare di cose [p. 273 modifica] più gravi. Perciò il loro patrimonio intellettuale (dico sempre del maggior numero) si ristringe a poche idee mute, cioè senza conforto di nessi logici, di relazione e di conseguenza; veri idoli senza gambe e senza braccia nella capanna del selvaggio. E invero, nelle cose dell’anima esse hanno più superstizione che religione; in quelle del cuore più impeto che riflessione; in quelle della vita civile più sentimento di consuetudine che lume di dottrina. Donde avviene che, fidandosi molto alle proprie ispirazioni, le buone sieno facilmente ottime e le mediocri pessime. Senonchè, la mia bella innominata, non era forse un’eccezione? E potevo pensare di lei ciò che dovrebbe essere già circondato di tante restrizioni per molte?

Io, non sapendo che altro argomentare, la chiamai un giorno la mia bella regina in vacanze. Cotesto, sulle prime, la fece rider di [p. 274 modifica] cuore; ma poi mi diventò pensierosa, come soleva ad ogni discorso, ad ogni motto, che paresse, anco lontanamente, accennare al segreto dell’esser suo.

Quel punto oscuro, ho detto, era una cosa da nulla. Pure, quel nulla vigilava ostinato nel profondo, e tratto tratto mi stimolava lo spirito, come fa dentro di noi una trafittura improvvisa, per ricordarci l’assidua presenza di un male trascurato. Siam fatti così; la malacia dell’ignoto ci rode.

Provai, ne’ confidenti colloqui, a dirle i miei segreti, a narrarle tutto me stesso. E fino a tanto erano le storie dell’anima mia, le stava ad udire con molta attenzione: ma più oltre non voleva conoscere.

— Perchè saprei il vostro nome? — mi diceva, scorrucciandosi a mezzo. — Restiamo tra le nubi. C’è forse una favola più bella di questa? Voi siete Endimione, per me. Se [p. 275 modifica] sapessi il vostro nome vero, quello che portate nel mondo, entrerei nella storia della vostra vita, mi piglierei troppa cura dei fatti vostri.... e non lo posso. Non lo devo; — si affrettò a soggiungere, vedendo rabbruscarmisi il volto.

Quel nome mitologico le era venuto dal paragone che avevo fatto di lei con Diana, la casta dea delle selve, che scendeva certamente sul Làtmo, a consolare le notti del povero condannato di Caria. Il paragone le era piaciuto. Diana, la più rigida tra le belle abitatrici del cielo, poteva pure aver sentiti una volta gli arcani turbamenti d’amore. Laddove tutte le sue sorelle d’Olimpo erano trascorse a cento e rumorose avventure, facendo, come suoi dirsi, d’ogni fiore ghirlanda, essa, l’austera, non aveva ceduto che ad un affetto solo, ma tacito, verace e profondo. E poi, non c’era egli alcun che di solenne e di sacro, [p. 276 modifica] in quell’amore susurrato tra le ultime nebbie d’una balza solitaria, quasi libato tra un labbro di dormente e un timido raggio di luna?

Per un convegno fatto scherzando tra noi, le avevo posto il nome di Valentina. Era d’altra parte necessario che con qualche nome io pur la chiamassi, segnatamente in presenza della Rosa e del Cesarino, che erano ai nostri servigi. Ma un giorno, e in un momento di abbandono, parendole che io proferissi quel nome con soverchia intensità di affetto, ebbe come un lampo di gelosia.

— Perchè questo nome, che sarà probabilmente di un’altra? — gridò. — Chiamami Gel.... —

Ma si trattenne, e non volle più finir la parola.

