Arrigo il Savio/VIII
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VIII.
Come mai il conte Guidi era venuto via da un colloquio, così lungamente sospirato? La cosa, che parrà strana ai lettori, dev’esser chiarita da noi.
Il conte Guidi si era avvicinato a Gabriella Manfredi, approfittando dell’obbligo di cortesia in cui aveva posto il Gonzaga l’avvicinarsi della baronessa di Gleisenthal, pur dianzi sua vicina di sinistra nei famosi lanciers. Anche il Guidi, come altri parecchi, aveva chiesto a Gabriella il solito onore del solito giro di non so qual ballo che doveva seguire, ed anche a lui quell’altissimo onore era stato negato. Gabriella, per quella sera, non ballava più. La signorina Manfredi era in una insolita e bizzarra condizione di spirito, nella quale un osservatore della “scuola ereditaria„ avrebbe trovato una eccellente occasione per dimostrare che in lei operava il sangue di sua madre. Noi, più timidi in materia di asserzioni, vi diremo semplicemente che Gabriella Manfredi era commossa, turbata, soggiogata da quel fiero e nobile uomo, il quale da tanti anni era tipico in casa sua, e quasi leggendario per lei.
Nelle famiglie qualche volta ci sono, questi numi tutelari e viventi, immagini rispettate e care di amici lontani nello spazio e nel tempo, a cui si ricorre col pensiero nei momenti solenni, di cui si citano i detti memorabili e le azioni virtuose, come se già si trattasse di uomini che la morte ha consacrati e la storia circondati di una aureola luminosa. “Questo egli disse, questo egli fece; conformatevi all’esempio di valor singolare, di onestà incomparabile, di sacrificio sublime„; ecco l’ammonimento dei vecchi, che nel ricordo dell’amico venerato si sentono riviver essi medesimi con la loro fiorente giovinezza, e si dànno con lui in gradito spettacolo alla ammirazione dei figli.
Di Cesare Gonzaga, nelle sue prime relazioni coi Manfredi, noi sappiamo ancora troppo poco. Gabriella non ne sapeva quasi nulla; ma lo aveva sentito citar sempre come un eroe, e quell’eroe, che ella vedeva finalmente, corrispondeva nell’aspetto e nei modi al tipo ch’ella, fin da bambina, se ne era foggiata nell’anima. Egli era anche bello di una forte bellezza, e perfino quei capegli grigi tagliati corti, tirati indietro alla soldatesca, non riescivano a farlo parer vecchio, poichè il bronzeo color della pelle, prendendo risalto da essi, mostrava la pienezza e la maestà della forza. Gli occhi di Cesare Gonzaga, azzurri nella pupilla, biancheggiavano vivaci nel globo, con riflessi e luccicori di madreperla. A guardarli, ci si vedeva la dolcezza e la serenità di un bambino; ma quando li girava intorno, luminosi, iridescenti sul fosco della carnagione, parevano metter faville, ed erano gli occhi di un forte. Gabriella Manfredi ne fu soggiogata. La bontà nella forza è sempre piaciuta in singolar modo alle donne; e Gabriella amava già in quell’uomo forte e buono il primo amico di suo padre, il tipo di cavaliere perfetto ricordato da sua madre.
Il conte Guidi, come vedete, capitava in mal punto anche lui. Alla contessa Giovanna, la signorina Manfredi aveva confessato di studiare quel giovanotto, che le era parso un po’ diverso dagli altri; ma in verità aveva confessato più del vero. Per allora non lo studiava più. Si studia volentieri quando si ha libero lo spirito, e questo lo sanno benissimo tutti coloro che non hanno perduta quella onesta consuetudine. E non solo ella aveva smesso di studiare il conte Guidi; ma egli le era diventato di punto in bianco.... Come s’ha a dire? Via, diciamo schiettamente noioso. Nella sua mente, incapace di due contemplazioni, il pensare ancora ad uno studio così vano come quello del carattere di un giovanotto già troppo a lungo veduto e non mai cresciuto nella sua estimazione per grandi fatti, o accenni di magnanime idee, le parve un’offesa, sì, proprio così, un’offesa a quel nobile uomo, che aveva la doppia aureola del soldato di Roma e del cavaliere mondiale. Cesare Gonzaga le arrideva infatti come una luminosa figura d’altri tempi, di quei tempi che hanno sempre l’obbligo di parere e spesso anche la fortuna di essere migliori dei nostri. Anche gli antichi Romani erano fatti così: alle falde del Campidoglio per respingere i Galli e rovesciare le superbe bilance di Brenno; tra i Persi e i Medi, nel lontano Oriente, con le aquile infaticabili e coi prodigi del valore latino.
