Breve storia dei rumeni/Capitolo settimo

Capitolo settimo

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Capitolo sesto

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CAPITOLO SETTIMO.

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Il risorgimento rumeno.


i. Nel 1821 scoppiava nei principati, sotto l’influenza dei moti revoluzionarì prodottisi nel Piemonte e nel regno di Napoli, e non senza connivenza per parte della Russia, che voleva crear nuove difficoltà al suo nemico secolare, la rivoluzione greca. Il figlio di Costantino Ipsilanti, Alessandro, generale dello Zar, passava il Prut, occupava Iassy e spingeva i suoi improvisati guerrieri fino a Târgovişte, l’antica sede dei principi della Valacchia. A Drăgăşani vicino all’Olt e a Sculeni sulla frontiera russa dovevano cader poco, dopo immolati il piccolo numero dei degni difensori della causa ellenica. Ma le speranze che i Rumeni avrebbero aiutato la rivoluzione si dimostrarono vane. Essi stessi avevano già trovato un’altro ideale.

Nel 1698 Atanasio, vescovo dei Rumeni ortodossi di Transilvania, che s’intitolava Metropolita ed aveva relazioni gerarchiche colla Chiesa valacca, accettava, consigliato dai Gesuiti che proteggeva il Governo imperiale, per rialzar la sua propria situazione e quella del suo clero, l’Unione colla Chiesa romana. Non potè conseguir il suo intento, la resistenza dei nobili [p. 150 modifica] ungheresi essendo decisiva. Un suo successore che proseguì fino all’ultimo la lotta pei diritti politici della sua nazione che i Magiari trattavano da paria, Giovanni-Innocenzio Micu-Klein dovette rifugiarsi a Roma, dove si vede ’l suo sepolcro nella chiesa della Madonna del Pascolo. Ma colui che mutò la sua sede vescovile a Făgăraş (Alba-Iulia, la residenza ordinaria dei vescovi rumeni, era diventata la fortezza di Karlsburg), Pietro Paolo Aaron, fù il fondatore delle scuole superiori di Blaj che gli era stata conceduta per sua abitazione, in un tempo in cui le Accademie dei principati impartivano l’insegnamento greco. Mentre le sofferenze dei contadini dovevano condur in breve alla terribile rivoluzione di Horea, che finì condannato al supplizio della ruota (1785), le scuole di Aaron davano alunni i quali, come cattolici, proseguirono i loro studi dai Gesuiti di Tirnavia, negl’istituti di Vienna ed in Roma stessa, dove questi figli di contadini, appartenenti a un popolo povero, ignorante e sprezzato, ebbero un fiero sussulto nel vedersi appartener pei loro più antichi antenati al popolo che aveva soggiogato l’«orbis» intiero per incivilirlo e che aveva lasciato scolpite in marmo eterno le sue tracce in questa città di gloriosi ricordi. Invece di tornar teologhi eruditi e disciplinati, apparvero come spiriti liberi, coltivatori avanti tutto delle memorie nazionali, fanatici difensori della latinità e romanità nei loro scritti di filologia e di storia, in cui adoperarono, facendosene un dovere d’onore, i «caratteri antichi», cioè le lettere latine, scacciando l’alfabeto cirillico dei Slavi, le parole [p. 151 modifica] barbare, influenze dei popoli inferiori che fin’ora avevano rispettato. Questa fù la storia di Giorgio Şincai, allievo del Collegio di Propaganda, protetto del cardinale Stefano Borgia, ed autore della nuova «Cronaca» dei Rumeni e di Pietro Maior, che seguì gli stessi corsi dai chierici romani per esser poi tra i suoi un nemico dichiarato della corrente ultramontana e che, nella sua «Storia del principio dei Rumeni nella Dacia», dava un Vangelo ai credenti della nuova fede. Il terzo capo di questo movimento, Samuele Micu-Klein, aveva fatto i suoi studi a Vienna.

2. Un seguace di queste teorie, Giorgio Lazăr, fondava a Bucarest, già dal 1818, una scuola d’ingegneri, dove accorrevano anche allievi superiori in età a quella dello straordinario maestro, il quale con eloquenza da profeta parlava dei «discendenti del gran Cesare, del glorioso Aureliano, dell’eccelso Traiamo» che «giacciono adesso nelle più abiette capanne, sotto il giogo dell’ignoranza, ignudi, tristi e simili alle bestie» e del dovere di elevarsi fino al livello di quei nobilissimi avi.