— No, non badare; — ripigliò, precorrendo le mie istanze; — son pazza. Che importa il nome? È il cuore che fa. E il tuo [p. 277 modifica] cuore è mio. Lo porterò con me; — soggiunse, con una strana espressione di voce e di sguardo, da cui trapelava un intimo convincimento, misto di amore, di tristezza e d’orgoglio; — lo porterò con me, ne son certa. —

Dalla gelosia alla sicurezza, dal dubbio alla fede; erano questi trapassi in lei naturali, o, per dire più veramente, era la nostra condizione particolare che portava questo continuo ondeggiamento d’affetti. Del resto, il pensiero di doverci lasciare quando che fosse, era come un’intesa tra noi, ed ella spesso ne toccava, sebbene alla larga e senza fermarcisi su. Si poteva credere che da questo patto soltanto ella attingesse la forza di rimanere con me. Quella triste prospettiva sembrava essere la sua salvaguardia, il ferreo vincolo imposto alla sua stessa volontà, la cura incresciosa con cui mortificava lo spirito, quasi volendo dal cielo farsene perdonare le ebbrezze. [p. 278 modifica]

— Non lo sai? — mi disse una volta. — È necessario. Fanciullo, — soggiungeva, involgendomi tutto in que’ soavi tepori che spiravano dalla sua bella persona e parlandomi con quell’accento di tenerezza profonda che ci fa sentire le voci della ragione in mezzo ai vaneggiamenti del delirio, — siamo forse padroni di noi? Senza ciò, avrei io potuto trattenermi? Sii ragionevole; amami meno! Ma no, — prorompeva sollecita, — chi non ama troppo non ama abbastanza. Amami sempre così! L’anima tua non dee forse seguirmi, e la mia non rimarrà sempre con te? —

Per altro, avvezzandosi ella man mano a leggermi sul volto i più lievi moti dell’animo, si addiede in brev’ora del tristissimo senso che facevano su di me quegli accenni al temuto futuro, e quanto più potè, si ritenne dal farne parola.

Andavamo ogni giorno a diporto; sempre [p. 279 modifica] soli e più volentieri ai monti, che non alla spiaggia del mare. Lassù ci sentivamo più soli e più liberi di pensare a noi soli. Era in noi come un tacito accordo di non perdere un’ora, un minuto, di quel breve spazio di tempo che ci consentiva il destino. E in que’ lunghi colloqui, o, per dir meglio, in quell’unico colloquio di due anime innamorate, noi eravamo giunti a conoscere i nostri cuori per modo, che nessuna più intima piega, nessun più riposto sentimento ne rimanesse celato. Oggi ancora, ad ogni nuovo argomento che la vita quotidiana ci profferisce, io potrei dire, senza tema di errare: così ella pensa; non può vedere, nè sentire altrimenti. Arte, letteratura, storia, filosofia, vita sociale, tutto fu considerato a parte a parte e disputato tra noi; vedevamo così addentro nel nostro pensiero, come, attraverso alle onde d’una cheta marina, si vede brulicare, muoversi, [p. 280 modifica] guizzare un altro mondo d’erbe e d’animali, su d’un letto di ghiaia.

Quanti arcani della sua vita non ci dischiuse la natura, antica e sempre bella maestra di meraviglie! Ci fermavamo sulle ali d’una farfalla, o sui petali d’un fiore, come se avessimo l’eternità davanti a noi. Ma da quelle foglioline sottilmente venate, da que’ diafani tessuti che riflettevano tutti i colori dell’iride, ci volgevamo a guardarci negli occhi, a nutrirci di noi, come se dovesse esser quello l’ultimo istante della nostra vita felice.

Ella era poi amantissima delle arti belle, e, senza intendersi molto di precetti e di formole, che il più delle volte celano l’ignoranza e la povertà dei concetti, sentiva profondamente le ragioni del bello. Desideroso di piacerle, io avevo proposto di fare una gita artistica a Roma.

— Dev’esser bella, Roma, — le dicevo, — [p. 281 modifica] veduta con voi! Venite; facciamo la nostra scappatella, come due scolaretti che inforcano allegramente la scuola. Rimarremo due giorni, laggiù; uno solo, se volete; quanto basta per far morire d’invidia la Venere Capitolina. —

Ella rideva a queste mie chiacchiere; ma non volle saperne del viaggio proposto.

