Arrigo il Savio/VII
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VII.
Andrea Manfredi stava rincantucciato, e non per sua elezione, credetelo, nel fondo di una galleria, tutta messa a piante di stufa, e che sarebbe parsa davvero una stufa, se non ci fossero state cinque o sei grandi lastre di specchi, poste in fila e incorniciate da liste sottili, quasi da nervature di bronzo dorato, dietro agli ombrelli diffusi delle felci arboree e delle latanie borboniche. In quell’angolo di galleria, poco lunge da una delle porte spalancate, donde veniva la luce viva e il lieto rumore della sala da ballo, il senatore Manfredi era stato sequestrato da un suo collega, chiamato non indegnamente il primo seccatore del Regno; uno di quei molesti personaggi, così frequenti in società, che hanno sempre qualche cosa da dirvi, e non vi lasciano, nella terribile continuità del discorso, neanche il tempo di dire: permettete, ho qualche cosa da fare. I dotti vogliono che sia una malattia; gl’indotti si contentano di dire che è una seccatura enorme. Certo è, lettori miei, che se tra i precetti cristiani v’ha quello di assistere gl’infermi, non ci troverete la raccomandazione di ascoltare i noiosi, mentre la scappatoia di farne un’offerta a Dio misericordioso non sarebbe punto conforme a quel sentimento di gratitudine che lega la creatura al suo creatore.
Il Manfredi stava là, come vi ho detto, dimenandosi invano fra le strette di un ragionamento pazzo, che in venti minuti aveva toccato un centinaio di punti, dalla legge per il riordinamento del Genio Civile, che il ministro Baccarini aveva presentata quel giorno in Senato, fino alla fabbricazione del solfato di chinina, e alle proprietà fosforescenti di questo sale, quando sia scaldato a cento, e poscia sfregato nel buio. Ma egli vide apparire la sua Gabriella, in compagnia d’un signore alto, dai baffi grigi, e diede una rifiatata di contentezza, poichè il suo martirio era sul punto di finire.
— Scusate! — diss’egli, interrompendo il discorso e mettendo avanti le mani, per allontanare il noioso. — Vedo mia figlia, che mi cerca. Ah! — soggiunse, osservando meglio il cavaliere di Gabriella. — Sei tu, veramente?
E corse incontro a Cesare Gonzaga, che aveva riconosciuto, ad onta degli anni molti, da cui erano abbastanza mutati ambedue.
— Qua, qua, tra le mia braccia! — proseguì il senatore Manfredi, stringendo al petto l’amico della sua giovinezza. — Venivo, sai, venivo questa sera all’albergo; ma il conte di Castelbianco mi ha detto che tu dovevi capitare da lui, e sono rimasto qui ad aspettarti. Cesare... mio buon Cesare! —
E lo abbracciava ancora, e lo ribaciava sulle gote.
— È un brutto momento, Andrea, un brutto momento! — disse, con voce soffocata dalla commozione, il Gonzaga. — Ho fatto troppo a fidanza con le mie forze. Era meglio che ci vedessimo altrove.
— Siamo quasi soli; — rispose il Manfredi. — Là dentro si balla, e noi, qui in disparte... piangeremo come due ragazzi, non è vero?
— Eh, questo temevo, e ora si dà spettacolo, Andrea! Quanti anni passati! Il meglio della nostra vita, senza vederci! E tua figlia, la tua Gabriella, che angiolo!...
— Sua madre, vedi! Lo hai notato anche tu, che è tutta sua madre? Ed io debbo amarla due volte, questa cara figliuola. —
La cara figliuola stava lì ritta, guardando quei due amici lagrimosi, ch’ella era così felice di poter confondere in una sola ammirazione, in una sola tenerezza. Ma essa, nella postura in cui era, aveva anche gli occhi verso lo specchio, e quella perfida lastra le offerse l’immagine del suo ballerino, ritto impalato dietro le sue spalle, come un Mefistofele burlesco, venuto a rammentarle l’adempimento di un patto. E si volse, la cara figliuola, non senza un pochino di stizza, quasi volesse dirgli col gesto: — Ma ella vede, Dio buono, che ci ho altro da fare?