3. In Tudor Vladimirescu (oriundo dal villaggio di Vlădimiri), figlio di poveri contadini, già capitano di ausiliari rumeni in servizio dei Russi, poi impiegato nell’amministrazione fanariota, Lazăr trovò un propugnatore delle sue idee che non l’aveva nè ascoltato, nè letto. Coi suoi «panduri», esercito rustico, ch’egli seppe disciplinar, percorse l’intiero paese per [p. 152 modifica] annunziar la libertà e la giustizia ai poveri di questa terra, ai suoi fratelli rumeni che tutti sprezzavano, ingiuriavano, spogliavano e percuotevano. Entrò in Bucarest come un principe, ed i boiari, per la più parte semi-grecizzati, dovettero considerarlo come tale, non senza aspettar l’ora della vendetta. I Turchi stavano per entrar nel principato, quando Ipsilanti, che aveva guadagnato da parte sua un capitano albanese di Tudor, lo fece catturare ed ammazzare miseramente una notte nelle vicinanze di Târgoviște. Gittato il suo cadavere in un pozzo, non fù mai più ritrovato.

4. Già i boiari valacchi, ma specialmente quelli moldavi, ridimandavano gli antichi diritti nazionali del paese; un partito sperava poter avere una Repubblica aristocratica. La Porta sciolse il problemma nominando rumeni principi: Giovanni Sturza in Moldavia, un vecchio patriarcale, e Gregorio Ghica in Valacchia. Regnarono fino alla nuova invasione russa del 1828, continuata da una occupazione di due anni, proseguita anche dopo la pace di Andrinopoli che rendeva ai principati la sponda danubiana occupata da tre secoli dai Turchi ed assicurava ai principi un regno a vita. Il governo russo, col generale Kisselev, un volterriano filantropo, eccellente amministratore, durò fino che due commissioni di boiari ebbero elaborato la nuova costituzione del Regolamento Organico, la quale creava «Adunanze generali» per controllar le finanze e l’amministrazione e sostituiva [p. 153 modifica] all’aristocrazia di nascita l’oligarchia gerarchizzata dei funzionari secondo il sistema russo, senza dare una soluzione definitiva alla questione urgente dei contadini. Tra le speranze della nazione intiera cominciarono il loro regno l’energico Michele Sturza, spirito organizzatore, ed il romantico Alessandro Ghica, sostituito poi nel 1843 da Giorgio Bibesco, allievo delle scuole di Parigi, che attraevano in quel tempo la gioventù rumena.

5. Fino al 1848, l’anno della rivoluzione generale, e della Repubblica militante, sotto questi principi i quali capivano l’importanza del movimento culturale, fu creata, pegli sforzi di una generazione entusiastica, un’intiera letteratura moderna rumena. Il successore di Bazar, che abbandonò ammalato il paese, benedicendolo, per morir nel suo villagio transilvano, Giovanni Eliad, che aggiunse poi al suo nome ellenico, dovuto al capriccio di un maestro di scuola, quello, nazionale, di Rădulescu, condusse in Valacchia l’opera delle traduzioni specialmente dai Francesi, classici e romantici — , il teatro, fondato dalla «Società Filarmonica», dei giovani boiari, e diede il primo giornale, la prima rivista pubblicata a Bucarest («Curierul românesc»; «Curierul de ambe-sexe»). Tradusse anche Dante 1 e la «Gerusaleme liberata», che imitò in un poema dedicato alla cariera eroica di Michele-il-Bravo. Autore di una celebre grammatica, in cui dava norme per l’introduzione dei neologismi, raccomandando le [p. 154 modifica]parole latine ed italiane, arrivò più tardi, per spirito di reazione contro la scuola franceseggiante che viziava la lingua letteraria, a sostituir al rumeno, che aveva fatto scrivere con lettere latine, un curioso dialetto italiano di sua fabbricazione e una bizzarra ortografia.

6. Già avevano compiuto gli studi a Pisa il prete Efrosino Poteca ed il giurista Giovanni Moroiu. Anche Simeone Marcovici, tra i giovani profesori del Collegio di S. Sabba a Bucarest, ed il Greco Aristia, che faceva parte anche lui del corpo insegnante valacco, tradussero tragedie di Alfieri, lo stile nobile del quale piacque, come anche la «Francesca» di Ulisse Bucchi.

7. Ma il più importante discepolo degl Italiani fù Giorgio Asachi, creatore della letteratura periodica e primo promotore delle scuole superiori in Moldavia. Figlio di un prete, aveva studiato a Vienna, poi a Roma, dove fù membro di un’Accademia di poeti e stampò nel giornale «il Campidoglio» versi scritti dopo qualcheduna di quelle «caccie amorose» ch’egli notava in un bozzetto di studente; conservò sempre relazioni di più purissima amicizia con una donna italiana di alto merito, Bianca Milesi. Scrisse sonetti e odi in cui si distingue, invece della fraseologia romantica francese, la frase poetica pura, classica, dei suoi maestri. «In questo giardino dell’Universo», scriveva lui, cantando l’Italia, «dove dolce suona la favella — , [p. 155 modifica] un Rumeno della Dacia viene a trovar gli avi, per bacciarne — le ceneri nei sepolcri ed imparar le loro virtù».

