Chi l'ha detto?/Parte prima/64
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§ 64.
Religione, Iddio
1425. L’Amor che move il sole e l’altre stelle.
Un concetto analogo è espresso nel verso virgiliano:
1426. Ab Jove principium, Musæ; Jovis omnia plena.1
1427. Mens agitat molem.2
Pure in Dante troviamo un’altra terzina la quale parla del creato che in ogni sua parte rivela Iddio e la sua potenza, poichè:
1428. La gloria di Colui che tutto move
Per l’universo penetra, e risplende
In una parte più, e meno altrove.
Essa si rivela soprattutto nelle bellezze del firmamento, poichè:
1429. Cœli enarrant gloriam Dei, et opera manuum ejus annuntiat firmamentum.3
1430. Maximus in minimis Deus.4
1431. Obedire oportet Deo magis quam hominibus.5
1432. .... Quel che vuole Iddio e noi volemo.
1433. Si Deus pro nobis, quis contra nos?6
1434. Dieu protège la France.7
Quel ch’egli dispone nella sua somma sapienza, dovrà avverarsi:
1435. [Nè] Sillaba di Dio mai si cancella.
1436. Severi, imperscrutabili, profondi
Sono i decreti di lassù, nè lice
A mortal occhio penetrarne il buio
1437. Sempre il Re dell’alte sfere
Non favella in chiari accenti,
Come allor, che in mezzo a’ venti
E tra i folgori parlò.
Cifre son del suo volere
Quanto il mondo in sè comprende;
Parlan l’opre; e poi s’intende
Ciò che in esse egli celò.
1438. E perigliosa, e vana,
Se da lor [dagli Dei] non comincia ogni opra umana.
1439. Nel cammin di nostra vita
Senza i rai del Ciel cortese,
Si smarrisce ogni alma ardita,
Trema il cor, vacilla il piè.
A compir le belle imprese
L’arte giova, il senno ha parte;
Ma vaneggia il senno, e l’arte,
Quando amico il Ciel non è.
Se sugli attributi divini interroghiamo i classici, che finora consultammo su tanti argomenti, troveremo levata a cielo anzi tutto la onnipotenza di Dio,
1440. Nihil esse, quod deus efficere non possit.8
nè altrimenti la Bibbia:
1441. Quia non erit impossibile apud Deum omne verbum.9
Un nostro grande poeta nazionale invocherà
1442. Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola.
In Dante leggeremo come la prescienza divina delle cose future non sia inconciliabile con il libero arbitrio:
1443. La contingenza, che fuor del quaderno
Della vostra materia non si stende,
Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Ma questa e materia di fede, di quella
1444. Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza.
che ai credenti ha suggerito il motto:
1445. Credo quia absurdum.10
Anche questa frase è una delle molte sentenze riassuntive foggiate da autore ignoto allo scopo di compendiare in sè le dottrine e le opinioni di vari scrittori. La si attribuisce dai più a S. Agostino: ma, se qualcosa negli antichi padri vi si avvicina, desso è uno squarcio di Tertulliano. De carne Christi, cap. V, che suona: «Natus est Dei Filius: non pudet, quia pudendum est; et mortuus est Dei Filius: prorsus credibile est; quia ineptum est: et sepultus, resurrexit: certum est, quia impossibile est.»
A proposito dei dommi che sono di fede nella chiesa cattolica, troviamo negli Inni Sacri di Alessando Manzoni, parlando della Risurrezione, la seguente immagine:
1446. Come un forte inebriato
Il Signor si risvegliò.
Ad alcuni parrà irriverente il paragone di Cristo con un soldato ubriaco: ma proprio la colpa non è del poeta, è della Bibbia che con immagine potente, nel Salmo LXXVII. v. 65, così dice:
Et excitatus est tamquam dormiens Dominus, tamquam potens crapulatus a vino.
Al Manzoni piacque questa similitudine orientale, e se ne valse: vedasene la giustificazione in Venturi, Gl’Inni Sacri e il Cinque Maggio di A. Manzoni dichiarati e illustrati (1889. pag. 47-48). Del resto la Bibbia ne ha delle peggiori, poichè in più luoghi paragona il Signore (sia detto con riverenza) a un ladro, e anzi la metafora pare fosse di gusto ebraico, poichè c’insiste spesso e volentieri. Citerò soltanto la Epist. B. Pauli ad Thessal. (I, cap. V. v. 2): Quia dies Domini, sicut fur in nocte, ita veniet, e lo stesso è detto nella Ep. II B. Petri (cap. III, v. 10), e l’Apocalisse (cap. III, v. 3): Veniam ad te tamquam fur (è Iddio che parla), e più oltre (cap. XVI, v. 15): Ecce venio sicut fur.