Il conte Guidi, per altro, non si poteva mandarlo via come il primo venuto. Quel malinconico cavaliere le aveva dette tante cose leggiadre, ed ella le aveva già tanto ascoltate, anche senza commuoversi troppo, che la consuetudine e la cortesia dovevano associarsi a consigliarle un riguardo particolare di benevola attenzione per lui. Lo ascoltò dunque ancora, mentre Cesare Gonzaga si allontanava, discorrendo con altri. Ma il conte Guidi non fu troppo felice, quella volta; anzi, non lo fu niente affatto. Figuratevi che ebbe il torto d’incominciare così:
— Signorina, ahimè, noi non ci siamo più, questa sera.
— O come? — diss’ella, guardandolo con aria di stupore. — Sarebbe forse... altrove?
— Eh? — ripigliò il giovanotto. — Un triste presentimento mi dice che potrei esser cacciato molto lontano.
— Perchè?
— Perchè, — rispose egli, sospirando, — io non sono, come vorrei, un principe orientale, un personaggio delle Mille e una notte, un Sindbad, un Aladino, un Arun el Rascid.
— Non so chi siano tutti questi signori, perchè non ho letto il libro; — replicò freddamente Gabriella, che aveva capita l’allusione, — ma mi pare che ella voglia essere troppe persone ad un tempo. —
Il conte Guidi si accorse di essere andato troppo oltre, e ripigliò tutto confuso:
— Perdoni, signorina; in questo momento non so più quel che dico. —
Era ancora un bel modo di escire dal ronco; ma per quella volta non gli valse. Gabriella Manfredi, non avvezza a tanta confidenza di discorso, si chiuse nella sua severità di dea scorrucciata, e l’imprudente assalitore levò tosto l’assedio.
Due amici lo presero subito in mezzo, per chiedergli notizie di una quistione d’onore nella quale egli era mescolato come arbitro. Dovete sapere che il conte era una specie di Possevino, versatissimo in materia cavalleresca, padrino nato di tutti i duelli fatti e da farsi. Irritato com’era in quel punto, avrebbe volentieri parlato di affettar mezzo mondo e d’infilzare l’altra metà; ma la quistione di quel giorno era invece finita con un verbale ed una stretta di mano, e perciò il conte Guidi dovette restringersi a spiegare quel lieto fine, da lui stesso consigliato, poichè si trattava di due figli di famiglia e a lui non piaceva d’incorrere nello sdegno delle mamme. Così discorrendo, era giunto all’ingresso della sala di lettura, dove il conte di Castelbianco gli si avvicinò e prese parte alla conversazione cavalleresca. Prendeva parte a tutte le cose dei giovani, il giovane conte Pompeo!
Anche il Manfredi entrava da un altro lato: tirandosi dietro, ahimè, l’eterno collega, il primo seccatore del regno, che lo aveva una seconda volta agguantato. Ed altri vennero dopo loro, tra perchè c’era tregua di danze, e perchè... debbo dirvelo? Veramente mi dispiace un pochino, poichè si tratta di una cosa brutta, che accade in tutte le feste da ballo. “Era in quell’ora che volge il disìo„ dei cavalieri più galanti a piantar lì le dame; quasi altrettante Olimpie sullo scoglio, per andarsene a dare una sbirciatina alla credenza, o a far crocchio nel fumatoio. Già, gli uomini saranno sempre uomini, e, quantunque tirati a pulimento da tanti secoli (si dice da trenta, per gli Europei meridionali) faranno sempre come i selvaggi loro antenati, e dimenticheranno le donne qua e là, per starsene a parlamento, occupati a gestire e gridare. Che gusto ci trovassero gli antichi, e che gusto ci trovino i moderni selvaggi, sa Iddio. Le dame, allora, consumati a mano a mano gli ultimi argomenti di conversazione particolare, si avvedono della mancanza, assoluta o quasi assoluta, del sesso forte; vorrebbero dolersene, come di una grossa scortesia; ma tra i primi scortesi c’è il marito, il babbo, il fratello, il cugino; e allora si prende la cosa in burletta, e si fa, per proposta della dama più allegra, una levata in massa. Le belle abbandonate vanno attorno per le sale, contente di fare un po’ di chiasso anche loro; e qualcheduna più ardita, penetrando nel fumatoio, non dubita, ad onta della sua abbigliatura di raso color crema, o di stoffa argentata, non dubita, dico, di prendere una spagnoletta e di fumare, non già come un Mongibello, che sarebbe troppo, ma come un grazioso vulcanetto delle isole Lipari.
