Chi l'ha detto?/Parte prima/65

Parte prima - § 65. Risolutezza, sollecitudine, altezza e pochezza d'animo.

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Parte prima - § 65. Risolutezza, sollecitudine, altezza e pochezza d'animo.
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§ 65.

Risolutezza, sollecitudine,
a l t e z z a   e   p o c h e z z a   d’a n i m o



1470.   Dum Romæ consulitur, Saguntum expugnatur.1

è frase proverbiale che trae origine molto probabilmente dalle parole di Tito Livio: «Dum ea Romani parant consultantque, iam Saguntum summa vi oppugnabatur» (Hist., lib. XXI, cap. 7). Ivi lo storico narra i casi di Sagunto, città forte della Spagna Tarraconense (ora Morviedro nel Regno di Valenza), alleata dei Romani, che cinta d’assedio da Annibale nell’anno 218 av. C., chiese soccorso a Roma; ma, mentre i Romani perdevano tempo a mandare inutili ambascerie a Cartagine e in Spagna ed erano tenuti a bada con parole dagli astuti Africani, la misera città, esaurita ogni resistenza, cadeva in potere del capitano cartaginese. Lo stesso accade [p. 497 modifica] a chi s’indugia con dubbiezze e con parole innanzi di prendere una risoluzione: tengasi dunque bene a memoria il proverbio francese:

1471.   Il faut qu’une porte soit ouverte ou fermée.2

«C’est un proverbe de comédie, qui avait ainsi tous les droits de devenir le titre d’une comédie-proverbe», dice argutamente il Fournier nell’Esprit des autres (chap. VI). Infatti la frase si trova originalmente nel Grondeur di Brueis e Palaprat (a. I, sc. 6) e Alfred de Musset ne fece il titolo di una leggera produzione drammatica in un atto, rappresentata al Teatro Francese il 7 aprile 1848.

Dimenticando questo proverbio, succederà molto facilmente quel che succedeva a quei poveri carabinieri obbligati a cantare:

1472.   Nous arrivons toujours trop tard.3

È nell’operetta di Offenbach, Les Brigands, parole di Meilhac e Halévy, alla fine dell’atto I, sc. 11, che i carabinieri, passati appunto in proverbio sotto il nome di carabinieri di Offenbach, arrivano per sorprendere i briganti dopo essersi annunziati «par un bruit de bottes.» Giunti.... a scena vuota, intonano il famoso coro:

          Nous sommes les carabiniers.
               La sécurité des foyers,
               Mais, par un malheureux hasard,
               Au secours des particuliers
               Nous arrivons toujours trop tard.

1473.   Quod facis, fac citius.4

(Evang. di S. Giov., cap. XIII, v. 27).

così dice Cristo a Giuda; mentre a colui che prima di seguirlo voleva indugiarsi a seppellire suo padre, rispose invece:

1474.   Sine ut mortui sepeliant mortuos suos.5

( Evang. di S. Luca, cap. IX. v. 60).
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Ed a risolversi sollecitamente talora muove la mole delle cose da farsi, ciò che può significarsi metaforicamente col verso dantesco:

1475.   Andiam, chè la via lunga ne sospigne!

altre volte muove la necessità,

1476.        E la necessità gran cose insegna.
Per lei fra l’armi dorme il guerriero,
     Per lei fra l’onde canta il nocchiero,
     Per lei la morte terror non ha.
Fin le più timide bestie fugaci
     Valor dimostrano, si fanno audaci,
     Quand’è il combattere necessità.

(Metastasio, Demofoonte, a. I, sc. 3).

Ma non così sollecitamente si risolveva Enea nel dramma dello stesso Metastasio, la Didone abbandonata, quando canta:

1477.   Non parto, non resto.

Ecco tutta la strofa, con la quale finisce l’atto I (sc. 18):

               Se resto sul lido,
                    Se sciolgo le vele,
                    Infido, crudele
                    Mi sento chiamar:
               E intanto, confuso
                    Nel dubbio funesto,
                    Non parto, non resto,
               Ma provo il martire
                    Che avrei nel partire,
                    Che avrei nel restar.