8. Ma la corrente francese vinse. Asachi non trovò più ammiratori. Michele Kogălniceanu, che tornava da Berlino, dopo esser stato educato nelle migliori tradizioni della scuola storica e politica tedesca del tempo di Ranke, prese la direzione della letteratura militante che doveva dar ai Rumeni una patria libera e l’unità nazionale. Pubblicò le cronache moldave, che erano il migliore testo di lingua e diedero a Bolintineanu, «Aromân» di nascita, il tema delle sue ballate storiche. Per le riviste sue e pella sua eloquenza affascinante seppe dar in pochi anni alla coscienza nazionale la forza necessaria per combattere contro gli errori del passato e stabilir una nuova èra per il pensiero e le istituzioni politiche e sociali. Niccolò Bălcescu scriveva la storia di Michele-il-Bravo per dar un’esempio ai contemporanei; esule dopo la rivoluzione, si spense giovane, di tisi, a Palermo, e il suo corpo fù gittato nel cimitero dei poveri. Giovanni Ghica predicava l’amore pelle scienze naturali ed esatte, nell’«Academia» con carattere universitario che il principe moldavo aveva eretta. Tra i poeti, Cîrlova aveva pianto sulle rovine di Tîrgovişte e il gran favolista Gregorio Alexandrescu trovò accenti virili per rammentar l’epoca di Mircea in presenza del suo sepolcro di Cozia. Scherzi francesi, satire sociali sul passato, novelle romantiche una «Fioraia (buchetiera) di Firenze» [p. 156 modifica] con soggetto trovato in un viaggio fatto in Italia coll’inseparabile amico G. Negri — , poesie nel metro delle «doine» da lui raccolte e da un altro suo amico Alessandro Rusu, «Orientali» nello stile di Victor Hugo, — tutti i generi riuscivano al vivace e allegro ingegno di Vasile Alecsandri (nato 1821). Presso alla sua promessa sposa Elena Negri, che morì a Costantinopoli, dopo una lunga agonia in mezzo alla ridente natura italiana, Alecsandri scrisse barcarole veneziane e canzoni siciliani che traevano più il soggetto che la vera ispirazione da quei luoghi per lui indimenticabili.

9. Nei principati i movimenti rivoluzionari del 1848 furono più che altro la dimostrazione che un popolo intiero voleva essero libero: Il vero scopo era di scappar alla tutela russa che preparava l’annessione, riconoscendo la suzeranità osmana che non rappresentava più un nemico minacciante colla conquista. A Iassy Kogălniceanu e gli altri capi del giovane partito nazionale domandarono al principe la puntuale osservanza del Regolamento Organico; dopo qualche scenata di gusto francese, lo stesso principe, il quale pareva voler riconoscer la giustizia di queste rivendicazioni, faceva tradur in arresto, maltrattar e rinchiuder nei monasteri i capi del movimento ed esigliare questi malcontenti, tra cui si trovavano il gran poeta Alecsandri e quel Cuza che doveva esser poi il primo regnante della Rumenia unita. In Transilvania, dove i radicali magiari domandavano alla dieta la soppressione dei privilegi e degli altri resti [p. 157 modifica] del medio evo, ma prima d’ogni altra cosa la riunione del paese all’Ungheria libera, i Rumeni coi due vescovi, l’unito Lemény e quel vescovo disunito che gli ortodossi, dopo lunghe lotte, avevano ottenuto, Andrea Şaguna, di nascita «Aromîn», una personalità di straordinari talenti, dichiararono sul «Campo della libertà» presso a Blaj considerarsi essi la quarta nazione libera della loro terra avita e voler conservar la loro fedeltà verso l’Imperatore che i Magiari dovevano fra poco deporre per proclamar la Repubblica ungherese. Professori conducevano il movimento, che stava per diventar in qualche mese una terribile rivoluzione contro l’oppressione secolare magiara, comandata dall’avvocato Avram Iancu, il «rè dei Monti». A Bucarest il principe Bibescu, ben intenzionato, ma debole, si sottrasse alle difficoltà abdicando ed abbandonando un paese ch’egli non si sentiva più in stato di governare. Già erasi proclamato nel villaggio di Islaz vicino al Danubio il nuovo regime: la Costituzione elaborata da Eliad fù letta inanzi al popolo e benedetta dai preti assistenti. Poi, con un piccolo esercito radunato da Eliad, diventato ora tribuno, si marciò su Bucarest, dove gli studenti tornati da Parigi avevano messo su i mercanti ed altri elementi del popolo. Un vero movimento popolare era impossibile in un paese in cui i contadini sempre negletti erano affatto stranieri ad ogni idea politica e dove i cittadini più ricchi, ignoranti anch’essi, erano in gran parte forestieri. Venne stabilito un Governo provisorio, ma [p. 158 modifica] non potè nemeno cominciar l’opera di riforme promessa al paese. I proprietari si dimostrarono ribelli ad ogni tentativo di conceder al contadino il possesso, contro danaro contante, di un pezzo di quella terra che lavoravano ed avevano sempre lavorata. La propaganda in campagna non trovò nissun eco e provocò torbidi che il pacifico Eliad ed altri membri del Governo non potevano approvare. La voce corsa che i Russi, chiamati da Sturza, si avvicinassero alla frontiera fece fugir vergognosamente tutti questi revoluzionari.