— Non stiamo noi bene quassù? — mi diceva di rimando. — Vedete! siamo uccellini che cinguettano e saltellano liberamente nella frasca. Se proviamo a uscir fuori, Dio sa quel che ci tocca. La campagna intorno a noi è così piena d’insidie! —

Nondimeno, ella accettò un giorno di fare una corsa fino a Loreto, per vedere quel rinomato santuario. Partimmo dalla stazione di Grottamare alle cinque del mattino. Ella era di buonissimo umore e godeva a sentirmi raccontare la pia leggenda della casa di [p. 282 modifica] Nazarette, trasportata, non si sa perchè, a braccia d’angioli, nella notte sopra il 29 maggio 1299, su d’un colle delle Marche, in mezzo a un bosco di lauri, non perdendo altro che il pavimento per via.

Smontati alla stazione di Loreto, una carrozzella ci condusse in breve ora al sommo dell’erta, su cui è murata la città. Vedemmo la basilica e il palazzo pontificio, la cupola ardita del Da Maiano e le stupende logge del Bramante, le sculture del Sansovino e del Montelupo, le pareti rozze e affumicate della Santa Casa, illuminata con misteriosa luce da tante lampade d’oro e d’argento, e la statua di Maria in legno di cedro, attribuita a san Luca, pittore e scultore che lavorava di pratica e che, nel ritrarre le sembianze della vergine nazarena, non le ha fatto grazia di certo.

Visitato il tesoro, ci restava a vedere la [p. 283 modifica] spezieria annessa al santuario, che vanta un buon numero di vasi dipinti con disegni di Raffaello. Ma ella, che pure aveva poc’anzi manifestato il desiderio di andarci, ricusò ad un tratto, nè più volle rimanere a Loreto, poichè il nostro cicerone aveva notato l’arrivo di una brigata di forestieri (inglesi di Russia, com’ei li chiamava) i quali erano appunto in estasi davanti alle preziose maioliche.

Ogni suo desiderio era un comando per me. Ci eravamo proposto di pranzare a Loreto e di ripartire col treno delle otto di sera. Ma erano a mala pena le undici del mattino, e la più prossima occasione di partenza era alle quattro del pomeriggio. Perciò, vedendola inquieta, le proposi di andare in carrozza fino a Recanati, tre miglia distante di là, ed ella assentì di grand’animo. Per altro, il suo bel volto non si rasserenò, fino a tanto non [p. 284 modifica] oltrepassammo le grigie mura di Sisto V, dando così l’ultimo addio a Loreto.

Le ricordanze di Giacomo Leopardi occuparono le poche ore del nostro soggiorno a Recanati. Stretta al mio braccio, ella guardò lungamente la casa in cui era nato il divino cantor di Nerina, e la torre del borgo che gli recava «il suon dell’ora» e le colline su cui, nelle sue triste notti, gli scintillavano allo sguardo le «vaghe stelle dell’Orsa». Tuttavia, debbo dirlo; simiglianti pellegrinaggi non si fanno piacevolmente con una donna che si ama. Inducono la tristezza nell’anima; e alla tristezza c’è sempre tempo. Non ci ruba essa per avventura la maggior parte della vita?

E le nostre ore liete ci fuggivano così rapidamente dagli occhi! Vedevamo le notti tener dietro ai giorni e i giorni alternarsi alle notti, e ci struggevamo dal dolore di non [p. 285 modifica] poter trattenere il volo del tempo. Ella era spesso malinconica. Mi amava sempre più, lo vedevo, e il pensiero della separazione la tormentava al pari di me. Una mattina, mentre io stavo allacciandole un vezzo di perle d’ambra che era sul punto di sfilarsi, mi avvidi che ella aveva i suoi begli occhi fissi con amorosa cura sulla mia fronte, e fattomi subitamente a guardarla, sorpresi due lucciconi che le tremolavano sulle ciglia. Ognuno che abbia amato fortemente e veduto piangere la donna amata, indovinerà quali ardori andassero quelle due lagrime a spegnere. Ma, nè io le chiesi perchè piangesse, nè ella ebbe mestieri di dirlo. A che le parole nostre, dove parlava il destino?