Un nobile esempio di altezza d’animo è quello di cui la memoria è affidata alle parole:

1478.   Non dolet.6

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Quandò Cecina Peto (da non confondersi, come molti fanno, con Trasea Peto che fu suo genero) ebbe ordine dall’imperatore Claudio di uccidersi per aver preso parte alla congiura di Scriboniano (42 dell’ E. V.), la moglie Arria, donna di nobilissimi sensi e di animo più che virile, vedendo il marito esitare, a rinfrancarlo con l’esempio, gli tolse il pugnale di mano, si ferì a morte, e glielo restituì dicendogli che non faceva male. Il fatto è narrato da Plinio Secondo il vecchio in una delle sue Epistole (lib. III, ep. 16), diretta al nipote e nella quale esalta i chiari fatti di Arria. « Præclarum quidem illud eiusdem, ferrum stringere, perfodere pectus, extrahere pugionem, porrigere marito, addere vocem immortalem, ac paene divinam, Pæte, non dolet.» Alterò queste parole con eccessiva libertà poetica Marziale in uno dei suoi epigrammi (lib. I, ep. 14): e anche poco esattamente son riportate nella narrazione di questo eroico caso che si trova in Dione Cassio (lib. LX, cap. 16) e in Zonara (lib. XI. cap. 9), dove sono grecamente così riferite: Παῖ (invece di Παῖτε), οὐκ ἀλγῶ.

Pose anche da banda gli indugi e le irresolutezze Giulio Cesare, allorché esclamò:

1479.   Jacta alea est (o esto).7

Passando audacemente il Rubicone, che nessun capitano in armi poteva varcare senza esser tenuto nemico della Repubblica Svetonio, Vita di Cesare, 32). L’ indicativo est è la lezione volgare: ma la migliore e più accettata dai critici è invece l’imperativo esto. Questa, che è un’emendazione Erasmiana, è confortata anche dal testo greco della medesima frase presso Plutarco, Vita di Cesare, § 32, e Vita di Pompeo, § 60: Ἀνεῤῥίφθω κύβος. Dal fatto medesimo nacque l’altra frase proverbiale, passare il Rubicone. Il qual fiume celebre per aver segnato dopo l’anno 695 di Roma (o in quel torno) il confine d’Italia, e vie’ più celebre per il passaggio di Cesare, mutò nel lungo volgere dei tempi nome e anche letto. Per cui, per potere stabilire veramente quale fosse il vero Rubicone, e quale il primitivo suo corso sorsero prima lunghi e anche sanguinosi conflitti giurisdizionali (poichè le sue [p. 500 modifica] acque si voleva segnassero il confine fra i comuni di Cesena e di Rimini), e più tardi non meno lunghe e fiere contese letterarie, portate fino avanti alla Rota Romana, e durate sino alla metà del secolo testè compiuto. Tre fiumi si contendevano l’onore di essere il vero Rubicone, cioè il Pisciatello in quel di Cesena, il Fiumicino nel territorio di Savignano, e l’Uso nel Riminese. Sembra oggi con fondamento assodato che l’antico Rubicone debba riconoscersi, per una parte corrispondere a quel tratto di fiume che col nome di Urgone scendendo dal monte di Strigara corre fino alle radici del colle di Montiano: per l’altra parte, a un antico corso d’acqua, ora perduto, che dal colle predetto, volgendo a destra (anzichè a sinistra come fa oggi) e unitosi prima alla Rigossa e poi al Fiumicino, per il Ponte di Savignano scendeva al mare. La storia di questa curiosa controversia fu bene riassunta da Alfonso Pecci in certe Note storico-bibliografiche intorno al fiume Rubicone, pubblicate nel Bibliofilo, settembre-ottobre 1890, pag. 129-142.

A mazzo insieme con le parole di Cesare, porremo un altro proverbio usato in simili circostanze:

1480.   Cosa fatta capo ha.

Gli storici fiorentini narrando dell’origine delle fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini in Firenze, l’attribuiscono, secondo la volgare tradizione, all’offesa fatta da Buondelmonte dei Buondelmonti alla casa Amidei, rompendo le nozze con una donzella di quella famiglia. I parenti dell’abbandonata, volendo vendicare l’ingiuria, convengono per deliberare del come, e i più vogliono la morte di Buondelmonte. «E benchè alcuni discorressero i mali che da quella potessero seguire, il Mosca Lamberti disse, che chi pensava assai cose, non ne concludeva mai alcuna, dicendo quella trista e nota sentenza: Cosa fatta capo ha» (Machiavelli, Istorie fiorentine, lib. II, cap. 3). E così più succintamente il Villani (Istorie fiorentine, lib. V, cap. 38): «E stando fra loro a consiglio, in che modo dovessero offendere o di ferirlo o di batterlo di man vota, Il de’ Lamberti disse la maledetta parola, cioè cosa fatta capo ha; e volse dire, che si dovea ammazzare, e così fu fatto.» Questo seguiva nell’anno 1215. Però, come mostra ritenere anche il Machiavelli, il Mosca non fece che adattare alla contingenza presente un proverbio già comune e noto a’ suoi tempi. [p. 501 modifica]

Anche Dante citò la maledetta parola di Mosca nell’Inferno, canto XXVIII, v. 107, aggiungendo nel verso seguente:

Che fu il mal seme per la gente tosca.

