Arrigo il Savio/VI
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VI.
L’imperatrice sorrise e andò incontro alle nuove venute. Ce n’erano parecchie, le quali entravano tutte insieme, facendo dire al conte Pompeo che le belle donne, fedeli al costume della pianta di questo nome, anche in casa Morati fiorivano a grappoli. La Savelli, la Carini, la Santoro, la Franchi dal Melle, stupende creature, ognuna delle quali rappresentava un diverso tipo di bellezza, si vedevano nel mazzo, e, venuta forse con esse per ragione di contrasto, non mancava la Gleisenthal. Facevano contorno (e forse sarebbe inutile il dirlo) otto o dieci cavalieri, via via seguiti, quasi incalzati, da uno sciame di eleganti compagni e rivali.
Son questi, non lo ignorate, i miracoli dell’orario, a cui deve sempre corrispondere un orologio ben regolato. Io ho conosciuto dei gentiluomini, i quali, per giungere in punto, nè un minuto prima, nè un minuto dopo, ad un geniale ritrovo, si adattavano a far sosta nei portoni delle case in cui erano invitati. Il bel mondo ha le sue leggi, e riesce a farle rispettare, senz’altra sanzione, fuor quella del ridicolo, che si rovescia sul capo ai miseri trasgressori. Si contraffà spesso e volentieri alle leggi dello Stato, e s’incorre nella multa, e si va anche in prigione; ma non c’è caso che con animo deliberato si venga meno alle leggi del mondo elegante. Passare per ignoranti in materia di consuetudini! Oh no; troppo grave è la pena.
In un quarto d’ora, sempre con l’orologio alla mano, le sale di casa Morati erano piene di gente. Piene, intendiamoci, non già stipate per modo da impedire il movimento dei gomiti. Questi pigia pigia si lasciano volentieri ai balli prefettizi e di Corte, dove bisogna invitare tutto il mondo ufficiale e titolato, senza pregiudizio di quei sollecitatori di biglietti d’invito, che non appartengono a nessuna classe particolarmente indicata. Un anfitrione privato deve cansare sopra tutto il guaio di una calca soverchia, anche a risico di lasciar fuori qualche dozzina di amici. Ne ha sempre tanti, colui che dà pasticcini da mangiare, Pommard, Montrachet, Haut-Brion e Château-Lafite da bere! Socrate, per verità, alloggiato in una casa ristretta, non si stimava mai tanto felice, come quando poteva riempirla d’amici. Ma Socrate era male ispirato, e la signora Santippe non partecipava al suo modo di vedere; anzi è da credere che fosse questa una delle ragioni per cui quel matrimonio celebre dell’antichità non riuscì troppo felice. L’altra ragione si sa, è stata la filosofia. Un marito filosofo, bontà divina! e che aspetta il suo sessantottesimo anno a ber la cicuta!...
Il conte di Castelbianco, che non era un filosofo, andava aliando di fiore in fiore con una leggerezza giovanile, che era natura in lui e che doveva accompagnarlo alla tomba. La Franchi dal Melle, ultimo fiore a cui era venuto a ronzare dattorno, lo aveva lodato della sua presenza così sollecita in casa, che non era, come sappiamo, nelle sue consuetudini.
— E non lo indovinate, baronessa, il perchè? — disse il conte Pompeo, piegandosi sulla vita e presentando la faccia in tre quarti. — Il cuore mi diceva che questa sera voi sareste venuta delle prime, ed ho voluto trovarmi subito al mio posto, per farvi una corte spietata.
— Zitto! — esclamò la baronessa. — Giovanna è vicina, e guai a me, se vi sente!
— Eh via! Peggio sarebbe se mi sentisse il cavalier Giorgetti, che vedo là in sentinella, come sempre. Il poveretto non ha occhi che per voi, e prevedo che a furia di guardare il sole, sarà ben presto costretto a usare le lenti turchine. —
Il colpo era forte e coglieva in pieno; ma la baronessa non ne fu sconcertata.
— Come v’ingannate! — diss’ella, dando in una sonora risata. — Quel povero cavaliere è un amico modesto e prezioso, che mi accompagna regolarmente, e non parla. Se parlasse....
— Lo mettereste al bando dell’impero? Io non lo credo; — rispose il conte.
— Avete torto a non crederlo, perchè sarebbe il primo dei miei doveri.
— Quand’è così, non insisto. Concludiamo dunque che il mio amico Giorgetti, accompagnando e tacendo.... Mi permettete, baronessa di dire tutto il mio pensiero?
— Bravo! Ne avete detto già tanto, e vi fate scrupolo di continuare?
