Chi l'ha detto?/Parte seconda/80e
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e) Germania.
Più copiosa messe di frasi ci giunge dalla Germania - nella quale comprendo l’Austria tedesca - anche perchè furono le stesse nazioni dell’Intesa durante la guerra che s’incaricarono di divulgare e di commentare, non sempre serenamente, com’era naturale data la eccitazione degli animi finchè fervevano le ostilità, quelle che sembravano più adatte ai fini della propaganda, cioè a mettere sotto cattiva luce il popolo tedesco, il suo pensiero, i suoi propositi, e ne furono fatte anche delle antologie nelle quali non è da cercarsi la scrupolosità storica. Potrà vedersi, forse non soltanto per curiosità, il volume: 501 Gems of German thought, selected by William Archer (London, T. Fisher Unwin, s. a.). Pure esso ha la tendenziosità dei libri di propaganda scritti allo scopo di documentare le mire ambiziose della Germania, le tendenze pericolose del pangermanismo e del militarismo, ma le citazioni sono abbastanza esatte: sono tutte tradotte in inglese e la traduzione in generale è precisa, però si tratta sempre di pensieri staccati dal testo e dei quali perciò la interpretazione non può essere scrupolosa. Libri di questo genere ne sono usciti parecchi nelle varie nazioni alleate, ma tutti, allo scopo nostro, di scarso valore, assai inferiore a quello dell’Archer: fra mezzo ai moltissimi libri francesi, si può forse fare un’eccezione per quello del François, Condamnés pas eux-mêmes (Paris, Nilsson, s. a.), che non è tutto da gettare e meglio ancora per quello di Jean Ruplinger, Also sprach Germania (Paris, 1918), che raccoglie estratti di opere tedesche pubblicate durante la guerra, spoglio fatto sui libri del Fonds de la Guerre della Biblioteca Municipale di Lione. Ma questi volumi possono offrire un discreto materiale polemico, non una documentazione erudita e quindi mi astengo anche dal ricordarne altri e dal valermi del materiale ch’essi offrono il cui interesse del resto si può dire nella massima parte sorpassato. Tanto per citare una delle innumerevoli frasi da essi raccolte, sceglierò questa che fu popolarizzata in Italia da un bizzarro ingegno:
1880. Der Krieg ist für krankende Völker das einzige Heilmittel.1
che fu detta da Heinrich von Treitschke in Politik (I. Buch, § 2: Der Zweck des Staates; nella trad. di E. Ruta, Bari, Laterza, 1918, vol. I, pag. 71). Lo ridusse con molta libertà Filippo Tomaso Marinetti, il fondatore del futurismo, nel primo Manifeste du Futurisme, pubblicato nel Figaro di Parigi del 20 febbraio 1909, al § 9: «Nous voulons glorifier la guerre - seule hygiène du monde — le militarisme, le patriotisme, le geste destructeur des anarchistes, les belles idées qui tuent, et le mépris de la femme»; la stessa frase, Guerra, sola igiene del mondo, divenne il titolo di un suo volumetto di propaganda per la guerra contro l’Austria, stampato in francese nel 1910 e poi ristampato tradotto in italiano nel 1915, in piena polemica fra neutralisti e interventisti iMilano, Edizioni futuriste di «Poesia»).
Il primo posto fra le frasi tedesche di guerra va dato alle frasi dell’ex-imperatore Guglielmo II, non solo per il grado altissimo della persona, ma per la inesauribile loquacità di lui. Già qualche frase detta da lui in altre circostanze fu registrata nelle pagine precedenti di questo volume: qualche altra fu riesumata a scopo polemico durante la guerra, come ad esempio il famoso discorso da lui pronunciato a Bremenhafen il 27 luglio 1900 alle truppe tedesche in partenza per la spedizione di Cina, discorso, di cui alcune delle frasi più violente furono poi attenuate nella stampa e in particolare fu tolto l’accenno al passaggio degli Unni. Queste frasi mancano anche nella ediz. autorizzata dei discorsi del Kaiser che fa parte della Reclam’s Universal- Bibliothek (vedi: Hammer, William the Second, London, 1917, pag. 160).
All’ ex-imperatore si possono rivendicare le famose parole:
1881. Vos estis sal terræ.... Vos estis lux mundi.2
che veramente sono parole di Cristo ai discepoli nel Sermone della montagna (San Matteo, cap. V, v. 13-14), ma naturalmente, se applicate ai tempi nostri, non potevano essere appropriate che ai Tedeschi. Fu Guglielmo II che in un discorso fatto a Brema il 22 marzo 1905 disse: «Noi siamo il sale della terra, ma noi siamo anche degni di esserlo» e al principio della Grande Guerra il prof. A. Deissmann, docente di esegesi biblica alla università di Berlino, in un opuscolo dei Deutsche Reden in schwerer Zeit (Berlin, 1914), serie di scritti polemici di professori delle varie università tedesche, scriveva: «C’è un detto del Vangelo che balza oltre i confini del significato storico originale e acquista nuovo vigore nella tempesta della guerra mondiale, un detto che noi possiamo ben assumere come la consacrazione della nostra missione tedesca: Voi siete il sale della terra! voi siete la luce del mondo!».
Ma tutto questo è niente di fronte al mare di parole gettate dal Kaiser dal giorno delle ostilità in poi. I detti di guerra di colui che la stampa inglese già da tempo chiamava con metafora profetica the War Lord, il «Signore della Guerra», sono stati rac- colti: cito fra gli altri il volume di Otto Thissen, Der Kaiser im Weltkriege: Schilderungen, Gedichte, Kaiserworte (Köln, 1917), che contiene anche una cronaca della guerra fatta con le parole imperiali. La raccolta non arriva che verso la fine del penultimo anno di guerra: ma l’anno dopo l’imperatore divenne, et pour cause, più silenzioso. Qualcuna delle frasi di lui si può trovare anche in altro libro più facilmente accessibile: Les discours de Guillaume II pendant la guerre, recueillis par M.me Marie Méring /Paris, 1918). Vediamo di scegliere dalle diverse fonti le più importanti fra le molte frasi, vale a dire quelle che hanno maggior probabilità di sopravvivere alla memoria di questi anni fortunosi.