Fu quello come un raggio di luce al mio spirito. Da quel momento incominciai a considerare, più attentamente che non avessi fatto da prima, le tristi necessità da cui [p. 286 modifica] eravamo incalzati. Mi chiusi nel mio dolore; non ebbi paura di misurarne la profondità, di raffigurarmi lo schianto che avrebbe sentito il mio cuore, e vidi come pur troppo egli fosse impossibile di ribellarci al destino. Oramai, non c’era più dubbio per me; quella donna soffriva; non voleva confessarlo, ma lo struggimento di quella segreta cura le si leggeva nel volto. Sentii che ella non avrebbe parlato, ma che per contro lo dovevo io, se avevo ombra di gentilezza nell’animo.

Quella sera medesima avrei voluto aprirmi d’ogni cosa con lei; ma a farlo, mi venne meno l’onesto ardimento. L’egoismo era tuttavia il più forte. E per dissimulare quella viltà a’ miei occhi ed ai suoi, raddoppiai, se pure era possibile, di cure affettuose; cercai le più dolci parole, le più tenere inflessioni di voce, gli atti più amorosamente divoti.

Così giunse il mattino, senza che io avessi [p. 287 modifica] pigliato un partito reciso. E mi sapeva male di averlo fatto, e mi vidi nell’ira più malvagio ancora che vile. Ero andato da solo in volta pei campi, cosa che non avevo più fatta dopo il nostro stabilimento alla Castellana. In quella corsa solitaria io mi accusai liberamente e fui inesorabile contro me stesso; piansi, urlai, maledissi, ma vinsi.

Quando ritornai al palazzo, era già uscita. Sapevo per altro che non poteva essere molto distante, e mi avviai verso la macchia degli allori, che fiancheggiava la spianata. Laggiù ci eravamo seduti nella nostra seconda visita alla Castellana, e laggiù, dove le mie preghiere avevano forse dato il tratto alla bilancia, persuadendola a rimanere qualche tempo a Grottamare, ella andava volentieri a sedersi, in abito di mattina, aspettando l’ora dell’asciolvere.

Ella era infatti colà. Uditi i miei passi [p. 288 modifica] sulla spianata, si alzò dal sedile e si mosse per venirmi incontro. Io mi affrettai alla sua volta e la trattenni. E qui, o perchè vedessi il vero, o perchè m’ingannasse il mio pensiero dominante, mi parve che ella avesse pianto pur dianzi. La contemplai un tratto in silenzio, nè ella potè sostenere la mia guardata senza farsi vermiglia.

— Voi volete partire! — le dissi.

Ricorderò sempre lo sguardo che ella mi volse. Non le era bastato l’animo per rispondere; ma in quello sguardo mi si dipinse un così acerbo rammarico, che io ne fui commosso nel più profondo del cuore.

— Non è già che vogliate; — soggiunsi allora, con accento di tenerezza; — lo dovete. Non è egli così? —

E senza aspettare la sua risposta, mi lasciai cadere sul sedile, disfatto dal mio medesimo sforzo. [p. 289 modifica]

Ella non disse parola. M’intese e vide altresì d’essere intesa; che altro era da aggiungere? Si avvicinò a me, piamente; mi cadde ginocchioni davanti; distolse con soave violenza le mie mani dal far puntello alle guance; adagiò la sua fronte sul mio petto, come per chiedermi perdono e darmi la ricompensa di uno strazio così grande. Ed io la trassi a me, la strinsi nelle mie braccia, piangendo, inebbriandomi di dolore con lei.

— Orbene, — le dissi, dopo aver dato sfogo alle lagrime, — voi partirete, poichè ciò è necessario e non si può far contro al destino. Ma io ve ne prego, ve ne supplico, lasciatemi respirare; lasciate che la mia mente si avvezzi a questa separazione. Dite, angiolo mio, quanti giorni mi concedete ancora? —

Ella mosse le labbra per rispondermi; ma [p. 290 modifica] io temetti di non aver detto abbastanza e non le lasciai profferire parola.