— Ebbene, continuerò. Il mio amico Giorgetti, accompagnando e tacendo, non si guasta con voi, e passa per un felice agli occhi del mondo.
— Che gusto ci si trova?
— Più che non pensiate. Si vive di apparenza, quando la sostanza non c’è. Vedete? Se io potessi parere amato da voi, quasi quasi... non dico già per sempre, ma per dieci anni almeno, mi consolerei di non esserlo.
— Ecco un ragionamento che mi darà da pensare; — conchiuse la baronessa. — Vuol dire che congederemo il cavaliere.
— Per prender me, baronessa?
— Ah voi.... siete un bel capo, voi! Ma come fate ad essere così capriccioso? Avete in casa una bellezza famosa. Ancora stamane, vedendola, dicevo tra me: che uomo felice è Pompeo!
— Stamane! — esclamò il conte di Castelbianco. — Mia moglie! e dove? —
La baronessa si accorse di aver commesso un errore, e si provò ad attenuarlo nei particolari, non potendo correggerlo nella sostanza.
— In via Condotti; — rispose.
— Da un’estremità all’altra! — borbottò il conte di Castelbianco, il cui pensiero era già corso in via Sallustiana.
La contessa Giovanna, che stava ascoltando un discorso della marchesa Savelli, e che frattanto tendeva l’orecchio alle chiacchiere di suo marito con la Franchi dal Melle, si era mossa alla esclamazione del conte, ed era venuta terza nel colloquio, in atto di chi, passando, si fermi per dire una parola gentile. Aveva il sorriso sulle labbra, la povera contessa, e, come potete immaginarvi, l’angoscia nel cuore.
— Ah, eccovi in buon punto; — disse il conte, vedendola giungere, e facendo anche lui bocca da ridere. — Avete veduta stamane la baronessa, bella e seducente come sempre, e non me ne avete detto nulla. Sapete pure, Giovanna, che io sono un adoratore della baronessa!
— So questo; — rispose la contessa continuando a sorridere; — e potete immaginarvi, Pompeo, che, se l’avessi incontrata, non avrei dimenticato di accennarvelo, e di dirvi anche il colore della sua veste. Ma sono forse escita stamane? —
Così dicendo la contessa Giovanna volgeva un’occhiata compassionevole alla baronessa Franchi dal Melle.
— O allora? — disse il conte, guardando anche lui la baronessa. Ma questa aveva avuto il tempo di pensare al rimedio.
— Allora, ecco qua; — rispose ella prontamente. — Non ho veduto il volto, e la persona mi ha fatto credere che fosse Giovanna. Sicuro; escivo da San Carlo e mi ero incamminata per via Condotti, quando vidi entrare dal Berretta una bellissima persona. Come te, Giovanna! C’era la tua statura, il tuo giro di vita, l’atteggiamento della tua testa; insomma, che ti dirò? Anche senza vederti in viso, c’era da scommettere che eri tu.
— Ed anche con la veste color marrone, probabilmente; — soggiunse il conte.
— Lasciate che ci pensi; — rispose la baronessa, interrogando Giovanna con lo sguardo.
— Pensateci pure; ma certamente era color marrone; — ripigliò il conte. — Ecco una dama che avrà avuto l’onore d’'ingannare più d’uno. Neanch’io, quando l’ho intravveduta in via Sallustiana, ho potuto distinguere il suo volto; ma il piede... il piede, vedete, era quello di Giovanna, e anch’io avrei scommesso che la dama di color marrone era proprio mia moglie.
— Guardate che stranezza! — esclamò la Franchi dal Melle, facendo le viste di ricordarsi. — La dama che ho veduta io aveva una veste color verde cupo.
— Ne siete ben certa?
— Certissima; e con una giacca di stoffa inglese ruvida... di colore amaranto scurissimo.
— Che gusto!
— Eh, non tanto cattivo, conte! Del resto, era in abito di mattina.
— Ecco dunque già tre donne che si rassomigliano; — osservò il conte Pompeo, mentre Giovanna incominciava a respirare, e mandava alla baronessa un’occhiata di riconoscenza. — La mia cioè quella di via Sallustiana, aveva il piede; la vostra di via Condotti aveva il complesso, il personale. E chi sa quante altre, Giovanna, avranno qualche cosa di voi. Ma già, ricordo di aver letto che Prassitele, quando ebbe a fare la sua Venere per i fabbricieri della chiesa di Gnido....
— Finitela, Pompeo! — disse Giovanna, interrompendolo. — Che discorsi son questi?
Pompeo rideva di gusto, poichè gli avevano levata quella spina dal cuore.