Il giorno dopo la dichiarazione di guerra, il 4 agosto 1914, l’imperatore Guglielmo II convocò il Reichstag al Castello Reale di Berlino, e là, nella Sala Bianca, lesse il discorso del trono in cui erano le famose parole:
1882. In aufgedrungener Notwehr mit reinem Gewissen und reiner Hand ergreifen wir das Schwert.3
e nella seduta che subito dopo seguì nel palazzo del Reichstag il Cancelliere von Bethmann-Hollweg ricordò le parole del Sovrano in forma alquanto diversa che è però quella più nota: «Ich wiederhole das Wort des Kaisers: Mit reinem Gewissen zieht Deutschland in den Kampf!».
L’imperatore, dopo aver letto l’anzidetto discorso del trono, aveva continuato improvvisando poche parole: «Sie haben gelesen, meine Herren, was Ich an mein Volk vom Balkon des Schlosses aus gesagt habe. Hier wiederhole Ich:
1883. Ich kenne keine Parteien mehr. Ich kenne nur Deutsche».4
e fra le scroscianti acclamazioni aveva invitato i capi di tutti i partiti a venire a stringergli la mano. L’imperatore alludeva al breve discorso da lui fatto il 31 luglio, dopo la dichiarazione dello stato di pericolo di guerra (Kriegsgefahrzustand). La popolazione di Berlino aveva fatto due imponenti dimostrazioni all’imperatore e in tutte e due Guglielmo II, chiamato al balcone, parlò al popolo: fu nella seconda di queste dimostrazioni, verso le 8 della sera, che egli, dopo aver ringraziato i cittadini dell’amore e della fedeltà che gli dimostravano, soggiunse: «Wenn es zum Kampfe kommt, hört jede Partei auf. Wir sind mir noch deutsche Brüder» (cioè, Quando si viene alla lotta, cessa ogni partito: noi siamo soltanto fratelli tedeschi).
Bisogna però avvertire, una volta per sempre, che tutte queste citazioni, tolte da giornali o da libri diversi, non sono mai riportate nella medesima forma. E cosi tolgo dai giornali e in forma molto dubitativa l’aneddoto che alla fine della stessa seduta inaugurale l’imperatore mescolatosi ai deputati e discorrendo familiarmente con loro avrebbe detto al deputato V. Talker (in francese?): «Et maintenant nous allons les battre comme plâtre» (cioè, Adesso li pesteremo di santa ragione). Queste parole non figurano nei rendiconti ufficiali: ma furono riferite dai giornali del tempo e alcuni degli innumerevoli bardi di guerra fioriti in quell’alba sanguinosa - Jos. Buchhorn, Cari Belau ecc. - ne fecero il soggetto e il tìtolo delle loro poesie.
1884. Das Schwert ist gezogen, das ich ohne siegreich zu sein, ohne Ehre nicht wieder einstecken kann.5
sono parole dette da Guglielmo II a Potsdam il 9 agosto 1914, passando in rivista il primo reggimento della Guardia a piedi; e dicendo queste parole, aveva estratto la spada del fodero e la brandiva in alto.
1885. Piccolo spregevole esercito.
così egli avrebbe chiamato l’esercito inglese in un ordine del giorno datato da Aquisgrana il 19 agosto 1914 con parole che i giornali inglesi del tempo così riportarono: « Mettete in opera tutta la vostra abilità e tutto il valore dei miei soldati, per prima cosa, per sterminare gl’inglesi traditori e per annichilire il piccolo spregevole esercito (contemptible little army) del generale French». Ma i tedeschi hanno sempre smentito la esistenza di tale ordine del giorno e quindi la frase è di dubbia autenticità: tuttavia, se non fu detta, non è indiscreto di ritenere che fu pensata, poichè era troppo diffusa nelle sfere ufficiali tedesche l’opinione della poca efficacia di un esercito inglese raccogliticcio in una grande guerra continentale. I giornali, verso quel tempo stesso, narrano altro aneddoto, che persona assai autorevole mi assicura autentico; cioè che lo stesso Imperatore leggendo in un giornale inglese il progetto del governo britannico di venire in aiuto alla Francia sbarcando sulle coste della Manica un esercito di 100.000 uomini, avrebbe, com’era suo costume, postillato il giornale, scrivendovi in margine con la matita turchina: Poor boys! (Poveri ragazzi!); e del resto è storica la beffarda risposta di Bismarck a chi gli chiedeva come si sarebbe comportato nel caso di uno sbarco degli inglesi nello Slesvig-Holstein: Li farò arrestare!
Altre frasi di Guglielmo II, di quel primo anno di guerra, che sarebbero notevoli, ma la cui citazione imprecisa, e soltanto da fonti nemiche, non offre garanzie di autenticità, sono queste: «Ricordatevi che siete il popolo eletto. Lo spirito del Signore è sceso su di me perchè io sono l’imperatore dei Tedeschi! Io sono lo strumento dell’Altissimo. Io sono la sua spada, il suo scudo e il suo vicario. Sventura e morte a coloro che disobbediranno alla mia volontà! Sventura e morte ai codardi e agli uomini senza fede!», frasi pazzesche e quasi incredibili che apparterrebbero ad un discorso all’Armata dell’Est del 13 settembre 1914; e quest’altra: «Noi dobbiamo la vittoria al nostro vecchio Dio. Egli non ci abbandonerà, perchè noi ci battiamo per una causa giusta e santa», in un discorso alle truppe di Dortmund, pure del settembre 1914. Chi sa se la frase poi usata e abusata del vecchio Dio sia comparsa qui per la prima volta!