Altra frase che ricorda un esempio di risolutezza e di presenza li spirito è il noto:

1481.   Acqua alle corde.

L’obelisco, che oggi si ammira nel centro della piazza di San Pietro, e che è il più grande di quelli che sono a Roma, dopo il Lateranense, trovavasi dietro la Basilica Vaticana dove ora sorge la Sacrestia Nuova. Il trasporto periglioso fu fatto nel 1586 per ordine di Sisto V dall’architetto Domenico Fontana di Como. Piegato l’obelisco verso terra, e condotto sullo strascico fino nel mezzo della piazza, al 10 di settembre fu dato mano a inalzarlo sul suo piedistallo per mezzo di 140 cavalli e 800 uomini. Per evitare ogni confusione il Papa avea pubblicato un editto, che niuno, fuori degli operai, sotto pena della vita potesse durante l’operazione entrare nel recinto, o parlare, o fare il minimo strepito: perciò nel recinto stesso stavano il bargello co’ suoi birri, e il boja che vi aveva piantata la forca. Nondimeno certo Bresca di San Remo, capitano di bastimento genovese, vedendo che le corde che reggevano il monolito, si allungavano per l’enorme peso più del preveduto, e che perciò grande e imminente era il pericolo, non curando la minaccia papale, gridò Acqua alle corde, sapendo che il canape bagnato si ristringe e si accorcia. L’architetto non indugiò a seguire il provvidenziale avvertimento, e l’operazione riuscì felicemente. Il Bresca, invece di gastigo, ebbe larghi favori dal Papa: una lauta pensione mensile estesa ai discendenti, il titolo di capitano del primo reggimento di linea pontificio, col privilegio di portarne la divisa e di alzare la bandiera pontificia sul suo bastimento; e finalmente la privativa per sè e i suoi discendenti di provvedere il Sacro Palazzo di palme, onde tanto è ferace il territorio di San Remo, nella Domenica dell’Olivo. Ed anche oggi un discendente dei Bresca reca tutti gli anni a Roma per quel giorno fino a 500 palme: e la piccola città di San Remo ha da quel tempo nel suo stemma una palma e un leone. Errano coloro che credono che il Bresca gridasse Acqua alle corde perchè [p. 502 modifica] le corde s’incendiavano per l’attrito: la vera ed unica ragione è quella che ho esposta. Vedansi il Cancellieri, Descrizione della Basilica Vaticana (Roma, 1788), pag. 19, e il Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica del Moroni, vol. I, pag. 194; vol. XXV. pag. 189; vol. XLVIII, pag. 194; vol. LI, pag. 70.

Esempio classico di fortissima volontà è quello ricordato dalla famosa frase:

1482.   Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli.

come disse di sè medesimo Vittorio Alfieri, ma non nella Vita, come comunemente si crede, bensì nella Lettera responsiva, a Ranieri de’ Calsabigi, scritta da Siena a dì 6 settembre 1783. L’Alfieri, narrandogli come divenisse autore tragico, accenna alla sua prima tragedia, la Cleopatra, rappresentata e applaudita in Torino; e aggiunge che d’allora contrasse col pubblico, e con sè stesso, che era assai più, un fortissimo impegno di tentare almeno di divenir tale. «Da quel giorno in poi (che fu del giugno del ’75), volli, e volli sempre, e fortissimamente volli.» La risposta al Calsabigi è stampata in tutte le edizioni delle Tragedie insieme alla lettera del Calsabigi stesso: nella stampa collazionata dal Mazzatinti sull’autografo (Lettere edite e inedite di Vittorio Alfieri a cura di G. M., Torino, 1890) questo brano si trova a pag. 27.}}