La frase:
1447. Ad majorem Dei gloriam.11
che nella tachigrafia cattolica si trova di frequente indicata con le sigle A. M. D. G., è diventata di uso comune dopo che la si lesse ripetuta a sazietà nei «Canones et decreta Oecumenici Concilii Tridentini» (1542 -1560) e che i Gesuiti la scelsero come divisa ponendola ad epigrafe del maggior numero delle loro pubblicazioni.
Esempio famoso di preghiera in musica è quella degli Ebrei nel Mosè, tragedia lirica musicata da G. Rossini, versi di Leone Andrea Tottola (a. II, sc. 7):
1448. Dal tuo stellato soglio.
Signor, ti volgi a noi;
Pietà de’ figli tuoi!
Del popol tuo pietà!
Non meno conosciuta della preghiera del Mosè è quest’altra:
1449. Casta Diva che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante
Senza nube e senza vel.
che è la sublime preghiera di Norma nel melodramma omonimi), composto da F. Romani e musicato dal divino Bellini (a. I, se. 4).
Abbiamo finora in questo paragrafo parlato di Dio e di religione con i credenti: vediamo un poco adesso quel che ne dicono i miscredenti. Essi cominciano col dubitare dell’esistenza di un ente supremo, dubbio che la Bibbia non ammette in persone di sano intelletto:
1450. Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus.12
e col sostenere che
1451. Primus in orbe Deos fecit timor.13
verso che si trova testualmente in Petronio (Fragm., 27, ed. Buecheler), da cui forse lo trasse Stazio, e che è stato audacemente imitato da Crébillon nel verso citato al n. 1349: La crainte fit les dieux; l’audace a fait les rois.
Si confrontino anche le parole di Orazio:
1452. Cælo tonantem credidimus Jovem
Regnare.14
Perciò altri applica alla religione in generale quel che era stato detto degli Dei gentili in particolare:
1453. Les Dieux s’en vont.15
Nell’ultimo libro (XXIV) dei Martiri di Chateaubriand, dopo che Eudoro e Cimodocea sono caduti nel Colosseo sotto i denti della tigre, «la foudre gronda sur le Vatican, colline alors déserte, mais souvent visitée par un esprit inconnu; l’amphithéâtre fut ébranlé jusque dans ses fondements; toutes les statues des idoles tombèrent, et l’on entendit, comme autrefois à Jérusalem, une voix qui disait: Les Dieux s’en vont.» Lo Chateaubriand qui certamente si riferisce al racconto di Giuseppe Flavio, dove parla dei segni che precedettero e preannunziarono la rovina di Gerusalemme (De bello Judaico, lib. VI, cap. 5, § XXXI). Fra gli altri portenti, egli narra che la notte di Pentecoste i sacerdoti entrando nel tempio, udirono rumore e movimento e quindi una voce che pareva gridare a una moltitudine radunata, Andiamocene di qui (Μεταβαίνωμεν ἐντεῦθεν).
In molte occasioni, ove avverrebbe citare la frase testè ricordata, vi si sostituisce la seguente:
1454. Il gran Pane è morto.
Questa frase, che si ripete a indicare la decadenza e la morte di cose e istituzioni già venerate e fiorenti, trova la sua fonte in un racconto di Plutarco nel trattatello De oraculorum defectu. Lo ripeto qui valendomi del volgarizzamento di Sebastiano Ciampi. «Epiterse, .... raccontava che una volta imbarcatosi per la Italia sopra una nave carica di ricche merci, e piena di una turba di passeggieri, sulla sera, trovandosi verso le isole Echinadi, il vento abbassò, e la nave andando qua e là con direzione incerta, venne ad avvicinarsi a Paxò. Delle genti di sulla nave molte eran deste, e molte, avendo cenato, continuavano a bere. All’improvviso fu sentita una voce uscita dall’isola di Paxò, che a gran tuono chiamava: Tamo; di che la maraviglia fu grande. Questo Tamo, egiziano di patria, era il piloto; ma non conosciuto per nome dalla maggior parte di que’ che erano sulla nave. Chiamato due volte, non