1886. Vor Gott und der Geschichte ist mein Gewissen rein: Ich habe den Krieg nicht gewollt.6
sono parole di lui nel proclama indirizzato al popolo tedesco nel primo anniversario della dichiarazione di guerra, il 31 luglio 1915.
1887. Non vi è più nessuna legge internazionale.
sarebbero pure parole di Guglielmo II a James W. Gerard, ambasciatore degli Stati Uniti a Berlino; e quando furono note, gli furono acerbamente rimproverate non meno che lo scrap of paper al Cancelliere. Naturalmente sull’autenticità di queste parole non c’è altra autorità che quella del Gerard medesimo il quale pubblicò le memorie del suo soggiorno in Germania, prima nel Daily Telegraph, poi, in volume a parte. Nell’ultima udienza che il Gerard ottenne dall’imperatore, a Charleville, dove era allora il Gran Quartier Generale Tedesco, il 1° maggio 1916, presente anche il Cancelliere dell’Impero, essendo subito venuto il discorso sulla questione della guerra dei sottomarini che l’imperatore sosteneva non contraria alle leggi internazionali: «He stated, anyway, there was no longer any international law. To this last statement the Chancellor agreed» (Daily Telegraph, 15 agosto 1917 - Gerard, My four years in Germany, London-Toronto-New York 1917, cap. XVII, pag. 246).
1888. Unser treuloser ehemaliger Verbündeter hat erfahren, was deutsche Kraft und deutscher Zorn zu leisten vermag.7
sono le ultime parole del telegramma di congratulazione mandato dal Kaiser al generale von Below il 1° novembre 1917, dopo la rotta di Caporetto. Egli stesso parlando alle sue truppe del Brandeburgo nel Friuli il 14 novembre 1917 aggiungeva: «Der furchtbare Zusammenbruch des Gegners war ein Gottesgericht» (cioè, La terribile disfatta dell’avversario è un giudizio di Dio).
Del figlio, il Kronprinz Guglielmo, che pure parlava volentieri, e famosa la frase scritta nella prefazione dell’opuscolo comparso anonimo verso il 1912 col titolo: Deutschland in Waffen, frase della quale non ho il testo originale:
1889. Noi non potremo ottenere il posto al sole che ci spetta che con l’aiuto di una buona spada, perchè non ce lo cederanno mai volontariamente.
frase che ebbe una grandissima eco in Germania - la si trovava negli ultimi tempi stampata sotto ai ritratti del Principe diffusi dovunque per opera dei nazionalisti - ma nella quale non si deve cercare la fonte della metafora del posto al sole che fu per gli intellettuali tedeschi la causa remota e legittima della guerra; poichè si tratta di un pensiero assai più antico di cui è possibile sia inventore il padre del Principe Imperiale, lo stesso Guglielmo II, il quale in un discorso pronunziato ad Amburgo il 18 giugno 1901, parlando del trattato di Scian-tung col quale la Cina cede all’impero Germanico Kiao-ciao, la «perla delle Colonie», perduta poi nella recente guerra, diceva: «Non ostante che la Germania non abbia quella flotta che dovrebbe avere, noi abbiamo saputo conquistarci un posto al sole. Sarà adesso mio compito di fare in modo che il posto al sole rimanga nostro possesso indisturbato, in modo che i raggi del sole possano illuminare con frutto il nostro lavoro e il nostro commercio nei paesi stranieri«. Lo stesso concetto ripeteva il principe Bernhard von Bülow, parlando del trattato medesimo in Germania Imperiale (trad. ital., Milano 1914, pag. Il6), ch’egli definiva «una delle azioni più importanti della nuova storia tedesca che ci ha assicurato nell’Asia Orientale il nostro posto al sole».
Accanto al sinistro imperatore di Germania bisogna porre l’altro compagno suo di Austria-Ungheria. Franz-Joseph, già ricordato e non con onore in queste pagine (vedi num. 1254). Ma egli era assai meno loquace del giovane collega e qui non mi avviene di ricordare di lui che una sola citazione, e s’intende, ostile all’Italia:
1890. Ein Treubruch, desgleichen die Weltgeschichte nicht kennt, ist von dem Königreich Italien an seinen beiden Verbündeten begangen worden.8
È tolta dal proclama imperiale (controfirmato dal cancelliere Stürgkh) «ai suoi popoli» datato da Vienna il 23 maggio 1915, che comincia: «Der König von Italien hat mir den Krieg erklärt. Ein Treubruch etc. (cioè, Il re d’Italia mi ha dichiarato la guerra. Un tradimento ecc.)».
E con l’imperatore di Germania deve venire anche il suo primo ministro, il dott. Theobald von Bethmann-Holiweg che fu Cancelliere dell’Impero tedesco (succeduto al Bülow) nei primi anni della guerra, sino al 1917, ed è morto nei primissimi giorni del corrente anno (1921). Fu lui a dire (e i conservatori e nazionalisti gliene fecero aspro rimprovero):
1891. Not kennt kein Gebot.9
nel distorso pronunziato alla seduta del Reichstag del 4 agosto 1914, subito dopo lo scoppio della guerra, quando fu costretto ad ammettere il torto della Germania nella violazione della neutralità del Belgio e del Lussemburgo: «Das ist die Wahrheit. Wir sind in der Notwehr und Not kennt kein Gebot u.s.w.» - cioè: «Ecco la verità. Noi siamo in stato di necessità e la necessità non conosce legge. Le nostre truppe hanno occupato il Lussemburgo e hanno forse già messo piede nel territorio del Belgio. Signori, ciò che noi abbiamo fatto è un atto contrario alle regole del diritto internazionale.... Il torto, lo dico apertamente, il torto che noi abbiamo fatto, ci sforzeremo di ripararlo subito che il nostro scopo militare sarà raggiunto. Chi è minacciato come noi e lotta per il suo bene più caro, non deve pensare che al mezzo migliore per aprirsi la via» (cfr. Sept Discours de Guerre du Chancelier allemand, I914-1916. Zürich, Orell Füssli, pag. 11).