— Oh, il più che potete! — soggiunsi, con accento supplichevole. — Ho parlato io per il primo; mi sono spezzato il cuore da me, per

restituirvi la pace dell’anima; usate dunque misericordia! — La mia bella compagna rimase alquanto sovra pensiero; indi con un fil di voce mi mormorò all’orecchio:

— Nè domani.... nè poi! Lunedì, se consentite....

— Grazie! — esclamai. — Non siete voi qui la regina? —

Fu dunque stabilito che ella sarebbe partita la mattina del lunedì, trenta giorni dopo il nostro primo incontro nella stazione di Foggia. Eravamo in mercoledì; non avevo dunque più che quattro giorni di felicità. Quattro giorni! E poi?... [p. 291 modifica]

— Mi accompagnerete a Bologna; — soggiunse ella, come per temperarmi l’amarezza di quella triste sentenza.

E il suo volto da quell’ora si rifece sereno. Anch’io, compiuto il mio debito di gentiluomo e guadagnato quel nuovo indugio di felicità, rividi la mia parte di sole. E furono giorni di strana ebbrezza, quei pochi che seguirono il doloroso colloquio. Ignari del passato e non curanti del futuro, immersi nel pensiero di noi medesimi, quasi fossimo al mondo noi soli, avevamo preso la vita a furia, come chi sente di non averne a godere più molto.

La Rosa, che ci vedeva così teneri l’uno dell’altro, non potè ritenersi dal dire che come noi non si erano amate mai due creature nel mondo. E aveva ragione a dirlo; ci amavamo alla sfrenata, per allora e per tutto il rimanente della vita.

Ho di quei giorni una ricordanza profonda, [p. 292 modifica] e li rivivo spesso colla fantasia, ne assaporo coll’anima i gaudii infiniti; e tuttavia, non saprei dire la nostra felicità come fosse. Il gusto di certi frutti, che tornano così soavi alla bocca e così acerbi allo stomaco, la morbidezza di certi liquori che ardono le fauci e mandano i fumi al cervello, sono immagini lontane, che adombrano a mala pena il concetto. Era la nostra una voluttà disperata, piena di rapimenti e di angosce, mista di dolce e d’amaro, come di baci affogati nelle lagrime. — Morire così! — mi diceva ella. — Non sarebbe un finir bene? —

Così giunse la domenica, il nostro ultimo giorno felice. Quella mattina, ella mostrò il desiderio di andare al paese, che non aveva ancor visitato.

Vestita con una rara semplicità, che escludeva lo sfoggio, non l’eleganza, ella scese, appoggiata al mio braccio, per le vie di [p. 293 modifica] Grottamare; e fu d’ogni parte un guardarla ammirati, un voltarsi, un allungare il collo per vederla ancora, un bisbigliare, un coronarla di lodi, che tante non ne contano le litanie. Eravamo, s’intende, gli sposi della Castellana. E Dio mi perdoni, quella domenica, nella chiesuola di Grottamare si pregò meno del solito. Perfino il celebrante all’altare, adocchiata quella novità, fece più lunghi i suoi Dominus vobiscum, per vedere un tratto colei che destava tanta curiosità nel suo volgo divoto.

Prima di uscir dalla chiesa, la mia compagna volle lasciare al curato la sua limosina pel poveri. Non so quanto gli mettesse tra mani; ma doveva esser molto, perchè il buon curato rizzò tanto d’occhi a guardarla e fece inchini a furia.

Volevo metter mano anch’io in quella carità; ma ella mi trattenne. [p. 294 modifica]

— No, — disse; — voi penserete a quelli della Gioiosa. —

E con un vezzo adorabile soggiunse:

— Non dovete voi nulla al povero Cesarino?