I Russi non venivano ancora, ma la diplomazia dello Zaro domandò ed ottenne un’intervento turco. Il Governo provisorio dovette ritirarsi per confidar l’autorità a una reggenza, in cui si trovava Eliad, il generale Tell ed un’altro generale, della stessa origine, Nicolò Golescu. I Turchi entrarono in Bucarest ed ebbero, accidentalmente, un sanguinoso conflitto coi pompieri rumeni che gli erano andati incontro per ricevergli. Il ricco boiaro Costantino Cantacuzino fu nominato Caimacamo, ed in breve il nuovo principe, fratello del Bibescu, ma che portava il nome del padre adottivo, Barbu Ştirbeiu, cominciò a regnare. La convenzione russo-turca di Balta-Liman stabilì l’occupazione dei principati con truppe della Potenza suzerana e di quella protettrice e fissò a soli sette anni la durata dei regni; le «Adunanze generali» furono sostituite da «Divani (Consigli) adhoc» con attribuzioni inferiori. In Moldavia Gregorio Ghica, natura nobile e pronta a far ogni sacrifizio per assicurar l’avvenire [p. 159 modifica] della sua nazione, prese il posto che Sturza aveva dovuto finalmente abbandonare.

I rivoluzionari moldavi tornarono e furono i conseglieri di un principe che rappresentava le loro idee. Ma gli autori della Repubblica di Bucarest non furono ammessi nel principato che Ştirbeiu amministrava con intelligenza ed attività. Stavano a Parigi e si servivano di libri, giornali e relazioni personali per far conoscere e simpatizzare in Occidente la causa della libertà rumena, di quella Rumenia unita, ultimo loro ideale. Giovanni Brătianu, Costantino Rosetti — di famiglia levantina — , e Ghica si preparavano così al gran ruolo che dovevano giuocar poi in quel Stato che la loro generazione aveva potuto formare.

10. La guerra di Crimea fù il segnale della liberazione rumena. Il Piemonte di Cavour, che prese la sua parte alla guerra contro la cinica prepotenza russa nell’Oriente cristiano, lavorava a crear l’«Italia una» e contribuiva così, coll’aiuto dello stesso Imperatore Napoleone III, a dare ai Rumeni i loro diritti nazionali, almeno in quanto le circostanze lo permettevano. Le speranze degli Austriaci che, dopo la ritirata dei Russi, avevano occupato i principati e vi avevano mandato generali italiani come Coronini, cercando di guadagnar così i cuori della popolazione per una futura annessione, si dimostrarono vane.

11. Il trattato di Parigi (1856) rese alla Moldavia i tre [p. 160 modifica] distretti della Bassarabia sudica, mise fine al protettorato russo ed aprì al commercio europeo il Mar Nero e le bocche del Danubio, che lo Zar aveva finora considerate come suo proprio dominio. La sorte dei principati dovevano fissarla i Rumeni stessi col loro libero voto. Sotto caimacami dovevano farsi le elezioni pei nuovi Divani ad-hoc, la cui missione era di far conoscere alle Potenze, protettrici dei Rumeni danubiani, i desideri di una nazione intiera.

Si voleva prima di tutto l’Unione, e la Moldavia, più piccola e povera, doveva sacrificarsi. Il caimacam (luogotenente del principe) moldavo, Nicolò Vogoridi, Bulgaro di origine, d’una famiglia che sì era spacciata per greca, e che nondimeno, come marito della figlia del poeta Conachi, sognava il principato rumeno, impiegò tutti i mezzi della più barbara violenza per aver un «Divano» anti-unionista. I protesti del partito nazionale convinsero l’Imperatore Napoleone che quelle elezioni dovevano esser annullate. L’Inghilterra, che per simpatia verso i Turchi respingeva l’idea dell’Unione, come la rispingeva l’Austria, la quale temeva l’influenza di questo evento sullo spirito dei Rumeni sottomessi alla Corona ungherese e degli abitanti rumeni della Bucovina, fù guadagnata dall’ intervento personale del dettatore francese. L’Unione incompleta «nei rapporti militari, financiari e giudiziari» ammessa in principio, si procedette a nuova consultazione dei Moldavi. Un Divan assolutamente, entusiasticamente unionista ne fù il risultato. A 19 d’ [p. 161 modifica] ottobre 1857, quest’ assemblea, dominata dal genio oratorio di Kogălniceanu, votò l’Unione.

In base di questi desideri la Convenzione di Parigi decise ’l 19 d’agosto 1858 che la Moldavia e la Valacchia formerebbero i Principati Uniti, ma con due principi, due rappresentanze nazionali, due ministeri, senz’ altro legame che la nuova organisazione unitaria dell’amministrazione, i nuovi codici, ecc.; una corte di cassazione comune e una commissione permanente di 18 membri, che doveva preparar a Focşani, città sulla fonderà moldo-valacca, le nuove condizioni pubbliche del popolo rumeno, erano prevedute in questo Statuto costituzionale dato dall’Europa protettrice. I due eserciti potevano riunirsi in certi casi, e gli stendardi, conservando i colori usati, avrebbero portato un segno dell’Unione.