rispose: finalmente alla terza, diè orecchio. Allora colui che chiamava, rinforzata la voce disse: Quando sarai giunto a Palode, dai la nuova che Pane grande è morto [il testo greco: ὅτι Πὰν ὁ μέγας τέθνηκε]. Raccontava Epiterse che tutti, udito questo, si spaventarono, e che, consigliandosi se fosse meglio eseguir l’ordine, o non se ne dare per inteso: Tamo decise di lasciar correre, qualora, rialzandosi vento, avesse potuto tirar via cheto cheto; ma se poi giunto al posto facesse calma e bonaccia, avrebbe in quel caso annunziato ciò che avea udito. Diceva che infatti, arrivati a Palode senza vento, e senza movimento d’acqua, Tamo di sulla poppa con la faccia rivolta verso terra annunziò, come avea udito, che Pane grande era morto. Non ebbe per anco finito di dire che fu inteso gran gemito misto a voci di sorpresa non d’un solo, ma di moltissimi: e come che vi si erano trovate presenti molte persone, velocemente se ne la notizia fino a Roma; e Tamo fu chiamato colà dall’imperatore Tiberio. Aggiungono che questi gli prestò fede a segno d’aver fatto premurose ricerche e dimande intorno a quel Pane grande. Gli eruditi, che in gran numero tenevasi attorno Tiberio, non seppero congetturare altro, se non che quel Pane grande essere il Pane nato da Mercurio e da Penelope. A Filippo [che è il narratore del dialogo di Plutarco] fu confermato il racconto anche da qualcuno degli astanti, che erano stati discepoli di Emiliano.» Non passerò sotto silenzio che per alcuni filologi tutto questo racconto è un’interpolazione dì qualche monaco o altro zelante, per farne poi l’applicazione alla morie di Gesù Cristo. Uno studio critico sull’episodio plutarchiano, contenente un interessante tentativo di interpretazione esoterica del mito, è stato pubblicato dal prof. Luigi Garello, nel volume: La morte di Pàn (Torino, Bocca, 1908).
Il medio evo fece del medico arabo di Cordova Ibn-Roscd, comunemente Averroè (fiorito nel sec. xii), il gran patriarca dell’ateismo. Cominciò con attribuirgli un libro famoso, il trattato de tribus impostoribus, che forse non è mai esistito, e fu imbastito sul blasfema famoso del mondo ingannato da tre furbi - Mosè, Gesù e Maometto - che fu nel medioevo attribuito a Federico II su esplicita accusa di Gregorio VII ma che quegli negò di aver mai detto (cfr. Huillard-Bréholles, Hist, diplom. Frid. II, V, 339) e anche ad altri, ma che forse è realmente di origine islamica, come dimostra L. Massignon nella Revue de l’histoire des réligions, to. LXXXII. 1920. pag. 74-78: ciò che spiega come lo si attribuisse ad Averroè. E la leggenda continuò mettendo a suo carico molte frasi che divennero il vangelo dell’incredulità. Tale è quella con la quale egli si sarebbe augurato di morire della morte dei filosofi, intendendo di dire senza pratiche religiose:
1455. Moriatur anima mea morte philosophorum.16
1456. Religio christianorum, religio impossibilium; religio judæorum, religio puerorum; religio Mahometanorum, religio porcorum.17
dicendo religione impossibile la cristiana a cagione del dominma della Eucarestia, a proposito di che si narrava pure che ille maledictus Averröes, come solevano sempre chiamarlo i filosofi scolastici, entrato un giorno in una chiesa cristiana, e veduti i fedeli che su comunicavano, esclamasse «Evvi al mondo una setta più insensata dei cristiani, i quali mangiano il Dio che adorano?» Ma questa è forse una reminiscenza di Cicerone: «Ecquem tam amentem esse putas, qui illud quo vescatur Deum credat esse?» (De natura Deorum, lib. iii, cap. XVI). Si consulti sull’argomento dell’incredulità di Averroè la bella opera di Renan, Averroès et l’averroisme (2me édit., Paris, 1861).