— Oh, se gli devo! E anche alla Rosa, mi pare! E ai sassolini, ai fili d’erba che calpestate, e all’aria cortese, che non mi ruba le vostre parole. —

Tutto quel giorno fu passato all’aperto. Il cielo, i campi, le colline, tutto rideva, tutto si abbelliva ai raggi del sole, come per farle omaggio e darle l’ultimo addio. Ella amò rivedere ad uno ad uno i luoghi che serbavano qualche ricordo dell’amor nostro; la macchia degli allori, il pergolato, la finestra della Gioiosa e il mio letto notturno sul maggese. Pareva ch’ella volesse in quelle memorie sincerarsi di tutto il passato, assicurarsi che non era stato un sogno, e in [p. 295 modifica] tutti que’ particolari, che la intenerivano tanto, trovar le ragioni della sua compassione per me.

— Poteva esser diverso? — mormorava ella, stringendosi al mio braccio. — Tutto non mi diceva egli di amarvi? E non vi avrei io fatto triste, fuggendo?

— Oh, per tutta la vita! — esclamai.

La partenza era stabilita per le cinque del mattino. Verso sera mandammo le nostre valigie e i bauli in custodia alla stazione. Per non aver più questo sopraccapo, dicevamo; ma in fondo in fondo per disporre gli animi nostri al gran passo.

Veramente, mi pareva di essere un condannato a morte nelle ultime ore avanti il supplizio. Ancora quella notte, quell’unica notte, e avrei dovuto lasciare ogni cosa più caramente diletta; i primi albori del mattino, che riconducono l’operosità negli spiriti e [p. 296 modifica] l’allegrezza nei cuori, a me, a me solo, avrebbero portata la morte. Non era forse la morte il partire di là, dove nell’amor suo avevo attinto la vera coscienza della vita? E la mia anima si ribellava a quell’orribile pensiero; e soffrivo, tacendo, soffrivo tormenti ineffabili.

Ella mi guardava in silenzio, quasi covandomi co’ suoi grandi occhi pensosi, donde tralucevano insieme tristezza e compassione profonda. Imperocchè a lei non isfuggivano i moti dell’animo mio, e le era ben noto l’affanno che mi struggeva. Quegli occhi meravigliosi io non li avrei più guardati, non li avrei più avuti là, di rincontro a’ miei, per vederci l’immagine mia, per leggerci nel profondo un affetto simile a quello che mi ardeva nel cuore. Smarrito, chiusi le pupille, e mi parve che davvero ogni cosa avesse fine per me, che ella non fosse più al mio [p. 297 modifica] fianco. Ahimè, quel dolore superava le mie forze.

— Resta, — le dissi, — e dimentichiamo il mondo! —

A queste parole essa lampeggiò una strana occhiata, che mi provò come avessi toccato sul vivo. Stette irresoluta un istante; poi, come trascinata da una forza irresistibile, mi chiese:

— Lo vuoi? —

Erano due parole, due sole parole, e mi scoprivano un abisso. Io ne sentii ad un tempo allegrezza e paura, e a mia volta rimasi taciturno, guatandola. Pari al gladiatore animoso, che, caduto supino sul campo, offre la gola all’ultimo colpo del suo vincitore, la mia povera bella attendeva, simulando un sorriso. Ma io non ne fui tratto in inganno; vidi gli spasimi che quel sorriso costava; vidi memorie lontane, affetti [p. 298 modifica] sacri, forse, e pensai che l’avrei trattenuta, volendo, ma uccisa, e mi sarebbe rimasto un eterno rimorso.

Il cuore mi si schiantava, a dover ricusare il suo sacrifizio; tuttavia non volli esser da meno di lei.

— No; — le risposi, cacciando a stento la voce; — sono un pazzo; perdonami! —

Ella chinò il volto sulla mia fronte e la baciò. Ma non le parve abbastanza ossequioso quell’atto; mi prese la mano e la recò divotamente alle labbra.