Ma giustamente l’on. Sonnino in un memorabile discorso pronunciato alla Camera il 25 ottobre 19 17 ribatteva: «Not hat (sic) kein Gebot, proclamava Bethmann-Hollweg dinanzi al Reichstag. La fede data, dunque, non ha valore di fronte al vantaggio del momento. Necessità non ha legge, e per necessità valga il comodo proprio e la soddisfazione delle proprie cupidigie».
Necessità non conosce legge, o non ha legge è proverbio: lo registra pure il Giusti ed è del resto comune a tutte le letterature.
Ma un volgare ditterio giuridico dice invece: Necessitas facit ius e il principio della necessità come fonte di diritto è anche stabilito da un passo di Modestino nel Digesto (L 40, Dig. I, 3): «Omne ius aut consensus facit aut necessitas constituit aut consuetudo firmavit». Si può anche consultare: Umb. Borsi, Ragione di guerra e stato di necessità nel diritto internazionale, nella Rivista di diritto internazionale, a. X, 1916, pag. 157-194, dove però non è fatto accenno, se non in forma affatto teorica e generale, alle giustificazioni del Bethmann-Hollweg.
Però il nome del Cancelliere rimarrà specialmente legato ad altra frase infelice, pronunciata nella notte del medesimo giorno in cui disse la precedente, la frase del
1892. Pezzo di carta.
detta dal Cancelliere all’ambasciatore inglese W. E. Goschen nell’udienza del 4 agosto 1914 prima della partenza di lui da Berlino. Il rapporto ufficiale del Goschen così riferisce il colloquio: «Just for a word, neutrality, a word which in war time had so often been disregarded — just for a scrap of paper Great Britain was going to make war on a kindred nation who desired nothing better than to be friends with her», cioè, Proprio per una parola, neutralità, una parola che in tempo di guerra è stata così spesso disconosciuta - proprio per un pezzo di carta la Gran Bretagna vuole scendere in guerra contro un popolo della stessa sua razza e che non desidera nulla di meglio che di esserle amico (Miscellaneous, No 8, 1914. Despatch from H. M’s Ambassador at Berlin respecting the rupture of diplomatic relations with the German Government. Presented to both Houses of Parliament etc., pag. 3).
Per la storia sarà bene ricordare che il «pezzo di carta» cui alludeva il Bethmann-Hollweg era il cosiddetto trattato di garanzia del 19 aprile 1839, che del resto non faceva che confermare le stipulazioni del protocollo di Londra del 20 gennaio 1831 (il quale mentre fissava le basi della separazione del Belgio dall’ Olanda, stabiliva all’art. 5: «Il Belgio costituirà uno stato perpetuamente neutrale. Le cinque Potenze - cioè Austria, Francia, Inghilterra, Prussia e Russia - gli garantiscono la neutralità perpetua, nonchè la inviolabilità del territorio») e del trattato del 15 ottobre 1831: questi patti furono rinnovati, sviluppati e precisati nei due trattati pure di Londra del 19 aprile 1839, il primo era il trattato di pace e di amicizia fra il Belgio e l’Olanda e riconfermava nell’art. 7 la indipendenza e la neutralità perpetua del Belgio, col secondo le cinque grandi potenze dichiaravano (art. 1) che le stipulazioni dell’altro trattato dello stesso giorno poste sotto la loro garanzia.
Il Cancelliere tedesco non smentì le parole attribuitegli dal Goschhen, soltanto sostenne che il loro significato era stato travisato. In una intervista concessa al corrispondente americano della Associated Press il 24 gennaio del 1915, cioè ben sei mesi dopo, egli si meravigliava che quella espressione avesse fatto una così sfavorevole impressione agli Stati Uniti; e ricordando che il giorno precedente di quella conversazione il ministro inglese Grey aveva espresso in un suo discorso alla Camera dei Comuni dei dubbi sulla condotta che avrebbe tenuto l’Inghilterra, la quale sarebbe entrata in guerra non per la neutralità del Belgio ma secondo che le dettavano i suoi interessi, proseguiva: «That is what I meant when told sir Edw. Goschen, that among the reasons which had impelled England to go into the war, the Belgian neutrality treaty had for her only the value of a scrap of paper», cioè, Questo io intendevo dire al Goschen, che fra le ragioni che avevano spinto l’Inghilterra ad entrare in guerra, il trattato della neutralità del Belgio non aveva per lei maggior valore di un pezzo di carta. Questa intervista comparve nei giornali americani del 25 gennaio e fu anche riprodotta in talune riviste, p. es. nell’American Journal of International Law, vol. 9, July 1915, pag. 717. Rispose subito vivacemente sir Edward Grey con un comunicato alla stampa che ha la data del 26 gennaio e che si trova anche nel citato volume dell’Amer., Journ., pag. 718.