Molto vicini agli increduli sono gl’indifferenti, che hanno per linea di condotta la sentenza:
1457. Quod supra nos nihil ad nos.18
la quale, secondo narrano M. Minucio Felice (Octavius, XIII, 1), Lattanzio (Institutiones, III, 20, 10) ed altri classici autori, era la consueta risposta di Socrate ogni qualvolta lo interrogavano sulle cose del cielo (eius viri quoties de cœlestibus rogabatur, nota responsio est, Minucio Felice, loc. cit.). Ma Tertulliano ed altri l’attribuiscono invece ad Epicuro. Dello stesso genere è la seguente:
1458. Nous nous saluons bien, mais nous ne nous parlons guère.19
La si attribuisce tanto a Moncrif quanto a Bautru, l’uno dei quali avrebbe data questa famosa risposta a chi si meravigliava di vederlo a levarsi il cappello davanti a una croce. Qualcuno ne fa onore anche a Voltaire, il quale l’avrebbe detta a Piron (Pironiana, Avignon, 1813, pag. 99), mais on prête aux riches. In- vece è di P. J. Proudhon l’altra frase blasfematoria:
1459. Dieu, c’est le mal.20
che nel Système des contradictions economiques ou Philosophie dt la misère, si trova nel cap. VIII: « Dieu, c’est sottise et lâcheté; Dieu, c’est hypocrisie et mensonge; Dieu, c’est tyrannie et misère; Dieu, c’est le mal.» Proudhon non era da meno di Voltaire, autore del famoso:
1460. Ecrasez l’infâme.21
che egli soleva mettere in fine a molte delle sue lettere ad amici che la pensavano come lui in fatto di religione. Più spesso così firmava la corrispondenza con D’Alembert e Damilaville, ma si trovano anche lettere di lui a Federigo il Grande, a Helvetius, a Diderot, a Marmontel e ad altri, fra il 1756 e il 1768. firmate, invece che col suo nome, o col motto citato o con le sigle Écrlinf. Giova supporre che Voltaire per infâme intendesse la superstizione, o anche la religione, poichè da diversi passi di queste lettere si rileva che l’ aggettivo infâme, nella mente del Voltaire, si riferiva a un sostantivo femminile. Egli certamente pensava della religione quel che pensava Lucrezio, il quale a proposito del sacrifizio d’Ifigenia esclamò:
1461. Tantum religio potuit suadere malorum.22
Ma l’irreligione e l’empietà dovrebbero avere il loro castigo se è vero che:
1462. Qui in altum mittit lapidem, super caput ejus cadet23
e che:
1463. Si stanca il cielo
D’assister chi l’insulta.
e disperde i nemici suoi, come le tempeste dell’agosto e settembre 1588 dispersero le navi della Invincible Armada apparecchiata da Filippo II ai danni dell’Inghilterra. Fu allora coniata una medaglia che rappresentava le navi in balia delle onde e la leggenda:
Flavit Jehovah et dissipati sunt.
Schiller, citando questo motto in una nota alla sua poesia Die unüberwindliche Flotte, lo riporta erroneamente sotto l’altra forma, rimasta più conosciuta:
1464. Afflavit Deus et dissipati sunt.24
Anche sono note le parole:
1465. Vicisti Galilæe!25
che secondo la tradizione sarebbero le ultime parole dell’Imperatore Giuliano l’Apostata il quale morì di ferita il 26 giugno 363 in una imprudente spedizione contro i Persiani; e alcuni storici ecclesiastici narrarono ch’egli, sentendosi vicino a morte, gettasse contro il cielo in atto di spregio un poco del suo sangue, gridando: Vicisti Galilæe!, e non occorre dire che il Galileo era Gesù, il quale nella Galilea (una delle tre provincie in cui era divisa a’ suoi tempi la Palestina) nacque e visse gran parte della sua vita. Si capisce facilmente che si tratta di una fola inventata contro Giuliano dai Cristiani che ciecamente lo odiavano: invece egli volle morire come un eroe e come un filosofo, anzi, preoccupato forse d’ imitare la fine di Socrate, radunò gli amici e i soldati intorno alla sua tenda e tenne loro un’elaborata concione metafisica, di cui Ammiano Marcellino (XXV, 3) che fu testimone della scena, ci avrebbe conservato il testo, che però è troppo bello per essere genuino, seppure non si tratti, come il Gibbon suppone, di un’orazione preparata avanti dal furbo imperatore. Anche Libanio Sofista (Orat. Parental., c. 136-140) il quale scende ai particolari, ed accusa apertamente i Cristiani di aver profittato del tumulto della mischia per ferire proditoriamente l’imperatore, nulla dice di questa novelletta; e neppure S. Gregorio Nazianzeno che nessuno crederà troppo benevolo a Giuliano. Ho voluto ricercare le fonti della leggenda; e ho trovato che il B. Teodoreto, vescovo di Ciro, nella Historia ecclesiastica (lib. III. cap. 20) narra: «Ferunt porro ilium vulnere accepto implesse manum sanguinis, et hoc in aërem proiecto, dixisse, Vicisti Galilæe [il testo greco: Νενίκηκας Γαλιλαῖε], simulque et victoriam confessum esse, et blasphemiam, adeo vecors erat, evomuisse.» Gli atti del martirio di S. Teodorito o Teodoro, prete d’Antiochia, scritti da un anonimo cristiano, e pubblicati por la prima volta dal Mabillon, ristampati altre volte e ultimamente negli Acta Sanctorum di ottobre, to. X, pag. 40 e segg., raccontano il medesimo fatto: «Veniens autem subito quasi sagitta terribilis de aëre percussit eum in mamillam, quumque sanguis ex omni parte flueret, aspiciens sursum, putavit, se Dominum Jesum videre, implensque manum suam de sanguine jactavit in aëre dicens: Usque in finem. Galilæe. persequeris me et ecce superasti me: sed ego edam te hac hora negabo, licet positus in articulo mortis.» Non occorre dire che questo testo, benché l’anonimo autore dica di aver vissuto alla corte di Giuliano in Antiochia, e di averlo accompagnato nell’ultima sua spedizione, è sprovvisto di ogni autorità. Anche il Sozomeno nella Storia Ecclesiastica ripete il medesimo racconto, però egli pure osserva che poche persone vi prestavano fede.