— Amico mio, — mi disse, dopo un momento di pausa, quasi avesse voluto raccogliersi, per dare a’ suoi pensieri una forma più solenne, — il tuo cuore è buono; nessuna donna lo ha ancora guastato. So quel che dico; — soggiunse, notando l’aria di stupore ond’era impresso il mio volto; — noi donne siamo povere creature che [p. 299 modifica] soffriamo e facciamo soffrire. Temprate ai grandi sacrifizì, non sappiamo poi custodirci il più delle volte dai consigli della vanità, che ci è instillata da una educazione superficiale e lusingata continuamente dall’ossequio interessato, o beffardo, degli uomini. Perciò, come fanno i bambini viziati, mutiamo spesso, e senza ragione, di pensieri e di voglie; domandiamo eterna fede, eterna obbedienza, e diamo il ricambio in mille capricci, in mille pretensioni, in mille frivolezze. Non intendiamo parità di diritti e di doveri; o siamo torturate, o torturiamo. E gli uomini che hanno sofferto per cagion nostra diventano cattivi, assai più che non farebbero, avendo sofferto per cagione d’altri uomini. Dal male che un uomo vi fa, potete aver sempre rifugio e speranza nel cuor d’una donna; ma quando è una donna che ve lo ha fatto, il male, non avete più rifugio che in voi, nel [p. 300 modifica] vostro cuore inasprito. Ed ora, amico mio, non è egli vero che tu non m’accuserai di una simile colpa?

— Angelo! e potrei essere ingrato a tal segno? — gridai. — Soffrirò, ma benedicendoti, non accusando che il cieco destino. Esso.... esso il nemico!...

— No, amico mio; fatti animo! — ripigliò ella sollecita. — Anch’io sento che non ho mai tanto sofferto e che non soffrirò tanto, mai più. So quel che perdo, lasciandoti. Tu saresti il più fido compagno che una donna di cuore potesse desiderare, come ti sei mostrato a me il più leal cavaliere. L’occasione che ci ha avvicinati mi ha palesato la tua anima e il tuo cuore ad un tempo. Quella è già matura, e questo è giovane sempre. Come ciò sia avvenuto, non so. Forse, come il tuo poeta prediletto, hai cominciato per tempo a indagare la vita sui [p. 301 modifica] libri, e gl’insegnamenti sono venuti per via più diretta a fortificare il tuo spirito, senza lacerarti il cuore colle tristi esperienze. Fors’anche, il caso t’ha custodito, o l’indole tua era più salda di tempera. Ma bada; questa virtù potrebbe anche tornare a tuo danno. Dov’è più alta la virtù, ivi è più grande il pericolo. Guardati nella vita, guardati! Se ami, fa di trovare una donna che sia tua, ben tua, che non abbia memorie, doveri, consuetudini, santuario d’affetti di cui tu non sii il ministro. Tu le avresti dato ogni cosa, ed ella non ti avrebbe concesso che una parte di sè. La migliore, sì veramente; l’amore, con tutte le sue spensierate ebbrezze. Ma è dell’uomo il non contentarsi mai, il voler tutto, anche i dolori. Non è una prepotente curiosità che lo conduce sull’orlo dei precipizii? Non è un arcano, irresistibile impulso, che lo fa andare anche dove egli sa [p. 302 modifica] d’incontrare la morte? Metti l’amor tuo in un vergine cuore; sii tu la sua vita oggi, e la sua storia domani. So bene quel che dicono molti; il cuore d’una fanciulla! un libro bianco! Ma che importa? il tuo affetto avrà scritto la prima pagina di quel libro. —

Ella era, così parlando, in uno stato di esaltazione quasi febbrile. Non mi pareva più lei; quelle parole, in ispecie, così acerbe nella loro efficacia, che mi sarebbero parse giuste in ogni altra occasione, mi parevano allora crudeli; e piangevo in silenzio, ascoltandole. Ma era stato uno sforzo, il suo, uno sforzo sovrumano, e non poteva durare.