— Signorina, — disse il ballerino, ossequioso nell’atto, ma inflessibile nel proposito, sono sempre a’ suoi ordini. Aspetterò, non s’incomodi. —
Gabriella fece un atto d’impazienza, ma tutto interiore, e, veduto che non c’era verso di liberarsi, prese l’eroica risoluzione di vuotare il calice amaro in un sorso.
— No, — rispose allora, — vengo subito. Badi, signor Cesare, — proseguì, rivolgendosi al Gonzaga, — appena finito questo valzer, vengo a discorrere con lei. Dev’essere questa sera il mio cavaliere.
— Antico; — rispose il Gonzaga. — Ma non dubiti, bella dama, non mi muovo di qui, fino a tanto ella non venga a levarmi di sentinella.
— Perchè darle del lei? — disse il Manfredi.
— Che vuoi? Non l’ho mica vista bambina.
— Ragione di più per rifartene ora!
— Babbo dice benissimo; — disse Gabriella, prima di allontanarsi. — Ma fra poco ne riparleremo. —
E andò, la cara fanciulla, andò nella sala da ballo, voltandosi ancora una volta indietro, prima di lanciarsi nel vortice proverbiale della danza. Il ballerino, di tanto in tanto, provò a collocare qualcheduna delle solite frasi; ma Gabriella era distratta e rispondeva a monosillabi. Finalmente, saltò in testa al ballerino di dirle:
— È ancora un bel cavaliere, quel marchese Gonzaga! —
Per quella volta la fanciulla si scosse, e rispose con una frase intiera:
— È il re dei cavalieri, senza macchia e senza paura. —
Il ballerino non soggiunse più altro. Aveva da ballare e ballò coscienziosamente, tanto da poter dire per una settimana, al caffè, nei soliti ritrovi de’ suoi giovani amici: — Il primo valzer della serata, dai Castelbianco, l’ho ballato con la Manfredi, con la più bella ragazza di Roma. —
I due amici erano rimasti nella galleria, finalmente soli, perchè il primo seccatore del Regno, vedendo di non poter riattaccare il suo discorso sulle proprietà del solfato di chinina, era andato a cercare un’altra vittima; sicut leo rugiens... con quello che segue.
— Lascia che io ti guardi ancora; — diceva il Manfredi; — così, nel bianco degli occhi. Come sei sempre giovine e forte! Io, vedi, sono una rovina.
— Eh, via! I capegli un tantino più bianchi de’ miei, ecco tutto; — rispose il Gonzaga.
— Aggiungi un’anima accasciata, Cesare mio. Dopo la morte di Lorenza... avvenuta sei anni fa! e il mio dolore è acerbo ancora, come se l’avessi perduta ieri. Ti rattristo, coi miei discorsi, lo so; ma oggi, che vuoi? oggi è un lutto comune. Trentatrè anni fa, era un dolore tuo, che tu hai sopportato virilmente, mio povero amico! Che fuga è stata la tua, e come il tuo sacrifizio è stato inteso da noi! Perchè, infine, tu hai rinunziato alla famiglia, alla patria, a tutte le soddisfazioni, a tutti i conforti che potevi giustamente sperare. Ti amavo, lo sai, ti amavo come un fratello! Ma ti ho amato anche di più, pensando che tu eri più grande, più generoso di me, e che io non avrei saputo fare quello che hai fatto tu, con tanta semplicità, con tanto eroismo. Sì, lasciami dire tutto quello che io penso di te, e che ho dovuto tener chiuso qua dentro, senza neanche sperare che avrei potuto dirtelo un giorno. Senti, Cesare, amico e fratello mio, se mi fosse dato di versare per te fin l’ultima goccia di sangue, ancora non mi parrebbe di averti pagato il mio debito di riconoscenza.
— Sempre lo stesso entusiasmo! — esclamò Cesare Gonzaga. — E sei un banchiere!