La spiegazione può parere stiracchiata, e noi l’accetteremo per quel che vale: ma poichè c’è sempre qualcuno che è più realista del re, ci fu anche chi dette torto al B.-H. di voler rinnegare ciò che aveva detto e detto bene. Fra costoro è il prof. Silvio Perozzi, della università di Bologna, il quale in un articolo pubblicato in Politica (a. III, fasc. III, del 31 gennaio 1920) e intitolato Il mito del trattato (il titolo fu messo dalla direzione della rivista: l’autore aveva invece stabilito di dargli quello di Chiffons de papier) sostiene che «se il signore di Bethmann-Hollweg disse che i trattati non sono che degli stracci di carta, disse tutta la verità e nient’altro che la verità», perchè lo stato di guerra rende nulli tutti i trattati e i trattati non hanno carattere di contratti. Più ragionevoli distinzioni fece il prof. Maffeo Pantaleoni in altro articolo: I «chiffons de papier» nella storia dei diritti internazionali ne La Vita Italiana, del 15 maggio 1918; ristampato nel volume dello stesso Pantaleoni: Politica, Criteri ed eventi (Bari, Gius. Laterza e Figli, 1918), pag. 211-226.
Sono andati alcuni ricercando dei precedenti storici a questa frase così discussa ed è stato ripetutamente nominato un altro sovrano tedesco degli Hohenzollern, Federico Guglielmo IV di Prussia il quale inaugurando personalmente la Dieta l’11 aprile 1847 avrebbe detto qualcosa di molto simile. Ma non è esatto: il re disse che non intendeva trasformare i rapporti naturali fra principe e popolo in rapporti convenzionali, costituzionali, e non ammetteva che fra Dio e il popolo si frapponesse un foglio scritto; egli quindi parlava degli statuti costituzionali, non dei trattati. Più logico è di rievocare le parole di Machiavelli nel Principe (cap. XVIII): «Non può, pertanto, un signore prudente nè debbe osservar la fede, quando tale osservanzia gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere». Come curiosità registrerò che nel Times del 21 ottobre 1919, comparve una lettera di Lord Fisher intitolata A harbour for the Atlantic Fleet, in fondo alla quale in NB. c’è la seguente sentenza, giusta per sè stessa, ma che, date le polemiche precedenti, si presta a commento: «Community of interests is the only treat that is not a scrap of paper». Per essere detto da un inglese, mentre gl’inglesi furono i più feroci contro il Cancelliere, non c’è male!
È noto infatti che la frase infelice del Cancelliere fece buon giuoco nelle mani degli inglesi i quali se ne fecero un’arma formidabile mettendo in cattiva luce la slealtà tedesca. Col titolo ironico di Scraps of paper fu anche composto un efficace fascicolo di propaganda che raccoglieva i facsimili di molti feroci proclami tedeschi affissi nel Belgio e in Francia con una prefazione del deputato inglese Ian Malcolm; di quest’opuscolo stampato nel 1916 da Hodder & Stoughton a Londra furono fatte anche le edizioni francese (Chiffons de papier) e italiana (Stracci di carta) e forse altre in altre lingue e tutte diffuse a centinaia di migliaia di esemplari.
A un altro diplomatico tedesco appartiene la cinica frase
1893. Spurlos versenkt.10
che è in un telegramma del conte von Luxburg, incaricato d’affari all’Argentina, al Ministero germanico degli Esteri del 9 luglio 1917, trasmesso con discutibile compiacenza dalla Legazione svedese e che intercettato dagli Americani fu decifrato e denunziato alla pubblica riprovazione dal Sottosegretario di Stato Lansing in un comunicato alla stampa del 9 settembre 1917; (vedi The Daily Mail del 10 settembre): «Per quanto riguarda i vapori Argentini, raccomando o di obbligarli a tornare indietro di affondarli lasciare nessuna traccia». Vi accennava anche l’on. Sonnino nel suo discorso alla Camera del 25 ottobre 1917: «Quanto alla libertà e comunanza dei mari, in tempo di pace nessuno la contesta; in tempo di guerra il diffìcile è di farla valere. Gli Imperi centrali dichiarano, in teoria, di accettarla, ma la loro risposta pratica l’avete avuta nel metodo ripetutamente e impunemente raccomandato al proprio governo, come fosse la cosa più naturale del mondo, dall’inviato germanico a Buenos Aires, mentre stava impegnando la parola del governo stesso al pieno rispetto della incolumità delle navi argentine: il consiglio cioè di affondarle senza lasciare traccia».
Uscendo dal mondo ufficiale ecco due altre citazioni che non si potrebbero dimenticare:
1894. Es ist nicht wahr.11
negativa ormai celebre sulla quale è impostato il famoso Manifesto dei 93 professori tedeschi, ossia l’Aufruf an die Kulturwelt (Appello al mondo civile), firmato dai 93 più illustri rappresentanti della scienza e dell’arte germanica (fra i nomi più noti rilevo quelli di Behring, Bode, Brentano, Dehmel, Ehrlich, Eucken, Haeckel, Harnack, Humperdinck, Lamprecht, Ostwald, Planck, Roentgen, Sudermann, Vollmöller, Vossler, Siegfr. Wagner, Wassermann, Wiegand, Wilamowitz-Moellendorf, Wundt ecc.) i quali protestavano smentendo tutte le calunnie diffuse contro la Germania, la responsabilità della guerra, la violazione della neutralità del Belgio, i massacri del Belgio, l’incendio di Lovanio, le violazioni del diritto delle genti ecc. ecc.; ed ogni paragrafo di questa audace smentita cominciava con le parole - stampate in grande - Es ist nicht wahr. L’Appello ha la data del 3 ottobre 1914 e fu comunicato alla stampa tedesca il 4: ma intanto fu distribuito a profusione in tutti i paesi neutri (ai quali era più specialmente destinato) in foglietti di 4 pagine in-4°, nelle lingue dei vari paesi. Questa negazione esagerata, anche di quelle circostanze che ormai lo stesso governo tedesco aveva dovuto ammettere, non giovò alla causa tedesca: un giudice non sospetto, Romain Rolland, diceva: «L’entêtement criminel des quatre-vingt-treize intellectuels à ne pas vouloir voir la verité, aurait couté plus cher à l’Allemagne que dix défaites» (Au-dessus de la mélée, pag. 14). Il disgraziato documento suscitò, com’era ovvio, lunghe polemiche e dette occasione a numerose risposte collegiali di università e accademie dei paesi dell’Intesa e neutrali; conosco quella dell’Istituto e delle università di Francia, cui si associarono i professori delle università rumene di Bucarest e di Jassy; altra separata dell’università cattolica di Parigi; una con le firme di 121 professori, scienziati, letterati, artisti inglesi: una della università imperiale russa di Kasan, ecc.