12. Il partito nazionale era risoluto di render vane queste restrizioni eleggendo un solo principe per la Moldavia e per la Valacchia. Questo principe non doveva esser nè Michele Sturza, nè suo figlio Gregorio, nè Bibescu, nè Ştirbeiu, ma un’uomo nuovo. Anche Alecsandri e il suo amico Negri erano tra i candidati. Ma vinse il colonello Alessandro Cuza, capo della milizia moldava. Fù eletto a Iassy il 17 gennaio 1859 e poi, pochi giorni dopo, ai 5 di febbraio, anche nell’Adunanza valacca, in cui i partiti non avevano potuto intendersi per far riuscir un’altro candidato. [p. 162 modifica]Alessandro Giovanni Cuza (Giovanni era il nome di suo padre), Alexandru Ioan I accettò la nuova situazione, che le Potenze dovettero riconoscere.

13. Nel suo discorso dopo la prima elezione, Kogălniceanu abbozzava già il programma del nuovo regno. «Dopo cento cinquantaquattro anni di sofferenze, di umiliazioni e di degradazione nazionale, la Moldavia è rientrata nel suo antico diritto, consacrato dalle capitolazioni, il diritto di elegger il suo capo, il principe. Colla tua elevazione sul trono di Stefano-il-Grande, la nazionalità rumena stessa si è rilevata. Scegliendoti per suo capo, la nostra nazione hà voluto adempire un’antico dovere verso la tua famiglia, hà voluto pagar il sangue dei tuoi antenati, sparso pelle pubbliche libertà2. Eleggendoti principe della nostra patria, abbiamo voluto mostrar al mondo ciò che il paese intiero desidera: a nuove istituzioni, un uomo nuovo! O Signore, grande e bella è la tua missione. La Costituzione del 7 (19) agosto (1858) ci segna un’era nuova, e Tua Altezza è chiamata ad aprirla. Sii dunque l’uomo della tua epoca: fà così che la legge sostituisca l’arbitrario, che sia il potere decisivo. E tu, Signore, sii principe buono, mite, amoroso sopratutto per coloro pei quali quasi tutti i principi passati [p. 163 modifica] furono o indifferenti o malvagi. Non dimenticare che, se cinquanta deputati ti hanno eletto principe, tu regnerai su due milioni di sudditi. Fa dunque che il tuo regno sia tutto di pace e di giustizia; sopisci tra noi le passioni e gli odi e ristituisci in mezzo a noi

Alessandro Cuza, primo principe della Rumenia.


l’antica fraternità. Sii semplice di costumi, Altezza, sii buono, sii principe e cittadino. Porgi sempre l’orecchio a la voce della verità e ch’esso rispinga la menzogna e l’adulazione. Porti un nome bello e caro; quello di Alessandro-il-Buono. Possa tu dunque vivere molti [p. 164 modifica] anni come lui, e fà, Signore, che, pella giustizia dell’Europa, pello sviluppo delle nostre istituzioni, pei tuoi sentimenti patriottici, possiamo riaggiunger quei gloriosi tempi della nostra nazione in cui Alessandro-il-Buono diceva agli ambasciatori dell’Imperatore di Bizanzo che: La Rumenia non hà altro protettore che Dio e la sua spada. Altezza evviva!»

Fù buono e mite e rimase sempre «semplice di costumi», senza fasto, senza superbia, senza quel formalismo che i Rumeni non hanno mai amato e che non gli hà imposto mai; viveva nel suo palazzo come un semplice cittadino. Ma compiva la sua missione da principe, arrischiando il trono, senza rammarico e senza ostentazione, per realizzar il programma che le Adunanze nazionali gli avevano imposto. Riprese nel 1863 ai monaci greci i poderi dei conventi dedicati ai Luoghi Santi da principi e boiari, nel corso di tre secoli, terreni che formavano la quinta parte di tutto il paese. Sciogliendo la Camera composta da reazionari o agitatori incapaci di comprendere che il nuovo Stato non poteva reggersi che sulla libertà, la prosperità e ’l patriotismo dei 4.000.000 di contadini, fù egli a decretar la «legge rurale» del 15/27 agosto 1864, che dava loro l’intiera proprietà dei loro campi che onestamente pagarono ai detentori. Già sul principio del 1862, dopo un viaggio a Costantinopoli, dove la sua simpatica persona guadagnò amici alla Rumenia e la sua virile rizzolutezza intimidò i nemici, potè [p. 165 modifica] annunziar la realisazione completa dell’Unione, almeno pel tempo della sua vita, con una sola Adunanza ed un solo ministero: i Principati-Uniti non esistevano più; cominciato aveva la Rumenia con

Michele Kogălniceanu


questo 24 gennaio v. st. 1862. Nella sua proclamazione parlava in questi termini dell’atto già compiuto:

«Rumeni, l’Unione è già fatta. La nazione rumena è fondata. Quest’atto grandioso, che le passate [p. 166 modifica] generazioni avevano desiderato, acclamato dall’Assemblea legislativa, invocato calorosamente da noi, fu riconosciuto dalla Sublime Porta, dalle Potenze garanti e stà ora scritto nei diritti delle genti.