— Sì, un banchiere, ma che per ciò? Ho seguita la via de’ miei vecchi; ma il cuore non ha potuto mutarsi. Veramente, — soggiunse il Manfredi, — per i tempi che corrono, mi sono ingegnato di nasconderlo, come si nascondono i tesori e i difetti, o le virtù che fanno ridere. Che giorni, amico mio! E come ce l’hanno barattata fra le mani, questa patria, che avevamo immaginato di far così grande e così bella! Va tutto alla peggio sai, e la nuova generazione non ci affida di giorni migliori. Penso spesso al vecchio di Orazio, per dar torto al mio pessimismo; e non mi riesce, pur troppo! Noi brontoloni, forse, ma con la fiamma dell’ideale nell’anima; i nostri successori, più ameni, più graziosi, più dotti, anche più esperti; ma a conto loro e per le loro ambizioni; ma senza il menomo pensiero di un gran debito morale e politico nella coscienza. Vedo io troppo nero? Non so; ma questo è certo e fuor di questione, che i giovani d’oggidì non mi aiutano punto a vederci più chiaro. —
Cesare Gonzaga non poteva, per parte sua, dargli torto. Ma quella intemerata del suo vecchio amico gli veniva proprio in mal punto, e pareva fatta a posta per levargli il coraggio.
— E sia; — diss’egli, andando risoluto incontro alla difficoltà; — non amiamo i giovani. Ma tu, almeno amerai mio nipote.
— Il Valenti? Questa sera soltanto, e dal conte di Castelbianco, ho saputo che il cavalier Valenti è tuo nipote. È ricco, ed anche esperto negli affari; farà molto cammino. È uno dei fortunati del giorno.
— Ma è anche un giovane d’onore; — disse il Gonzaga, che aveva colto a volo il sarcasmo. — Non siamo noi troppo severi, Andrea? L’hai detto tu stesso, ricordando il vecchio d’Orazio. Poveri giovani! Abbiamo fatto tante sciocchezze noi altri, ed essi non vogliono imitarci. Via, non esser troppo rigoroso coi giovani esperti e savi, se, un po’ più presto che non abbiamo fatto noi, si mettono a combattere con accortezza di vecchi capitani la gran battaglia della vita.
— Senti, io ti parlo schietto; — rispose il Manfredi. — Amo la gente seria, ma mi piace che ognuno abbia i pregi, e, se vuoi, anche i difetti della sua età. Siano i vecchi temperati ed accorti, siano ardenti i giovani, ed anche un pochettino ingenui. Ora, che cosa t’ho a dire di più? Quel cavalier Valenti, per la sua età, mi pare un fenomeno, un prodigio di vecchiaia. Tanta esperienza, con quel sorriso angelico, in fede mia, è piuttosto fatta per allontanare, che non per attrarre la simpatia di un uomo come me. Ti dispiace?
— Sì, e molto... perchè dianzi, tenendo a braccetto Gabriella, vagheggiavo un certo disegno!...
— Un disegno? Così presto?
— Eh, caro mio, non me l’hai forse detto tu, proprio tu, che io debbo rifarmi del tempo perduto? Stringere un po’ più saldamente i vincoli che ci uniscono, è oggi il mio desiderio più vivo, e, direi quasi, l’unico desiderio ch’io mi abbia. Arrigo, che ti è sembrato così serio e calcolatore, non è freddo che alla superficie. Io l’ho studiato, questa mattina, e posso aggiungere che gli ho dato un esame in piena regola. Non si nasce mica perfetti a questo mondo! Vedi, Andrea. Tu devi usarmi la cortesia di rifare con me lo studio di quel carattere, spogliandoti di tutte le tue antipatie....
— Antipatie, no; — interruppe il Manfredi; — l’uomo savio non ne ha mai, e l’uomo non savio, quando è giunto alla mia età, non ne ha più.