Tutto sommato, si può concludere cha l’ateismo va messo in un canto, se si ha da credere a un giudice non sospetto, lo stesso Voltaire, il quale affermava che:
1466. Si Dieu n’existait pas, il faudrait l’inventer.26
des Trois Imposteurs, 1771, v. 22).
Il giudizio di Voltaire (che forse s’ispirò a una frase di John Tillotson, Sermon, 93: «If God were not a necessary Being of himself, he might almost seem to be made for the use and benefit of men») fu accettato dagli uomini della prima Rivoluzione, dai fondatori del culto dell’Ente Supremo, poichè anche Robespierre nei suoi Discours politiques scrisse: «L’athéisme est aristocratique. L’idée d’un grand Ètre, qui veille sur l’innocence opprimée et qui punit le crime triomphant, est toute populaire. Si Dieu n’existait pas, il faudrait l’inventer.» Ma non ebbe uguale fortuna presso gl’insorti comunardi del 1870, uno dei quali lo parodiò nel blasfema notissimo:
Si Dieu existait, il faudrait le fusiller.
Chiudiamo perciò questo lungo paragrafo con una devota antifona:
1467. Laudate pueri Dominum: laudate nomen Domini.27
ed anche quest’altra invocazione biblica non sarà di troppo:
1468. Levemus corda nostra cum manibus ad Dominum in cœlos.28
tanto più che in essa si vuol vedere la fonte del:
1469. Sursum corda!29
che sta nella liturgia della Messa al Præfatio. L’officiante dopo aver detto Dominus vobiscum cui il chierico risponde Et cum spiritu tuo, prosegue Sursum corda, e il chierico: Habemus ad Dominum.
Note
- ↑ 1426. Cominciamo da Giove, o Muse; tutto è pieno di Giove.
- ↑ 1427. Un’intelligenza muove tutta quella massa.
- ↑ 1429. I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annunzia le opere delle mani di lui.
- ↑ 1430. Iddio è grandissimo nelle piccolissime cose.
- ↑ 1431. Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini.
- ↑ 1433. Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?
- ↑ 1434. Dio protegga la Francia.
- ↑ 1440. Nulla c’è che Dio non possa fare.
- ↑ 1441. Imperocchè nulla sarà impossibile a Dio.
- ↑ 1445. Lo credo perchè è assurdo.
- ↑ 1447. A maggior gloria di Dio.
- ↑ 1450. Disse l’insensato in cuor suo: Iddio non è.
- ↑ 1451. Fu la paura che prima nel mondo diè vita agli dèi.
- ↑ 1452. Abbiamo creduto al regno di Giove quando lo sentimmo tonante in cielo.
- ↑ 1453. Gli Dei se ne vanno
- ↑ 1455. Muoia l’anima mia della morte dei filosofi.
- ↑ 1456. La religione cristiana è la religione delle cose impossibili; la giudaica, è religione da fanciulli; la maomettana, da porci.
- ↑ 1457. Quel che è sopra di noi, nulla ha che fare con noi.
- ↑ 1458. Ci salutiamo ma non ci parliamo affatto.
- ↑ 1459. Dio è il male.
- ↑ 1460. Schiacciate l’infame.
- ↑ 1461. Tanti mali potè consigliare la religione!
- ↑ 1462. Se uno getta in alto una pietra, essa cadrà sul capo di lui.
- ↑ 1464. Soffiò Iddio, e si dispersero.
- ↑ 1465. Hai visto, o Galileo.
- ↑ 1466. Se Dio non esisteste, bisognerebbe inventarlo.
- ↑ 1467. Fanciulli lodate il Signore, lodate il nome del Signore.
- ↑ 1468. Alziamo al cielo insiem colle mani i cuori nostri al Signore.
- ↑ 1469. In alto i cuori.