— Vedete, baronessa? — diss’egli. — Sempre così, mia moglie; non gradisce i complimenti maritali. Ed io ho più fortuna dieci volte con le altre. —
Ciò detto, il nostro Ganimede colse la prima occasione per aliare da capo, cercando una di quelle altre che gradivano, a sentirlo, le sue galanterie sessagenarie.
— Grazie! — mormorò Giovanna, rimasta sola con la Franchi dal Melle. — Vedi che disdetta! Esco senza dir nulla, per andare nei quartieri alti, a leticare con Madame Duplessis, che non vuole a nessun patto mandarmi una veste, che doveva esser pronta ier l’altro, e bisogna che tutti mi vedano. Ora, capirai, che una volta detto di no, il puntiglio....
— Non mi dir altro; — interruppe la Franchi dal Melle, donna spensierata, ma buona. — Tu ora mi fai sentire troppo che ho commesso un marrone, più marrone della tua veste. Io stessa ho avuto a ricordare più volte a qualcheduno che non si deve dir mai in società, di aver visto una persona per via, non solo nella giornata, ma per tutto il corso di una settimana; ed ecco, io stessa dovevo cascarci, come una provinciale! Basta, non lo farò più; sei contenta? —
Giovanna sorrise e si strinse amorevolmente al fianco della baronessa, come se volesse abbracciarla; quindi si volse, per stendere la mano ad un cavaliere elegantissimo, pallido, dai capegli neri e lucenti, dai baffi lunghi e dagli occhi profondi, che si era avvicinato in quel punto per farle riverenza.
— Bravo, Guidi! — gli disse la contessa Giovanna. — Ella è dei fedeli.
— C’è poco merito, signora; — rispose il giovanotto, inchinandosi. — Noi siamo pianeti e descriviamo costantemente, fatalmente, la nostra orbita intorno al sole.
— Ah, come è ben detto! — esclamò la Franchi dal Melle.
Il conte Guidi avrebbe potuto ricambiare la lode, soggiungendo che la vicinanza di un astro chiomato poteva recare qualche perturbazione anche nel giro d’un pianeta come lui. E sarebbe stata una immagine molto appropriata, perchè la baronessa aveva una capigliatura stupenda e notoriamente sua. Ma il conte Guidi oltre che non amava le metafore continuate, era furbo parecchio, e, al cospetto di due donne, gli metteva conto di restare qualche volta interdetto.
Egli rivolse perciò una timida occhiata alla baronessa e s’inchinò modestamente; poi, fatte poche altre parole con la padrona di casa, andò diritto dove lo chiamava per allora la legge di gravitazione, cioè a dire verso Gabriella Manfredi. L’aveva veduta sola, non potendo chiamar compagnia la presenza di un giovane ballerino (sapete che in società ci sono i ballerini nati, non buoni ad altro ufficio, fuor questo) e s’inoltrò risoluto. Il ballerino aveva chiesto l’onore di fare con lei il primo giro di valzer, lo aveva ottenuto, non gli restava altro da dire. Il conte Guidi incominciò a parlare del teatro Valle, dove la sera innanzi aveva veduto Gabriella; lodò alcune scene della commedia, ma si fermò più volentieri a criticare quel genere di composizione, manifestando le sue predilezioni per il dramma della vecchia scuola, dove erano nobili i sentimenti, alti i caratteri, e schietta e di gran vena la poesia. Di lì al teatro dello Schiller non c’era che un passo, e il conte Guidi trovò facilmente il modo di attaccare una conversazione non frivola, da non finir così presto, e da permettergli anche di prender posto accanto alla Manfredi.
I soliti frequentatori di casa Castelbianco erano quasi tutti arrivati, quando il conte Pompeo si avvicinò alla moglie, accompagnandone tre nuovi, Arrigo Valenti, Orazio Ceprani e un signore dai baffi grigi, ch’ella non conosceva ancora.
— Mia cara, — incominciò il conte, — sono felice di presentarvi Cesare Gonzaga, lo zio del nostro Valenti.
— È una vera fortuna per noi di conoscere un uomo come lei; — disse a sua volta la contessa. — Si è già tanto parlato, in casa mia, del marchese Gonzaga!
— E mi accadrà, contessa, — rispose il nuovo venuto, — di non corrispondere a tanta gentile aspettazione. Così è, signora; — proseguì, prendendo il posto che la contessa gli aveva cortesemente indicato al suo fianco; — io sono oramai diventato un barbaro. Non avvezzo da tant’anni ad altri ricevimenti che i durbar dei principi indiani, mi troverò molto impacciato nella società elegante di Roma.