— Diciamo dunque le tue idee prestabilite; — riprese il Gonzaga. — Tu devi lasciarle un momento in disparte, per considerare con me la giovinezza di Arrigo. Quel povero ragazzo si è trovato solo, nel mondo, a combattere; più che imparare a custodirsi da certe intemperanze dell’età, è stato costretto dal bisogno a moderarsi, ad osservare, a scegliere la sua via. Ti è mai occorso di vedere dei saltatori, che per aver calcolata troppo lunga una distanza, o anche per assicurarsi contro i pericoli di una caduta nel vuoto, prendessero una rincorsa maggiore del bisogno, e, nell’impeto, nello slancio del salto, varcassero il segno? Così e non altrimenti il mio povero Arrigo; ha fatto maggior provvista di forze che non bisognasse al caso suo. Doveva esser più giovane, egli, che non aveva tempo da perdere nei giuochi e nelle follie dell’età? meno accorto, egli, che dubitava d’inciampare ai primi passi? Ha diffidato, ha temuto; ma era onesta la sua diffidenza, rispettabile il suo timore. Quasi si potrebbe esclamare: o felix culpa! poichè questa esagerazione di sforzo lo ha condotto alla ricchezza: ma questo ragionamento utilitario sarebbe indegno di me, che ti parlo, di te, che mi ascolti, e finalmente di lui, che ha lavorato con coscienza, avendo solamente il torto, lui giovane, di non aspettare la visita e i sorrisi di madonna Fortuna. Egli le è andato incontro, l’ha circuita, vinta e incatenata, sempre per eccesso di precauzioni, per esagerazione di sforzo. Poveraccio! Ma egli è più giovane che tu non creda; ha una retta coscienza ed un cuore ardente, sotto quell’apparenza di freddezza e di calcolo. Ti basti questo: che egli mi ha confessato stamane di essere fieramente innamorato di tua figlia.
— Fieramente! Dici da senno?
— Non ne dubitare, ti prego. Egli lo ha confessato a modo suo, senza abbondanza di parole, con una di quelle frasi concise e risolute, con uno di quegli scatti, di quei lampi, che ti fan leggere nei più riposti segreti di un cuore. Riconosci, mio caro Andrea, che ti eri ingannato sul conto suo. E non potresti anche ammettere che Arrigo avesse lavorato con tanta accortezza a formarsi uno stato, per potersi presentare più sicuramente a te, con più fondata speranza di essere accettato per genero? Ah, vedi? Ti carico alla baionetta. Ma che vuoi? Amo quel ragazzo, che somiglia tanto a sua madre, alla mia povera sorella... e vorrei vederlo felice. Or dunque, amico, la tua risposta! Senatore, il tuo voto!
— Sarà un voto condizionale, — rispose il Manfredi, che non potè trattenersi dal ridere. — In questo caso io non vorrei far nulla, senza avere udito il pensiero di mia figlia.
— È giusto. Ma se tu mi permettessi di parlarne frattanto a lei, con garbo, si capisce, e con la debita prudenza....
— Sei padrone di farlo. Non subito, per altro; non alla baionetta, come hai fatto con me.
— Oh, non aver timore; troverò il momento opportuno. E poi, si tratta di un negozio delicatissimo; non ne parleremo una volta soltanto. Se il mio Arrigo ha dei difetti, dovrà anche lavorare di buona voglia a levarseli. Gabriella è una creatura divina: non si conquista come la fortuna; bisognerà meritarla.
— Tu, ora, guasti il babbo, Cesare mio! — disse il Manfredi, afferrando la mano del Gonzaga e stringendola fortemente tra le sue. — Non guastare anche la figlia, con le tue lodi soverchie.
— Che lodi! Che soverchi... e che coperchi! Io l’adoro, — replicò il Gonzaga, — e voglio, vedi che bella pretesa! voglio che mi ami, come ama te.
— Mi pare che sia una cosa già fatta; — rispose il Manfredi. — Vedila qua, che ritorna. —
Gabriella appariva in quel punto, classica figura biancheggiante tra il verde delle felci e delle latanie borboniche, con le sue belle guance imporporate dagli ardori della danza. Il ballerino (dobbiamo rendere questo omaggio alla verità) possedeva la sua arte, corrispondeva perfettamente a tutti gli obblighi dell’ufficio. Si poteva non trovar nulla da rispondere ai suoi sciocchi discorsi, ma si doveva aver confidenza in lui, quando incominciava a muover le gambe; bisognava abbandonarsi al vortice, descrivere le curve più violente e più rapide, trattenuti e lanciati ad un tempo da un polso d’acciaio, girando come un eccentrico sopra un asse ideale di rotazione, e fuori del centro di figura. Ricordi matematici, andate via! Il ballerino condusse la signorina Manfredi dov’ella voleva, allargò il braccio, fece un inchino, e via anche lui, mentre la fanciulla, resogli il saluto con un cenno del capo, riprendeva il braccio di Cesare Gonzaga.