Vale la pena di osservare che mentre finora si era citato l’Alfieri come modello di singolare forza di volontà, la novissima scuola psichiatrica, che fa anche dell’Alfieri un degenerato, un epilettoide, vuole invece dimostrarne la volontà debolissima, la impulsività incosciente! Vedansi gli studi di G. Antonini e L. Cognetti de Martiis nel vol. XXXV, ser. 2a, della Biblioteca antropologico-giuridica (Torino, 1898): cito, ad esempio, alcune parole del secondo di questi autori nell’Esame psichiatrico di V. Alfieri: «Le alterazioni più gravi nella psiche del nostro ci sono rivelate dalla volontà, nel cui campo esplodono numerose le azioni psichiche e imperversano gli atti impulsivi scoppianti come uragano ruinante. Ha un bel ripetere che volle, che volle sempre, volle fortissimamente, ecc.» (Op. cit., p. 140).

L’uomo che sa provvedere sollecitamente in ogni cattivo evento, può bastare a sè stesso, secondo il precetto virgiliano: [p. 503 modifica]

1483.   Spes sibi quisque.8

(Virgilio, Eneide, lib. XI. v. 309).

Questo è ciò che gl’inglesi chiamerebbero

1484.   Self-help.9

con uno di quei neologismi che gli scrittori inglesi formano così liberamente e volentieri. È divenuto comune dopo che lo scozzese Samuel Smiles (1812-1904), se pure non ne fu addirittura l’inventore, come molti credono, ne fece il titolo di un suo famoso libro, stampato per la prima volta nel 1859, che è stato tradotto in tutte le lingue e che contiene la storia degli uomini i quali dal nulla seppero innalzarsi ai più alti gradi in tutti i rami dell’umana attività.

E questa si suole chiamare altezza d’animo, poichè ha animo elevato chi confida nelle proprie forze, chi aspira a cose alte e belle, e non si lascia vincere dalle difficoltà che uomini ed eventi gli preparano, come suona il verso del Petrarca:

1485.   Nè del vulgo mi cal nè di fortuna.

(Sonetto in vita di M. Laura, num. LXXVIII
secondo il Marsand, com.: Dell’empia Ba-
bilonia, ond’è fuggita; sonetto XCI, se-
condo il Mestica).

Di un uomo siffatto parlava l’Alighieri laddove diceva:

1486.   .... Se ’l mondo sapesse il cor ch’egli ebbe
Mendicando sua vita a frusto a frusto,
Assai lo loda, e più lo loderebbe.

(Paradiso, c. VI, v. 140-142).

Ed era costui Romeo di Villanova, che per l’ingratitudine del conte Raimondo di Provenza, di cui aveva accresciuto la fortuna e maritate le quattro figlie a quattro re, se ne partì povero e vetusto. Ma questa è leggenda, da cui pare fosse molto diversa la vera storia. [p. 504 modifica]

Incitamento a virili propositi, a gesta nobili e audaci sono le parole di Marco Gratico nel Prologo de La Nave, tragedia di Gabriele D’Annunzio:

1487.   Arma la prora e salpa verso il Mondo.

Le ripete poi Basiliola, l’«Aquila di Aquileia», a Marco Gratico in fine del primo Episodio quando la tentatrice lo spinge alla conquista di Costantinopoli: e divennero perciò il motto di guerra dei nazionalisti.

È pure segno di altezza d’animo il contenersi nobilmente nelle contese e nelle polemiche, secondo quel che di sè medesimo diceva Cicerone:

1488.   Et refellere sine pertinacia et refelli sine iracundia parati sumus.10

(Tuscul. disputat., lib. II, cap. I, § 2).

Ecco invece gli uomini di animo pusillo,

1489.                                           .... Coloro
Che visser sanza infamia e sanza lodo.

come furono chiamati da Dante (Inferno, c. III, v. 35-36) che più sotto li dice:

1490.                       .... La setta de’ cattivi
A Dio spiacenti ed ai nemici sui.

(Inferno, c. III. v. 62-63).

Sono costoro i poltroni e vili, che Dante stesso nel verso subito appresso chiama:

Questi sciaurati che mai non fur vivi.

ed ai quali si può applicare il verso del Petrarca:

1491.   Gente, a cui si fa notte innanzi sera.

(Trionfo della morte, canto I, v. 57).
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Cfr. Son. XXXIV in morte di Madonna Laura (CCLXI dell’ ediz. Mestica), e Lucret., De rer. nat., lib. III, vol. 1059. Il primo dice (v. al num. 887):

E compie’ mia giornata innanzi sera;

il secondo:

Mortua cui vita est prope jam vivo atque videnti.