— In fondo, hai fatto bene; — diceva il conte di Castelbianco al conte Guidi. — Erano due ragazzi; e se per caso si facevano male, che strilli!
— Che è stato? Una disgrazia? — chiese il tormentatore di Andrea Manfredi.
— No, un duello; ma il nostro Guidi, gran cavaliere e mastro di campo, ha tutto accomodato, con soddisfazione universale.
— Meglio così; bisogna finirla, coi duelli. I Romani....
— Ah, che cervelli esaltati! — esclamò, interrompendo la citazione del seccatore, la signora Robusti, quella bella che era senza spalle e voleva farlo sapere.
— Esaltati! — disse il Guidi, inchinandosi con molta galanteria. — E se lo fossero stati... per la bellezza?
— Allora... non dico più nulla; — rispose la signora, accettando il complimento per sè, e provando a farcisi rossa.
— Il duello è sempre una pazzia, filosoficamente parlando; — ripigliò il seccatore. — I Romani non lo conoscevano, e i Romani....
— Che ne pensi tu, Cesare? — chiese il Manfredi al Gonzaga, che stava zitto, sostenendo le guardate superbe del conte Guidi.
Doveva rispondere il Gonzaga, il re della festa, l’uomo ragguardevole, a cui l’esilio, i viaggi e le avventure indiane avevano dato come una velatura di personaggio misterioso. Tutti gli occhi si volsero a lui, tutti gli orecchi si tesero per udir la risposta.
— Il signore ha invocata la filosofia; — disse il Gonzaga, accennando con gli occhi e con un breve saluto il collega di Andrea. — In nome della morale, che è tanta parte della filosofia, il duello si potrebbe anche chiamare una cattiva azione.
— Proprio, in genere? — disse il Guidi.
— Numero e caso; — rispose il Gonzaga. — È la mia opinione, e, rispettando l’altrui, dico sinceramente la mia.
— E neanche vorrà tener conto del coraggio che ci vuole, per commetterla?
— Il coraggio mi piace, ma quando non sia usato malamente, nè a sfogo di privati rancori, nè a mostra di vanità.
— Il giudizio è molto severo; — notò il Guidi, con amarezza. — E la guerra? Che altro è la guerra, se non lo sfogo e la mostra di una somma di rancori e di vanità?
— Ella, mi perdoni, rimpicciolisce la guerra; — rispose imperturbato il Gonzaga. — Non c’è più vanità, nè rancori, quando si combatte per l’onore del proprio paese e per il trionfo di una nobile causa.
— Ah, perdonami, zio! — entrò a dire il Valenti. — M’inscrivo per parlar contro la guerra. È un controsenso, che il progresso ha oramai condannato; senza contare che le industrie ne soffrono.
— Che argomenti, cavaliere! — esclamò la signora Robusti.
— Ma sai, Arrigo, — disse a sua volta il conte Pompeo, — che tu affoghi nella prosa? Ti farai odiar dalle dame, che sono già in molte a sentirti.
— Ah, sì, — rispose Arrigo, spronato anzi che rattenuto da quel mezzo rimprovero, — un tempo... era assai poetica, la guerra. In primo luogo la partenza, con la sciarpa trapunta, e i colori della dama sul cimiero; da ultimo, il ritorno, con un occhio di meno.
— Ma anche con un occhio di meno!... — esclamò la baronessa di Gleisenthal, quella che, a detta del conte di Castelbianco, avrebbe oramai dovuto smettere.