— L’avete veramente conquistata! — notò la contessa di Castelbianco, che passava allora, al braccio del conte Guidi.
— Come vedete, contessa; — rispose il Gonzaga, accogliendo con un sorriso la celia garbata. — E son venuto di lontano assai, come tutti i grandi conquistatori. —
Cinque minuti dopo, una grande notizia si spandeva per tutto quel piccolo mondo di dame frivole e di cavalierini leggieri. Il ballerino ne aveva buttato là il germe, il nocciolo, l’embrione, senza dare importanza alla cosa, più per vezzo di chiacchiera che per isfogo di malumore, e tutti ci avevano lavorato intorno, aggiungendo, sottraendo, lisciando, adattando. S’era formata come i diacciuoli, sospesi alle gronde dei tetti, quando una goccia d’acqua si rappiglia, un’altra la segue, e via via di goccia in goccia si forma il candelotto; poi l’aria ci si trastulla dattorno, accarezzando, operando di ricamo, di filettatura, di traforo, di cesello e di sbalzo, questo ottenendo coi caldi e quello coi freddi, secondo i capricci e i bisogni, come farebbe un orefice.
Or dunque, ecco qua: il ballerino aveva dovuto conquistare la sua dama, seguendola pazientemente qua e là per le sale, e finalmente strapparla reluttante dal braccio dell’indiano; dopo averla conquistata, non era riescito a farla parlare che in grazia di una lode accortamente data all’indiano, da lei subito battezzato, con insolita energia d’accento, il cavalier senza macchia e senza paura. Ma il valzer era finito, e la dama, che aveva data la posta al suo Baiardo dai baffi grigi, era corsa a cercarlo, a riprendere il suo braccio. Baiardo non era poi vecchio, e ad onta di quei baffi grigi poteva sostenere il paragone con molti giovani, forte, fiorente e maestoso come appariva agli occhi di tutti.
Aggiungete che ritornava dal Bengala, dove si era arricchito (insinuava destramente il Ceprani) facendo la guerra agli Indù; che doveva aver posseduto il cuore di qualche improvvida Rani, ottenendone i diamanti e cedendone il principato agli Inglesi; ragione per cui aveva potuto ritornarsene parecchie volte milionario in Europa. Il riccone, il nabab, appena giunto in Roma, conquistava tutti i cuori, faceva girare tutte le teste; oramai non aveva da far altro che gittare il fazzoletto, poichè tutte le dame si erano invaghite di lui, incominciando da quella stupenda ragazza, il cui babbo, uomo serio e di salda riputazione, era addirittura incantato, e copriva coi ricordi di un’antica amicizia il desiderio smanioso d’imparentarsi con lui. Ed anche era facile intendere la preferenza dell’indiano. Questi vecchi gagliardi, per solito, s’innamorano delle fanciulle, e non apprezzano la bellezza se non è fresca, come la rosa, delle sue prime rugiade. La fanciulla, dal canto suo, aveva sentito il fascino e gradito l’omaggio del principe indiano; egli aveva gittato il fazzoletto, ed essa aveva lasciato cadere il tulipano, indizio e promessa di un amore violento. E poc’anzi, dopo il valzer ballato di mala voglia, non aveva essa rifiutato di ballare una polca con un altro fra i più brillanti cavalieri della festa, adducendo a sua scusa che si sentiva un po’ stanca? Stanca una fanciulla ai primi balli, eh via! I lanciers, almeno, non l’avrebbero affaticata: ma i lanciers (vedete che caso!) li aveva già impegnati con Cesare Gonzaga. Immaginate i commenti! Si sarebbe veduto il sultano eseguire le riverenze, l’avanti e indietro, le diagonali e tutti gli altri passi a contrattempo, che fanno dei lanciers la confusione più amena e la cosa più buffa del mondo.