È pure a costoro che la Bibbia promette la eterna beatitudine in un versetto che, detto con altre intenzioni, è stato applicato a citazioni satiriche:

1492.   Beati pauperes spiritu: quoniam ipsorum est regnum cælorum.11

(Evang. di S. Matteo, cap. V, v. 3. -
S. Luca, cap. VI, v. 20).

Ma il Vangelo intende per pauperes spiritu tutt’ altra cosa, cioè coloro che amano di cuore la povertà e la eleggono per amore di Dio, non per necessità; il popolo invece intende coloro che hanno poco spirito, cioè gli sciocchi, o minchioni! Anche questa dunque è una delle tante frasi tradotte a orecchio spropositatamente. Costoro assomigliano al contadino della favola:

1493.   Rusticus expectat dum defluat amnis.12

(Orazio, Epistolæ, lib. I, ep. 2. v. 42).

Il quale aspetta sulle sponde del fiume che le acque scorrano per poterle passare all’asciutto, ma il fiume seguita ad andare, at ille labitur, prosegue il poeta, et labetur in omne volubilis avum.

Udite con quanta severità giudichi costoro anche il più volte citato duca Francesco de la Rochefocauld nelle sue Maximes morales (§ CCCCXLV):

1494.   La faiblesse est plus opposée à la vertu que le vice.13

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Uno di costoro sarebbe stato certamente quel Pietro Soderini (nato verso il 1450), creato gonfaloniere a vita di Firenze nel 1502, e deposto nel 1512, a cui Niccolò Machiavelli rivolse il noto epigramma (do la lezione dell’unico ms. fiorentino Magl. VII, 9, 271, che differisce da tutte le lezioni volgari):

1495.   La notte che morì Pier Soderini.
     L’anima andò dell’inferno alla bocca.
     Gridò Pluton: Che inferno! anima sciocca,
     Va su nel limbo fra gli altri bambini.

e sotto un certo rispetto, benchè difficile e ingiusto torni il confronto, anche quel povero granduca,

1496.   Di papaveri cinto e di lattuga.

(Giusti, L’incoronazione, str. 7).

È costui Leopoldo II, granduca di Toscana, così dipinto nei seguenti versi:

          Il toscano Morfeo vien lemme lemme,
               Di papaveri cinto e di lattuga,
               Che, per la smania d’eternarsi, asciuga
                              Tasche e maremme.
          Co’ tribunali e co’ catasti annaspa;
               E benchè snervi i popoli col sonno,
               Quando si sogna d’imitare il nonno,
                              Qualcosa raspa.

Ma egli, come re e come italiano aveva la colpa di ritrarre dal genio di quella generazione infiacchita, che Giacomo Leopardi rampognava dicendo:

1497.                                           .... Di viltade
Siam fatti esempio alla futura etade.

(Canzone ad Angelo Mai).

La mancanza di ardire e di franchezza, che talvolta può cogliere anche persone solite a nutrir sentimenti virili, è ripresa in Dante per bocca di Virgilio in due luoghi distinti, cioè: [p. 507 modifica]

1498.   Dunque che è? perchè, perchè ristai?
     Perchè tanta viltà nel core allette?
     Perchè ardire e franchezza non hai?

(Inferno, c. II, v. 121-123).

1499.   Perchè l’animo tuo tanto s’impiglia,
     Disse il maestro, che l’andar allenti?
     Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti!
     Sta come torre ferma, che non crolla
     Giammai la cima per soffiar de’ venti.

(Purgatorio, c. V. v. 10-15).

La frase dantesca lascia dir le genti trova il suo riscontro in altra, dello stesso Divin Poeta, anche più colorita:

1500.   [E] Lascia pur grattar dov’è la rogna.

È Cacciaguida che così parla al suo lontano nipote. Modo proverbiale, ma poco degno di un’anima beata del Paradiso, annota non senza giustezza lo Scartazzini. Il proverbio, almeno in Toscana, così suona: «Chi ha la rogna se la gratti». Il seguente verso del Petrarca indica lo stato di animo di un irresoluto:

1501.   Da me son fatti i miei pensier diversi.

(Canzone in vita di M. Laura, num. II, se-
condo il Marsand comincia: Verdi panni,
sanguigni, oscuri o persi, v. 36 canz. III
dell’ediz. Mestica).

cioè i miei pensieri combattono meco medesimo, alla quale condizione di animo si applica pure una curiosa metafora, conosciuta sotto il titolo de:

1502.   L’asino di Buridano.

e di cui l’origine sarebbe la seguente.