«Il Dio dei nostri padri fù col paese, fu con noi. Egli rinvigorì i nostri sforzi, con la prudenza del popolo, e condusse la nazione verso un glorioso avvenire.

«Nelle giornate del 5 e 24 gennaio avete messo la vostra intiera fiducia nell’Eletto della nazione, avete riunito le vostre speranze in un solo principe. Il vostro Eletto vi dà oggi la Rumenia una.

Amate dunque la vostra Patrià e sapiate consolidarla!

Evviva la Rumenia!»

14. Ma i partiti, d’interessi e vanità personali, erano contrari a questo benefico e nobile «tiranno», il quale, secondo l’esempio dato dal creatore dell’unità italiana, aveva sostituito il suo Statuto alla Costituzione che l’Europa nel 1858 aveva imposta ai principati rumeni. Torbidi furono suscitati a Bucarest, in assenza del principe ammalato, il quale tornò dall’estero per subito perdonare, dando «completa amnistia pei delitti politici». Un’intervento diplomatico da parte del Visiro, inopportuno e brutale, venne sdegnosamente rispinto. Benché avesse adottato i suoi figli naturali, la principessa Elena (1909 dopo le feste del cinquantenario dell’Unione) non avendogli dato prole, Cuza dichiarò [p. 167 modifica] fin dalla convocazione delle Camere l’intenzione di abdicare, se l’interesse del paese lo richidiesse: «L’occasione avendomi fatto mentovar la mia persona, vi dichiaro in questo momento solenne che la mia unica ambizione fù quella di conservarmi l’amore del popolo rumeno, di esser veramente utile alla mia patria, di mantener i suoi diritti inviolati. Siate convinti che non vorrei detener un potere che posasse unicamente sulla forza. Come capo della nazione, o in mezzo a voi, sarò sempre col paese e per il paese, senza altri fini che la volontà nazionale ed i grandi interessi della Rumenia. Voglio che ben si sappia che la mia persona non sarà mai d’impedimento a qualunque atto che permettesse di saldar l’edifìzio politico alla di cui fondazione fui felice di aver contribuito.

«In Alessandro Giovanni I, principe dei Rumeni, i Rumeni ritroveranno sempre il colonnello Cuza, il quale proclamò nell’adunanza ad-hoc e nella camera elettiva moldava i grandi principi della rigenerazione rumena e il quale, essendo principe di Moldavia, dichiarò ufficialmente alle alte Potenze garanti, nel momento in cui accettava anche la corona della Valacchia, che accoglieva questa doppia elezione qual’espressione indubitabile e duratura della volontà nazionale per l’Unione, ma unicamente come un deposito sacro.»

Nel febbraio del 1866 dei cospiratori militari entrarono di notte nel palazzo e domandarono a nome [p. 168 modifica] dell’opposizione a colui che aveva pronunciate queste parole un’atto di abdicazione, ch’egli con un gesto di disprezzo segnò. Abbandonò il paese che gli doveva l’esistenza costituzionale, e, per non turbar colla sua presenza il nuovo ordine stabilito, non vi tornò più che tra le bandiere abbrunate dei suoi grandiosi funerali nel 1873. Riposa, pianto dai contadini liberati dalla sua energia ed umanità, nella chiesuccia di Ruginoasa, sul suo podere appartenente oggi ad un ospedale, dono caritevole della sua vedova, morta povera.

15. Il Governo provvisorio (Lascar Catargi, conservatore, N. Golescu, liberale, già membro del Governo del 1848; generale N. Haralambie, a nome dei cospiratori militari) potè garantir l’ordine ed impedir con mezzi estremamente energici il criminale tentativo di parecchi malcontenti di Iassy che volevano romper l’Unione. Filippo di Fiandra, fratello del rè dei Belgi, eletto principe, rifiutò. Malgrado le minacce dell’Austria che stava per cominciar la guerra colla Prussia, e quelle della Turchia che sembrava voler invader i principati, Carlo di Hohenzollern-Sigmaringen, parente di Guglielmo I e figlio di un ministro prussiano liberale, accettò in qualità di principe costituzionale la corona offertagli ed entrava ai 22 di maggio nel paese in cui, dopo quarantacinque anni intieri, regna tuttora pacifico e glorioso. Portava seco il prezioso contributo di un gran nome, di qualità militari distinte, di un’ [p. 169 modifica] energia instancabile, di un alto senso dei propri doveri, di una religiosità e moralità privata intemerate e di quella pazienza e tenacità ch’erano necessarie in mezzo