Immaginate altresì lo stupore, dapprima, e poi la stizza del conte Guidi. Era un tipo curioso, quel conte senza contea. Egli regolarmente andava in tutte le conversazioni, in tutte le feste, dove il suo titolo e la sua eleganza potevano renderlo accetto, e amava ogni stagione un paio di ragazze, con preferenza spiccata per le più ricche borghesi, e, tra queste, per le figlie uniche. Il bel giovane serio, gran cavaliere, parlatore discreto ed efficace a quattr’occhi, non amante delle arguzie, nè dei discorsi chiassosi, solamente disposto a sorrider breve quando sentiva le arguzie e i motti festosi degli altri, faceva allora il suo giuoco doppio. O vinceva la partita, e collocava la sua corona di nove perle sopra un sacco di napoleoni; o la perdeva, e restava con l’aureola di amante sfortunato, ma rispettabile e degno di consolazioni. Qual donna non doveva essergli riconoscente, sapendo di essere stata la sua prima e infelicissima fiamma? Ci sono tanti tesori di pietà, nel cuore di una donna, e si spargono così facilmente, quando la donna è inesperta! Perchè non crederebbe ella, infine, alla sincerità di un affetto che si manifestò nelle forme più nobili quando ella era libera, e che non ebbe esito felice per colpa di circostanze malaugurate, non imputabili a lui?
E Arrigo, frattanto? Arrigo non sentiva nulla, non si accorgeva, non si dava pensiero di nulla. Era andato nella sala di lettura a fumare una spagnoletta e a leggere gli ultimi telegrammi e il listino della Borsa, pronta cagione di parecchie operazioni aritmetiche mentali. Era fastidio delle piccole vanità della festa, o sicurezza del fatto suo? Ci è permesso di accogliere quest’ultima supposizione, senza rinunziare intieramente alla prima. Arrigo si era avvicinato una volta sola, nel corso della serata, alla gentil Gabriella, e aveva anche ottenuta la ricompensa di un sorriso, forse il primo sorriso aperto e sincero, del quale egli poteva chiamarsi debitore alla notizia, saputa quella medesima sera da Gabriella, ch’egli era il nipote di suo zio. Ma egli era un nipote così amato, e così pienamente consapevole di essere aiutato, che potè rispondere con una cert’aria trionfale a quel sorriso amorevole, ritenendosi dal chieder l’onore del solito giro di valzer, di polca, o d’altra figura e tempo di ballo. Già, egli aveva sempre ballato poco, e quell’anno, poi, non ballava più affatto. Un cavaliere, figuratevi! Inoltre, quella sera, mentre un forte guerriero teneva il campo per lui, egli doveva stare più che mai riguardoso. Era fresca la scena in cui una povera donna confusa, amante ancora e pentita, più bisognosa forse di essere consolata che esaudita, era rimasta colpita dalla sua insigne freddezza, e, senza avere ottenuto da lui il conforto di una parola calda, di una lagrima generosa, aveva dovuto riprendere la sua via, in mezzo alle solite ansietà, ai soliti pericoli, sdegnata con lui, ma più ancora con sè medesima!
Dopo i famosi lanciers, in cui Cesare Gonzaga non si era mostrato niente più impacciato di tanti altri personaggi eminenti, che qualche volta debbono pure mescolarsi in queste difficili imprese della frivolezza elegante, la povera contessa entrò nella sala di lettura, e trovò modo, passando, di gittare alcune parole all’orecchio di Arrigo, mentre negli atti e nel sorriso mostrava di dirgli una frase gentile, come è l’uso e l’obbligo delle padrone di casa.
— Egli sospetta, badate. Sono stata veduta per via, e devo solamente al caso....
— Lo so; — rispose Arrigo, imitando la sua mimica prudente. — Non vi esponete, vi prego. —
E fatto un inchino, riprese a leggere il giornale che aveva tra le mani.
Ferita al cuore da quel freddo “lo so„ la contessa era andata più oltre, nel vano di una finestra, dove un altro de’ suoi convitati, uomo maturo e stracco, tirava le ultime boccate di fumo da un autentico e profumato Manilla. A tempo, fortunatamente, poichè, a farlo apposta, il conte Pompeo entrava allora, insieme col Gonzaga, nella sala di lettura.