Giovanni Buridan, uno dei più celebri e più abili propugnatori del nominalismo, e che fu rettore dell’università di Parigi nel 1327, inclinava nelle sue teorie filosofiche al fatalismo, e fra [p. 508 modifica] gli altri argomenti speciosi ch’egli recava in difesa delle opinioni antiliberiste, primeggiava questo, di sapere se l’uomo posto fra due moventi opposti e di egual peso, può decidersi indifferentemente per l’uno o per l’altro: se non può, cessava il libero arbitrio, se si ammette che possa, l’azione stessa della scelta diventa impossibile, essendo senza ragione e senza scopo. Come infatti scegliere fra due partiti per i quali proviamo una pari indifferenza? Quindi il nome di Buridan è rimasto anche al sofisma, che ci mostra un asino morente di fame fra due misure di avena ugualmente lontane da lui, o morente di fame e di sete fra una misura di avena e un secchio d’acqua, mentre la povera bestia è tormentata da questi due bisogni in grado uguale. Ma si cercherebbe invano questo sofisma nelle opere del celebre nominalista, nè è facile di dire quale potesse esserne l’uso da lui fatto, perchè Buridan poneva in discussione il libero arbitrio dell’uomo e non quello degli animali che nessuno pensava di difendere: quindi è piuttosto da credersi con Tennemann (Histoire de la philosophie, to. VIII, 2e part.) che questo sofisma celebre sia stato immaginato dagli avversari di lui per mettere in ridicolo le sue teorie. Ed egualmente dovremo relegare fra le leggende quella che ci mostra Buridan nelle orgie della Torre di Nesle, fra le braccia di Giovanna di Navarra, moglie di Filippo il Bello, e sfuggito per miracolo alla morte cui la impudica regina condannava, per eccesso di prudenza, i suoi amanti di un giorno facendoli gettare chiusi in un sacco nella Senna. Secondo questa leggenda Buridan, nell’asino famoso, avrebbe alluso a sè medesimo, oscillante fra le grazie della regina e quelle di una dama di lei e compagna di dissolutezze. Ma basta a mostrare il nessun fondamento di questa storiella di ricordare che la regina Giovanna morì in tarda età nel 1305, quando Buridan era ancora molto giovane.

Del resto il dilemma di Buridan non era nuovo nella storia della filosofia: vi accennava già Aristotile (Περὶ οὐρανοῦ, 2, 13). San Tomaso svolgeva il medesimo dubbio, senza darne una soluzione soddisfacente, nella Summa theologiæ, pars I secundæ, qu. XIII, art. 6, e infine l’Alighieri vi accennava nei versi:

Intra due cibi, distanti e moventi
          D’un modo, prima si morrìa di fame,
          Che liber uomo l’un recasse ai denti.

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Sì si starebbe un agno intra due brame
          Di feri lupi, igualmente temendo;
          Sì si starebbe un cane intra due dame.

(Paradiso, c. IV, v. 1-6)


Vedansi anche i versi di Ovidio nel lib. V delle Metamorfosi (v. 164-166):

     Tigris ut, auditis diversa valle duorum
     Exstimulata fame mugitibus armentorum,
     Nescit, utro potius ruat; et ruere ardet utroque.

  1. 1470.   Mentre a Roma si delibera, Sagunto è espugnata.
  2. 1471.   Bisogna che una porta sia tutta aperta o tutta chiusa.
  3. 1472.   Noi arriviamo sempre troppo tardi.
  4. 1473.   Quello che fai, fallo presto.
  5. 1474.   Lascia che i morti seppelliscano i loro morti.
  6. 1478.   Non duole.
  7. 1479.   Il dado è gettato (ovvero, Si getti il dado).
  8. 1483.   Ciascuno spera in sè medesimo.
  9. 1484.   Aiutandosi da sè.
  10. 1488.   Siamo pronti a contraddire senza ostinazione, ed a lasciare, senza adirarci, che altri ci contraddica.
  11. 1492.   Beati i poveri di spirito, perchè il regno dei cieli è per loro.
  12. 1493.   Il contadino aspetta che il fiume passi.
  13. 1494.   La debolezza è più contraria alla virtù che al vizio.