1895. J’accuse!...12
fu già il titolo della famosa lettera aperta di Emilio Zola al presidente della Repubblica, Felice Faure, sull’affare Dreyfus, pubblicata dopo l’assoluzione di Esterhazy. nell’Aurore, giornale di Parigi, del 13 gennaio 1898; e allo stesso affare Dreyfus appartenevano le altre belle parole di Zola che chiudono il primo articolo scritto dall’illustre romanziere nella nobilissima campagna da lui intrapresa per la verità e per la giustizia, e pubblicato col titolo: M. Scheurer-Kestner, nel Figaro del 25 novembre 1897: La verité est en marche: rien ne peut plus l’arrêter. Le une e le altre furono richiamate in onore in altra ben più alta polemica della recente guerra. J’accuse!... fu preso come titolo del famoso libro uscito anonimo a Losanna, presso l’editore Payot, ai primi dell’aprile 1915: il libro che era una formidabile requisitoria contro il militarismo germanico, ebbe un’eco profonda e fu tradotto in tutte le lingue. Il titolo è in francese anche nell’edizione tedesca; e la reminiscenza dell’affare Dreyfus è resa più evidente dal motto in testa al primo capitolo: La verité est en marche. L’autore si celava sotto la frase Un tedesco: ma subito dopo l’armistizio si rivelò per il dott. Richard Grelling che fino al maggio 1915 viveva a Firenze e compose il libro nella sua villa di Careggi dal 15 dicembre 1914 al 15 gennaio 1915 (ved. un’intervista del dott. Cipriano Giachetti nel Nuovo Giornale di Firenze, n. 119, del 21 maggio 1920); però il governo tedesco era riuscito a conoscerne la identità anche prima e processò il Grelling in contumacia per alto tradimento già nella primavera del 1918.
La poesia e il canto hanno avuto, in Germania più che altrove, una parte grandissima nella presente guerra come strumento di propaganda e di elevazione degli animi; e se i mutati metodi della guerra non hanno permesso alle truppe germaniche di marciare all’assalto al canto dei loro inni patriottici, come marciavano nel 1813 per la liberazione della patria tedesca cantando le canzoni di Arndt e di Körner, tuttavia quest’inni echeggiarono solenni nelle trincee, nelle marcie trionfali attraverso le città conquistate, e nel paese in cortei, in assemblee e perfino sotto la volta del palazzo del Reichstag. Si veda il voi. di A. G. Bragaglia, I Tedeschi e le canzoni di guerra (Bari, Humanitas, 1915): opera di volgarizzamento ma non inutile a consultarsi. Il canto caratteristico di questa guerra fu quello, popolarissimo, e meglio noto per il primo suo verso
1896. Deutschland, Deutschland über alles.13
mentre il suo vero titolo è Das Lied der Deutschen. L’autore, August Heinrich Hoffmann von Fallersleben (n. a Fallersleben 1798, m. 1874), fu poeta e filologo, bibliotecario della biblioteca universitaria di Breslavia, poi destituito per cause politiche e finì la sua vita avventurosa come bibliotecario del duca di Ratibor a Corvei. Egli compose questo canto nel 1841 nell’isola di Heligoland, allora sotto gl’Inglesi e dove appunto per questo gli fu alzato un monumento. Racconta egli stesso in Mein Leben, vol. VII: «Il 24 agosto [1841] io passeggiava con Campe [il suo editore] sulla piazza: Ho composto una poesia, gli dissi, ma ne voglio quattro luigi. Io gli lessi Deutschland, Deutschland über alles, e prima che io fossi giunto alla fine, egli pose i quattro luigi nel mio portamonete». Il primo verso, divenuto, come ognuno sa, il grido di guerra dei pangermanisti, è stato variamente interpretato, secondo suggeriva la passione degli interpreti; e per darne il senso giusto occorre riportare intiera la prima strofa cui farò seguire la versione datane dal prof. Pio Rajna in un articolo pubblicato nel Marzocco di Firenze, del 19 gennaio 1919:
Deutschland, Deutschland über alles
Ueber alles in der Welt,
Wenn es stets zu Schutz und Trutze
Brüderlich zusammenhält,
Von der Maas bis an die Memel,
Von der Etsch bis an den Belt,
Deutschland, Deutschland über alles,
Ueber alles in der Welt!
cioè: «A tutto la Germania sovrasta, a tutto la Germania nel mondo, purchè sempre, a difesa ed offesa, si tenga stretta fraternamente, dalla Mesa alla Memel, dall’Adige al Belt; a tutto quanto la Germania sovrasta, a tutto quanto è nel mondo». Questa è senza dubbio l’interpretazione giusta ma non bisogna dimenticare il commento che l’autore stesso ne dette in una nota lettera all’amico Adolfo Strümpell scritta il 27 agosto 1870: «L’epoca potente in cui noi viviamo, assorbe tutti gl’interessi particolari, annienta tutto ciò che si chiama amore e cordialità e non lascia sussistere che l’odio, l’odio per l’infame razza dei Francesi, per questi mostri in aspetto umano, per questi cani arrabbiati, per questa grande nation de l’infamie et de la bassesse (in francese nel testo) . Faccia Dio - e lo farà! - che noi usciamo gloriosi da questa dura lotta e che rendiamo alla umanità il beneficio di realizzare il mio Deutschland über alles che non è soltanto mio ma di noi tutti». Si veda: Paul Besson, L’auteur de “Deutschland über alles”, negli Annales de l’Université de Grenoble, to. XXIX. 1917, pag. 237-259.