Il principe Carol nei primi anni del regno.


alle fazioni incostanti e turbolente. Modestamente nel maggio 1866 all’apertura delle Camere egli non offriva altro che «un cuor leale, intenzioni rette, una forte volontà di far il bene, un’illimitata devozione inverso [p. 170 modifica] la nuova patria e quell’invincibile rispetto alle leggi, ch’egli aveva appreso dall’esempio de’ suoi». Uno di coloro che più sinceramente salutarono il nuovo regno, Ştirbeiu, scriveva ad uno dei suoi figliuoli: «Bisogna che gli uomini che si sentono qualche valore sostengano il Governo del principe Carol come ultima ancora di salvezza e lo servano con divozione e piena fede nell’avvenire... Il principe hà un fondo di nativa onestà e di grande lealtà e non domanda altro che di essere nobilmente assecondato.» I soli Bibescu e Sturza, tra i principi che avevano cessato di regnare, si mostrarono irreconciliabili.

16. L’opera principale del nuovo regno fu la guerra contro i Turchi e l’independenza (1877-8), a cui tenne poi dietro la proclamazione del regno di Rumenia. La Russia aveva suscitato fin dal 1876 la ribellione dei «fratelli slavi» nel Balcano; sul principio del 1877 si venne alle armi. La Rumenia conchiuse una convenzione militare pel transito degli eserciti russi, e subito poi, ai 22 maggio 1877, le Camere proclamarono l’indipendenza. Erano già arrivati i Russi, i quali si rivolsero agli «abitanti» e trattarono l’amministrazione con disprezzo ed oltraggi; a Bucarest l’entrata dei reggimenti imperiali fù ricevuta senza nessuna mostra d’entusiasmo: molti piangevano. Il concorso del giovane esercito rumeno venne sdegnosamente rifiutato. Ma, quando il commandante di Plevna, Osman-Pascià, [p. 171 modifica] sconfisse le forze militari russe, scacciandole verso il Danubio, il Gran-Duca Niccolò, generalissimo, fratello dello Zar Alessandro II, inviò al principe Carol un telegramma in cui domandava, riconoscendo l’imminente pericolo, la partecipazione dei Rumeni alla guerra. Sotto il comando del principe Carol i due eserciti combattero uniti davanti Plevna. A Griviţa le truppe rumene diedero una splendida prova della loro tenacità, ubbidienza e disprezzo pella morte. Dopo un lungo assedio Osman si rendeva al colonnello rumeno Cerchez.

La Russia negoziò da sola il trattato di San-Stefano, che creava la grande Bulgaria fino al Mar Egeo e riprendeva alla Rumenia alleata, dopo tanti sacrifizi, i distretti della Bassarabia, offrendo in iscambio la provincia di Dobrogea, antica eredità di Mircea. In vano protestarono Kogălniceanu, ministro degli Esteri, e Brătianu, primo-ministro, davanti ai membri del Congresso di Berlino presieduto da Bismarck, che doveva rifar il trattato in senso meno minaccioso pegl’interessi europei. La Rumenia non cedette il territorio che gli si rapiva, contentandosi di ritirar l’amministrazione e le truppe; la Dobrogea venne occupata militarmente dal principe. L’evacuazione del territorio rumeno dagli eserciti russi si fece tardi e con rammarico. Finalmente il riconoscimento dell’independenza rumena fù fatto dipendere dalla condizione di naturalizzare i 500.000 Ebrei di provenienza galiziana e di lingua tedesca che da un mezzo secolo avevano invaso la Moldavia; il voto [p. 172 modifica] della Camera per ogni straniero che ambisca la cittadinanza rumena fu la misura adottata, secondo gl’interessi vitali della Rumenia. Ai 14/26 marzo 1881 Carol I fù proclamato rè della Rumenia che, da lui condotta, aveva guadagnato, in gloriosa guerra, la sua independenza.

17. In questi ultimi cinquanta anni il paese ha compiuto la sua organizazzione. Strade ferrate, ponti — il gran ponte sul Danubio — , porti sul Danubio e sul Mar Nero — Constanţa nella Dobrogea, dove nel medio evo era il caricatoio di Costanza, notato dai portolani genovesi; edilizi pubblici, scuole — le due Università di Iassy e Bucarest furono create da Cuza e dal suo grande ministro Kogălniceanu — ; sviluppo dell’esercito, formato prima dai Russi negli anni ’3o-’4o, poi riformato dalla missione militare francese, ma anche coll’invio di uffiziali rumeni, protetti dal ministro piemontese Rattazzi, a Torino — finalmente consolidato dal principe, odierno rè, ecco i risultati del lavoro nazionale: a Brătianu, che presedette i migliori anni di quest’epoca, si deve, per la sua intelligente ed entusiastica attività, una riconoscenza speciale; il carbonaro del 1848, l’addetto di Mazzini, era diventato la più grande forza politica reale del suo paese. Malauguratamente interessi di classe che durano ancora impedirono una soluzione energica della [p. 173 modifica] questione rurale, e questa tardanza produsse i grandi torbidi del 1907, che furono crudelmente soffocati.