— Ah, sì! — pensò Orazio Ceprani, che stava in un angolo, ascoltando. — Per quella lì bisognerebbe averli perduti tutti e due.
— E lei, marchese, — entrò a dire la bella Carini, — è mai stato alla guerra?
— Sì, signora, — rispose il Gonzaga, — ed ho fortunatamente salvato gli occhi... per ammirar la bellezza. —
Non si poteva esser più galanti. Le parole del Gonzaga destarono un bisbiglio di approvazione, e la bella Carini si fece rossa davvero.
Il conte Guidi, che era messo di punto in bianco da parte, il conte Guidi, che aveva veduto comparire Gabriella in compagnia della contessa Giovanna, e che a lei aveva veduto andare, insieme col complimento, lo sguardo di Cesare Gonzaga, il conte Guidi perdette la tramontana senz’altro.
— Ed ottenerne il premio! — soggiunse egli, con la sua solita amarezza.
— Chi sa? Fors’anche; — replicò il Gonzaga, sorridendo ironicamente e rizzando con piglio altero la testa.
Qui proprio avvenne che il conte Guidi non ci vedesse più lume.
— Ma questo sia detto, — riprese egli, imbrogliandosi nel giuoco dell’avversario, — per le guerre in cui si difende l’onore del proprio paese....
— Avanti, avanti! — ebbe l’aria di dirgli col gesto il Gonzaga.
— Sì, queste, — continuò il Guidi, — e le altre che si combattono, come diceva lei, per una nobile causa, e giusta, aggiungo io, son quelle che fruttano il premio.
— Correggo quel “giusta„; — rispose il Gonzaga. — Non s’intendono cause nobili, se non sono intimamente giuste. La nobiltà è la bellezza estrinseca della giustizia. Ma chi le dice che le cause per cui io posso aver combattuto non fossero giuste? —
Così dicendo, il Gonzaga aveva l’aria di soggiungere dentro di sè: — Ci sei, bel figurino, non mi scappi più.
— Ma... — replicò il Guidi, oramai trascinato a tutta corsa, come un povero cavaliere staffato. — Perchè in India, dov’ella è stata trent’anni, come ho sentito dire, non erano che guerre d’aggressione e di spogliazione.
— Che ne sa lei? Dato il fatto delle razze sovrapposte dopo la conquista maomettana, potevano anche esser guerre per la liberazione degli oppressi.
— Sì, che facevano guerre d’imboscate, guerre di coltelli!...
— E anche di lame più lunghe, signor conte; — ribattè il Gonzaga, avanzandosi verso il suo interlocutore e fissandolo negli occhi, mentre con l’accento pacato, quasi dolce, pareva volesse dire la cosa più naturale del mondo. — Potrei fargliene conoscere la misura... poichè ne ho portata una bella e interessantissima collezione con me.
— Vedrò volentieri; — rispose, sorridendo a denti stretti, quell’altro.
Queste cose erano state dette rapidamente, a mezza voce, col sorriso sulle labbra. Gli stessi vicini, a cui era parso che i due interlocutori si dovessero riscaldare fino a staccare i bollori, videro con piacere che la quistione finiva in una risata. La contessa Giovanna, rimasta lontana dal crocchio degli uomini, in compagnia di Gabriella e delle altre dame che si erano riaccostate a lei, alzò la voce per dire:
— Ma, signori, parlino almeno più alto, che noi lontane possiamo udire e giudicare, come le dame degli antichi tornei. —
I cavalieri si tirarono da banda, per allargare il cerchio: e Cesare Gonzaga rispose:
— Bella dama, non eravamo ancora in giostra. Il signor conte Guidi mi chiedeva notizie dell’India e delle guerre di laggiù. Che guerre, contessa! Da un lato la conquista, ma con la civiltà; dall’altra il diritto, ossia una specie di diritto acquisito, ma con la barbarie per giunta. Quistioni complesse, e perciò guerre brutte; — conchiuse il Gonzaga, — ma come son brutte tante altre guerre in Europa, che il signor conte Guidi ha ben definite, guerre di rancori e di vanità. Belle, quantunque infelici, le nostre, mio caro Andrea, quando combattevamo, l’uno a fianco dell’altro, per il diritto dell’Italia e di Roma! La fortuna non ci sorrise; nemici stranieri e nemici domestici congiurati strinsero ancora una volta le catene ai polsi della patria, e noi, rincorsi come fiere, abbiamo dovuto disperderci sulla faccia della terra. Onore a chi ci ha vendicati, risollevando il nostro vessillo; onore a chi sostiene il diritto e la maestà della patria risorta! Anche noi, se non sarà troppo tardi, anche noi, quando la bellica tromba... la rammenti, Andrea, la bellica tromba cantata da Gabriele Rossetti?... Anche noi, quando la bellica tromba chiamasse un’altra volta alle armi i figli d’Italia, proveremmo un gusto matto a rifarci la mano, a rivivere un’ora di gioventù!...