Alle parole del Lied der Deutschen fu adattata la musica grave e solenne dell’inno nazionale tedesco, che come è noto è anche quella dell’inno inglese, e che fu composta da Haydn nel 1797 per il canto austriaco di Haschka: Gott erhalte Fran den Kaiser che ricorderò più avanti.
Il Lied der Deutschen non fu il solo inno patriottico che si udissi in Germania durante l’ultima guerra poichè non di rado echeggiarono altri canti, pure notissimi al popolo tedesco, e che non sarà inopportuno di qui ricordare, poichè non avemmo occasione di farlo altrove.
Tali sono la Wacht am Rhein (cioè la Sentinella del Reno) del composti verso il 1840 da Max Schneckenburger in cui risuona il ritornello:
1897. Lieb Vaterland magst ruhig sein,
Fest steht und treu die Wacht am Rhein!14
e il Rheinlied, composto da Nikolaus Becker circa lo stesso tempo, nel quale ogni strofe comincia:
1898. Sie sollen ihn nicht haben,
Den freien deutschen Rhein.15
a cui nel giugno 1841 Alfredo de Musset rispose con l’ode magnifica Le Rhin allemand:
1899. Nous l’avons eu, votre Rhin allemand.16
Quanto all’Austria e ai canti ad essa peculiari, mi contenterò di citarne due; il primo è l’inno imperiale già ricordato più sopra, di Lorenz Leopold Haschka, poeta viennese (1749-1827), il cui titolo originale è: Oesterreichische Volkshymne e il primo verso:
1900. Gott erhalte Franz den Kaiser!17
e che il grande compositore Giuseppe Haydn rivestì di note mirabili che furono adattate anche agli inni germanico e inglese. Esso fu cantato per la prima volta il 12 febbraio 1797, natalizio dell’Imperatore, in tutti i teatri di Vienna e in quello di Trieste. Il manoscritto autografo dell’inno e la partitura originale della musica furono ritrovati nel 1842 nella Biblioteca Imperiale di Vienna e in tale occasione la Wiener Musik-Zeitung, Nr. 126 del 1842, pubblicò un articolo con interessanti notizie storiche. L’imperatore cui l’inno è dedicato, era Francesco II (come imperatore del S. R. I.; dal 1804 Francesco I imperatore d’Austria): quando salì al trono Ferdinando I, il principio dell’inno fu così mutato: Gott erhalte unser Kaiser, ma il verso originale tornò buono per il successore, ultimo degli Absburgo sul trono imperiale, Francesco Giuseppe.
L’altro canto è la poesia Feldmarschall Radetzky, di Franz Grillparzer, del giugno 1848, pubblicata da prima nella Constitut. Donauzeitung di Vienna, il cui primo verso:
1901. In deinem Lager ist Oesterreich.18
è divenuto famoso specialmente in questi ultimi tempi. Era il canto di fede del militarismo austriaco, e il primo verso era ripetuto a significare che la forza dell’Austria stava nel suo esercito, e che crollato questo, crollava l’Austria, ciò che i fatti confermarono a Vittorio Veneto.
Oltre questi storici canti della patria, la Germania in armi fu letteralmente ubriacata di poesie e di canzoni bellicose. Sulla enorme produzione di poesia di guerra trovo in una storia tedesca della guerra delle affermazioni incredibili, cioè che nel primo mese delle ostilità si pubblicassero in media 50.000 poesie nuove al giorno! («Man hat ausgerechnet, dass bereits im ersten Kriegsmonat täglich etwa 50.000 Gedichte erschienen sind»; v. Kralik, Geschichte des Weltkrieges. I. Halbband, Wien 1915, S. 187). Speriamo che si tratti di un errore di stampa e che ci siano se non due, almeno uno zero di più! Moltissime di queste poesie appartenevano a una speciale categoria, peculiare ai Tedeschi (e ciò non li onora) e che ha avuto anche un titolo speciale, i «canti dell’odio» (Hassgesänge) e la nazione più spesso presa di mira era, come si capisce, l’inglese. Esiste anche un’antologia di canti dell’odio contro l’Inghilterra che contiene 117 poesie (!) ed ha il titolo: Wehe dir England! Ne conosco la 3a edizione, stampata a Lipsia nel 1915. Una di queste poesie è quella del Rössner che ha per titolo e per ritornello, il
1902. Gott strafe England!19
Ne ho sott’occhio una edizione in cartolina illustrata in cui le tre strofa tono incorniciate da un bel fregio allegorico: la Germania in armi corrucciata che contempla, da una parte i suoi sottomarini che affondano navi mercantili e corazzate inglesi, dall’altra Zeppelin e Gotha che bombardano Londra. Io non credo però che la popolarissima imprecazione abbia origine dalla poesia e penso piuttosto che questa sia stata composta per incastrarvi la imprecazione la quale, a quanto mi hanno assicurato tutti coloro che ho interrogato e che potevano saperne qualcosa, ebbe origini popolari e spontanee. A tal proposito trovo, pur troppo di seconda mano, una interessante citazione: «C’è molto da discorrere intorno all’odio contro l’Inghilterra. Ma qual’è il saluto che i nostri guerrieri si fanno l’uno con l’altro? Gott strafe England! Essi così invocano Dio, ma non il Dio dell’odio o della vendetta, bensì il Dio della giustizia. Vi è un giusto Dio dalle cui mani noi attendiamo con fiducia la punizione dell’uomo ingiusto, del popolo ingiusto» (Hans von Wolzogen, Gedanken zur Kriegszeit, 1915, pag. 19).