18. Fin dagli anni ’70, dacché l’Austria segnò colla Rumenia un trattato di commercio [p. 174 modifica] favorevolissimo ai suoi interessi si osserva un riavvicinamento alla monarchia vicina, dove dal 1867 in là 3.000.000 di Rumeni erano stati sacrificati alla prepotenza snazionalizzante degli Ungheresi, che tendono a distruggere le scuole rumene, mantenute col scarso danaro del contadino, e l’autonomia delle due chiese (di Blaj e di Cibinio), guadagnata colla perdita di quattro mila anime sacrificate per l’Imperatore nella rivoluzione del 1848. Dopo la guerra e le prove d’inimicizia date ai Rumeni dalla Russia vittoriosa, il regno aderi all’unione pacifica, di cui uno dei membri è l’Italia. Tale politica fù seguita sempre inpoi, essendo garantita dal rè stesso. Nelle condizioni dei Rumeni di Transilvania non si osserva nissun miglioramento; nella Bucovina austriaca l’elemento rumeno non incontra nemeno la simpatia di cui godono gl’intrusi ruteni. Queste circostanze fanno che l’accordo colle Potenze centrali non possa diventar mai popolare.

19. La letteratura nazionale era passata la sua epoca eroica. I circolo della «Junimea» (Gioventù) di Iassy, che nel 1868 cominciò a pubblicare la rivista «Convorbiri literare», stette sotto l’influenza della filosofia e poesia tedesca. Tito Maiorescu, professore di filosofia all’Università, combattè energicamente la tirannia della frase e le non sincere lamentazioni degli scrittori gallicizzanti. La nuova letteratura trovò in Michele Eminescu (1889) un gran poeta, le di cui [p. 175 modifica] canzoni e satire rimasero impareggiabili. Novellisti, come N. Gane, Giovanni Slavici e Barbu Delavrancea, diedero alla vita popolare la debita importanza di fonte ispiratrice dell’arte. Dalle lotte politiche trasse Giovanni Caragiale le sue acerbe commedie satiriche. Un nuovo tentativo d’introdur formule letterarie straniere vuote di senso fù superata da un nuovo movimento in senso d’originalità storica e popolare. Il pittore Niccolò Grigorescu rifletté nei suoi quadri la pace serena della vita pastorale che si conserva sulle falde delle montagne ove passò gran parte della sua vita.

20. Sotto Cuza, mentre si trattava e Garibaldi indirizzò una proclamazione al popolo rumeno ed un’altra al popolo magiaro,— di far combattere Kossuth e il principe rumeno contro gli Austriaci, scriveva a Bucarest uno dei rivoluzionari italiani, il Veneziano Marco Antonio Canini. Nella persona d’un altro Veneziano, Giovanni Frollo, la nuova Università di Bucarest trovò uno dei suoi migliori professori, ed i suoi consigli dati ai Rumeni che andavano sognando aventure lontane, sprezzando, a profitto dei Greci, Serbi e Bulgari, la realtà balcanica che si offriva loro da se, avrebbero dovuto esser ascoltati. Un’Italiano fondava a Bucarest il più popolare dei giornali, l’«Universul».

Ma il contatto coll’Italia si fece sempre meno frequente. Non cercheremo qui di chi ne sia la colpa. Se [p. 176 modifica] nessuna delle Università rumene ha oggi una cattedra di sola lingua e letteratura italiana (quella di Frollo è diventata cattedra di filologia romanica), in cambio nemeno lezioni riguardo ai Rumeni non furono mai fatte in Italia. I vincoli commerciali sono stati sempre negletti, malgrado le gloriose reminiscenze del medio evo. Tra gli stranieri che visitano l’Italia ben pochi sono i Rumeni. A Roma L’Ungheria hà la scuola che manca ancora ai Rumeni. Scarsissime sono le traduzioni rumene dalla letteratura italiana classica o moderna e nessun’opera rumena più estesa ebbe mai l’onore di una traduzione italiana. Ne approfittano Tedeschi e Slavi i quali hanno una nozione più precisa dei loro interessi.

21. Queste pagine furono scritte in un giorno di giubilo per gl’italiani e di speranze per il popolo rumeno, il quale si rammenterà della regia parola pronunziata sul Campidoglio, che ogni nazione hà il diritto imprescrittibile di trovar la sua forma politica una e definitiva, per collaborar al riavvicinamento della nazione latina oggi trionfante con quella che cerca ancora in dolorose lotte il suo integrale diritto.





Tipografia «Neamul Românesc», Vălenii-de-Munte, diretta dall' autore

  1. Nuova traduzione del novelliere N. Gane.
  2. Due Cuza furono uccisi dai principi del secolo decimottavo: il primo per aver sostenuto gli Austriaci „liberatori" e l’altro per aver preparato il regno degl’indigeni contro i Fanarioti.