— Il tempo di questi sacrifizi è passato; — sentenziò Arrigo Valenti. — Paghiamo già tanto, per le nostre difese! Duecento venticinque milioni, e qualche cosa di più, ci assorbe ogni anno il bilancio della guerra; cinquanta, o poco meno, il bilancio della marina.
— Finiscila, computista! — disse il Gonzaga, prendendo a braccetto il nipote e tirandolo fuori, con atto di paterna autorità.
E sottovoce, aggiunse, poichè si fu allontanato dal crocchio:
— Le tue cifre ti guasteranno con Gabriella. Pensa piuttosto a farmi da padrino.
— Oh, diamine! — disse Arrigo, fissando gli occhi nel volto dello zio. — Dici da senno?
— Sicuro; o lui manda a me, o io mando a lui. Signor Ceprani, — soggiunse, vedendo quell’altro, che si accostava, — vorreste servirmi in una faccenda che vi dirà mio nipote?
— Marchese, son cosa vostra, da ieri mattina.
— Non parliamo di queste piccolezze, e mettetevi d’accordo con Arrigo. —
La contessa Giovanna pensò che fosse tempo di condurre i suoi convitati alla credenza.
— Gonzaga, — diss’ella, avvicinandosi, — ella mi offrirà il braccio. Si va all’assalto della cena.
— Volentieri, contessa; — rispose il Gonzaga, mettendosi tosto a’ suoi ordini, ma non senza aver dato un’occhiata di intelligenza a quei due.
E sorridente si avviò, con la contessa Giovanna al braccio, verso la sala della credenza.
Il conte Guidi non fu così pronto nelle sue ricerche cavalleresche, e perdette una stupenda occasione di offrire il braccio a Gabriella. Il fortunato fu presso di lei il loquace collega di suo padre, quello degli antichi Romani, non potuti smaltire.
Pochi minuti dopo, due amici del conte Guidi, il baroncino di Gleisenthal e un duchino di Roccastillosa, si accostarono con molta circospezione ad Arrigo Valenti e gli dissero:
— Cavaliere, siamo stati incaricati dal conte Guidi di una commissione poco lieta, ma necessaria, presso vostro zio, il marchese Gonzaga. E voi probabilmente....
— Sì, ho capito; — rispose Arrigo con aria infastidita. — Son io l’incaricato di mio zio; e Orazio Ceprani, qui presente, è il mio collega. Domani, cioè quest’oggi, perchè oramai siamo al tocco, ci vedremo dove e quando vorrete.
— Al caffè di Venezia, verso lo tre, vi fa comodo?
— Ottimamente.
— E chi arriva primo, aspetta: non ci metteremo mica troppa furia, con una notte perduta?
— Benissimo, chi arriverà primo aspetterà. Ed ora, non ci facciamo vedere a conciliabolo.
— È giusto; queste cose non si hanno a sapere. Anzi, diciamo pure, che non è avvenuto nulla.
— Nulla di nulla, è naturale; — disse Arrigo, salutando.
Rimasto solo con Orazio Ceprani, Arrigo diede la stura al suo malumore.
— Ma lo capisci, mio zio?
— Già, parla contro il duello, e se ne procaccia subito uno.
— E così, in un giorno solo, due pazzìe!
— Questa, la capisco; — disse il Ceprani; ma l’altra?
— L’altra! — ripetè Arrigo, guardando il compagno. — Mi domandi l’altra, tu? L’altra... la so io.