Ma la più nota fra le poesie antinglesi, ancor più di quella del Rössner, è il Canto dell’odio contro l’Inghilterra (Hassgesang gegen England), composto da Ernest Lissauer, nome apprezzato nella letteratura tedesca contemporanea. Esso ha per ritornello:
1903. Wir (oppure Sie) haben nur einzigen Feind: England.20
Fu stampato dapprima in una serie di poesie patriottiche del Lissauer stesso, in foglio volante, col titolo collettivo Worte in die Zeit (Göttingen u. Berlin, Verlag von Otto Hapke), e poi nei Kultur-Beiträgen del Dammert di Lipsia del 1° settembre I914, ed ebbe in Germania un successo enorme. A proposito di questo notissimo canto uno scrittore francese (Maur. Muret, La littérature allemande pendant la guerre, Paris, 1920, a pag. 197) racconta che la seconda strofa fu soppressa dalla Censura: è la strofa in cui è detto che a bordo delle navi tedesche gli ufficiali all’ora dei brindisi levavano il bicchiere «A quel giorno!» (Auf den Tag.!) Quale giorno? Quello della guerra contro l’Inghilterra, il solo nemico della Germania. La strofa parve compromettente perchè contrastava con quel che ripetevano i personaggi ufficiali, cioè che la Germania non aveva mai voluto la guerra. Però devo dire che in tutte le stampe della poesia che ho veduto, sia dei primi anni della guerra, sia più tarde, la strofa incriminata era sempre al suo posto.
Ma fra tutti questi canti di ferocia il primato è tenuto dal Canto dell’odio di Heinrich Vierordt, poeta pure assai noto in Germania; questa poesia sollevò largo consenso fra i tedeschi - non senza qualche riserva da parte di spiriti più equilibrati (il Vierordt stesso si duole di una fiera rampogna stampata contro di lui da un pastore wurtemberghese) - ma anche suscitò la riprovazione di quanti all’estero vollero giudicare obiettivamente e con senso di umanità. Ai rimproveri mossigli rispose il Vierordt con una lettera polemica alle Basler Nachrichten del 15 ottobre 1914, nella quale egli difende questa sua composizione; ma se le citazioni che ne ho vedute (per es. nel già citato volume del François, Condamnés par eux-mêmes, pag. 79, 169, 170) sono esattamente riportate, la difesa sarebbe anche più pazzesca e cannibalesca della poesia. Del resto anche questa non mi è nota che attraverso le traduzioni che però sono molte, di fonti diverse e qualcuna degnissima di fede: quindi ho ragione di crederle esatte. Il brano più tristamente famoso è il seguente!
1904. O odio tedesco! Sfonda i petti di milioni dei tuoi nemici e costruisci un monumento di fumanti cadaveri che salga sino alle nuvole.... Nessun prigioniero! Falli tutti muti! Fa’ delle terre intorno a te un deserto!
Il canto del Vierordt, sulla cui autenticità non si può sollevare dubbio, nulla ha che fare con altro «canto dell’odio», di autore sconosciuto, che rivaleggia col primo in bestiale ferocia, ma di cui non soltanto mi è ignoto il testo originale, ma non ho trovato menzione alcuna in nessuno dei libri tedeschi che ho potuto consultare: esso è più conosciuto fra noi, perchè fu largamente diffuso, a scopo di propaganda antitedesca, nel nostro esercito e poi fra le altre truppe dell’Intesa - naturalmente tradotto - sotto forma di cartoline, fogli volanti, manifestini murali ecc., e fu detto che era stato trovato addosso a soldati tedeschi fatti prigionieri presso Cividale nella nostra ritirata del 1917. Ne trascelgo le frasi più significative, senza farmi per nulla garante della autenticità loro: «Quella carne imbelle è fatta per ingrassare i campi che saranno tuoi e dei tuoi figli.... Non piegarti a femminile pietà verso donne e fanciulli.... Figlio della Germania in armi! Avanti! Fulmina, spezza, abbatti, trafiggi, devasta, incendia, uccidi.... uccidi.... uccidi!».
- ↑ 1880. La guerra è l’unico rimedio pei popoli ammorbati.
- ↑ 1881. Voi siete il sale della terra.... Voi siete la luce del mondo.
- ↑ 1882. Nella necessità impostaci della difesa impugnamo la spada con coscienza pura e mano pura.
- ↑ 1883. Io non conosco più partiti: conosco soltanto dei tedeschi.
- ↑ 1884. La spada è levata ed io non posso rinfoderarla senza la vittoria o senza onore.
- ↑ 1886. Dinanzi a Dio e dinanzi alla storia la mia coscienza è pura: io non ho voluto la guerra (non questa guerra, come di solito si dice alterando il testo e il significato).
- ↑ 1888. Il nostro antico alleato spergiuro ha provato che cosa siano capaci di fare la forza e il corruccio tedesco.
- ↑ 1890. Un tradimento di cui la storia non conosce l’uguale, commesso dall’Italia ai danni dei suoi alleati.
- ↑ 1891. Necessità non conosce legge.
- ↑ 1893. Affondati senza traccia.
- ↑ 1894. Non è vero.
- ↑ 1895. Io accuso!...
- ↑ 1896. La Germania, la Germania sopra tutte le cose.
- ↑ 1897. Cara patria, tu puoi vivere tranquilla; sta ferma e fedele la sentinella al Reno.
- ↑ 1898. Essi non l’avranno il libero Reno tedesco.
- ↑ 1899. L’abbiamo avuto il vostro Reno tedesco.
- ↑ 1900. Dio salvi Francesco imperatore!
- ↑ 1901. Nel tuo campo sta l’Austria.
- ↑ 1902. Dio punisca l’Inghilterra.
- ↑ 1903. Noi abbiamo (o Essi hanno) un solo nemico, l’Inghilterra.