— Ah, bene; benissimo! — esclamò il conte Pompeo. — Ecco qui il nostro cavaliere, che legge il listino della Borsa. Quando lo dico, io, che non ci sono più giovani! Abbiamo dovuto ballar noi. Due bei lancieri per altro! —
Arrigo sorrise, approvando, e rimase a discorrere con lo zio, mentre il conte Pompeo, cutrettola eterna, saltellava verso sua moglie, che aveva preso il braccio del fumatore solitario, e lo trascinava con sè, molto maravigliato, anzi a dirittura rintontito, dai suoi graziosi discorsi.
— Perchè ti nascondi, Arrigo? — disse il Gonzaga al nipote. — Io ho fatto finora tutto quanto ho potuto, passeggiando, tenendo a braccetto, perfino ballando, per essere fedele alla consegna. Ma ogni bel giuoco, lo sai, dura poco, ed io ho dovuto lasciare, per un quarto d’ora almeno, la divina Gabriella.
— Ah! ti piace?
— Moltissimo; e perciò, vincendo un certo rimorso che mi aveva preso per una povera donna, approvo pienamente la tua scelta. Vi voglio alle Carpinete per questa primavera.
— Come corri! — esclamò il giovane. — Tu ti fai già in tasca il contratto.
— In tasca, no; — rispose lo zio, rabbruscato; — in tasca io ci ho solamente le cose che mi dispiacciono. Bada, Arrigo, mentre tu stai qui a ragionare con tanta povertà di linguaggio, un altro si è fatto avanti. E pareva non aspettasse altro che di vedermi muovere, il bellimbusto! Un elegante, un tenebroso, tutto languori con le dame, e occhiate spavalde coi cavalieri! A me, anzi, ne ha date parecchie, che volevano passarmi fuor fuori.
— Ah, capisco, il conte Guidi.
— Sarà lui. Stamane, infatti, mi hai detto che quello che ti dava noia era un conte.
— Noia, sì e no. Il fatto è questo, che io non lo temo. È uno di quei vanerelli, tutti infatuati di sè, che sgallettano intorno a tutte le ragazze ben dotate, e non possono sperar nulla, perchè non hanno la croce d’un quattrino.
— Temili, ragazzo mio, questi cavalieri disperati. Chi li distingue ora dai ricchi? Essi rimediano alla mancanza del milioncino con le belle maniere, col sentimento, con la poesia, imparaticcia se vuoi, ma egualmente pericolosa. Questi rivali bisogna batterli nel loro campo.
— Fammi Gonzaga, e trionfo senza combattere.
— Farti Gonzaga! Eh, vedo la coda del tuo ragionamento. Un’adozione?
— Non sono io il tuo unico parente? — disse Arrigo, incalzando. — Non mi ami tu come un figlio? E i Gonzaga di Luzzara hanno da spegnersi anche nel nome?
— Senti! mi ci fai pensare; — rispose lo zio. — Ma questo è anche un curioso momento, per dirmelo!
— Si dice una cosa quando viene in taglio; — rispose Arrigo, niente sconcertato dalla osservazione dello zio. — Quanto al Guidi, io dormo tra due guanciali. Le ragazze, al dì d’oggi, vogliono ben altro che sospiri e grullerie da medio evo!
— Lo vedi? Io ne ho una opinione diversa; almeno di Gabriella; — replicò gravemente il Gonzaga.
— Ebbene, ecco che lei, per intanto, ti dà una graziosa mentita; — disse Arrigo, ridendo. — Gabriella non è stata a sentire i madrigali del conte Guidi.
— Come lo sai, stando qua?
— Stando qua, vedo il temuto rivale che s’avanza, dietro a te, in compagnia di due altri sciocchi suoi pari.
— Tanto meglio; — disse il Gonzaga. — Allora fammi una giravolta sui tacchi, da bravo soldatino, e va in sentinella un po’ tu. Finalmente, si tratta della tua felicità.
— Non è conveniente, ora; — rispose Arrigo. — Se quell’altra mi vede!...
— Quell’altra, ahimè! — disse il Gonzaga in cuor suo. — Così le chiamiamo, quando tutto è finito. —
E sospirò, il povero filosofo, che dei suoi nobili insegnamenti non vedeva alcun frutto.