— No; — proruppe ella ad un tratto, scuotendo la sua bellissima testa, per modo che il morbido volume de’ suoi capelli si sciolse e le ciocche fragranti mi lambirono il viso; — dopo tutto, non amar più; chiudi, suggella il tuo cuore. Meglio così, se tu mi [p. 303 modifica] ami tanto da non voler consolazioni al dolore: meglio così! Non era forse destino? E non sono io venuta a te senza pure avvedermene? Non sono io stata gittata nelle tue braccia da una mano invisibile? Eppure, — soggiunse, fermandosi a mezzo il suo pensiero, con leggiadro ardimento, — non diamo tutto il vanto alla sorte. Se tornassimo ancora al nostro primo incontro, amerei di rifar questa via. Debbo partire e lacerarti il cuore; perdonami! Qualunque cosa avvenga, ci siamo amati. E non è stato detto.... e non è scritto a caratteri eterni: a chi molto amò molto sarà perdonato? —

Il giorno s’appressava, e quel giorno la donna gentile non era più mia.

Come si lasciasse quell’eremo beato di Grottamare, come io dovessi separarmi da lei nella stazione di Bologna, non mi fermerò a raccontarvi. Mi scoppiava il cuore, e il solo [p. 304 modifica] ricordo di quella sensazione profonda, terribile, mi fa tenerezza e sgomento. Solo il pensiero di mio padre potea richiamarmi alla coscienza della vita; se non sono impazzato, se non sono morto, è per lui.

Ma ogni mia allegrezza è svanita, e richiamarne l’immagine col pensiero non vale. Son passati da quel giorno tre anni, e non ho avuto più nuova, nè cenno, nè indizio di lei. Del resto, ella non aveva voluto sapere il mio nome. È ella esistita? O non è forse un sogno che ho fatto? La stranezza del caso mi fa dubitare talvolta de’ miei stessi ricordi.

Amico, a voi, che spaziate nei regni della fantasia, e vi studiate di trovar cosa che meriti fede presso i vostri lettori, ecco una storia vera, che parrà a molti una favola. Non ho fatto al vero che pochi e lievi mutamenti, quanti bastavano a tener lontana la taccia di narratore indiscreto. Chi sa? Se queste pagine, andando [p. 305 modifica] sotto il vostro nome pel mondo, le capiteranno sottocchio, ella sentirà compassione di me e manderà forse un saluto al suo povero amico. Di tanto fuoco non durerà più, sotto le ceneri, una sola favilla?




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Candide lector,


Così l’amico innominato, di cui le ho detto in principio.

Ora, che fisime s’è posto egli in capo? Il filo d’Arianna, che non ha potuto ottenere tre anni or sono, e ingegnandosi di presenza, da una donna che lo amava, l’otterrebbe egli adesso, e da lontano? Io qui non addurrò nemmeno l’argomento più valido, che ella molto probabilmente non leggerebbe queste pagine, quand’anche fossero voltate nella lingua di Wilkie Collins, o in quella [p. 307 modifica] del mio Paolo Heyse, il beniamino delle Grazie.

E poi, a che rovistar nelle ceneri? A che studiarsi di riannodare le fila di un romanzo interrotto? Non dice egli stesso che la sua felicità passata gli ha qualche volta tutta l’aria d’un sogno? Pur troppo la felicità non è tale, che a patto d’esser fugace, di passar come un sogno. Principio e fine esercitano una cattiva influenza sull’aspetto delle cose. Il cielo è per l’appunto così bello, perchè nelle sue azzurre profondità non lascia scorgere dove cominci e dove finisca.

Se l’uomo potesse incatenare la felicità, prolungare a suo talento il piacere, povera vita, a cui verrebbero meno tutte le sue sante pugne, tutte le sue feconde inquietudini! Chi stimola a progredire, se non è la speranza? E che altro è la speranza, se non il dolore presente che anela alle gioie future? [p. 308 modifica]

Nei patimenti soltanto si affina lo spirito, questo cercatore infaticabile, talvolta anco impaziente, del bello, del buono e del vero. Un giorno di felicità, gustato in mezzo alle asprezze del cammino, è come un faro amico sul mare, come un’oasi nel deserto, come un sogno nella vita. Si volge lo sguardo a que’ punti lontani, impromesse non fallaci del meglio, e si spera.

FINE