— Che dice ella mai? Ci porterà almeno una freschezza di sentimenti, che è divenuta troppo rara tra noi; — replicò la contessa.
Cesare Gonzaga ammirò quella bellissima testa da imperatrice, come avrebbe potuto fare qualunque barbaro civilizzato, o qualunque europeo imbarbarito. E mentre rispondeva alle cortesie della contessa, andava dicendo tra sè:
— Che donna stupenda! E sarò io che dovrò darle il colpo di grazia, per compiacere quel fortunato briccone di mio nipote? A proposito, dove va egli? —
Arrigo Valenti, fatto alla padrona di casa un saluto molto cerimonioso e freddo altrettanto, l’aveva lasciata con lo zio Gonzaga, per andar oltre, verso una bella fanciulla dai classici contorni, vestita di bianco a liste di nero, o di nero a liste di bianco, che veramente non saprei dirvi con precisione, e che del resto importava poco allo zio Gonzaga di rilevare, tanto lo avevano colpito i lineamenti di quel viso verginale.
— La figlia di Lorenza! — mormorò egli dentro di sè, provando un gran rimescolo nel sangue. — Per una volta tanto, ha torto la legge di natura, e quella fanciulla è il ritratto parlante di sua madre. Ah, mio povero cuore, i nostri venticinque anni son lungi, e noi siamo sempre quelli d’allora! —
Gabriella Manfredi, dal momento che quel signore alto dai baffi grigi era entrato nel salotto, annunziato col nome di Cesare Gonzaga, non aveva più dato retta ai discorsi del conte Guidi. Il povero Schiller era tradito, dimenticato là, come è pur troppo dimenticato o tradito sulle scene. Il conte Guidi notò l’aria distratta di Gabriella, e a tutta prima non ne indovinò la cagione. Infatti, non poteva essere che la signorina Manfredi fosse rimasta incantata per la venuta di Arrigo Valenti, cioè di un giovanotto che le faceva la corte anche lui, ma che non pareva egualmente gradito. Ora, che altro poteva essere, perchè la fanciulla guardasse tanto nel crocchio della contessa Giovanna? Anche lui, giovane dai capegli neri e lucenti, dai baffi lunghi, sottili e nerissimi, che spiccavano sul pallore fresco delle guance, contemplò quel signore, alto e forte, dai baffi grigi, e dagli occhi scintillanti, cui dava anche un risalto più vivo la sua carnagione abbronzata dai soli indiani. Vestito in falda nera, col grande sparato bianco sul torace, Cesare Gonzaga aveva ripigliata l’aria del gran signore, ma di un gran signore che avesse fatto lungamente il soldato. Bell’aria marziale, che col crescere degli anni acquista in serenità tutto quello che perde in baldanza, e vi dà, florido ancora entro i confini della maturità, quel nobile tipo soldatesco, il cui solo aspetto dice un mondo di cose, la dignità della vita, la gagliardia virile dei propositi, le aspre fatiche e i rischi memorandi! Ha grigi i capegli, ma li ha salutati il cannone e incoronati la vittoria; ha gli occhi stanchi, ma in quelle bianche pupille venate di rosso si sono specchiati i colli seminati di strage, e il lampo delle batterie fulminatrici, e l’ondeggiar delle brigate al sole delle battaglie, e l’impeto divino delle cariche e il mobile luccichio delle cuspidi dorate sulle bandiere dei reggimenti, su quei poveri brandelli dai colori sperduti, che nessuna pittura può rendere più vivi allo sguardo, nessuna pompa cittadina sventolare più gloriosi al pensiero, più efficaci sul sentimento delle moltitudini. Allora, anche un viso brutto par bello; e il bello non conosce rivali. Vecchio guerriero, che una forte virilità illumina e scalda de’ suoi ultimi raggi, il trionfo non è più cosa dei nostri giorni; non si passa più sulla bianca quadriga attraverso la via Sacra; non si ascende più in Campidoglio, e per molte ragioni, tristissime tutte! Ma c’è ancora un lampo generoso negli occhi, ancora un sorriso amorevole sul labbro di una donna; e quel lampo, quel sorriso della età nuova all’antica, è il trionfo della dignità, del valore, della grandezza a cui l’uomo può giungere, combattendo per l’onore della patria, o per la vittoria d’ogni nobile idea. Effimero, sì, come tutti i trionfi! Eppure, per la gloria di un giorno viviamo e combattiamo tante aspre battaglie; qualche volta per la gioia di un’ora, per la ebbrezza di un attimo; e raccolti nella soave memoria di quel giorno, di quell’ora, di quell’attimo celeste, ci spegniamo in silenzio, povere stelle cadenti, ci sprofondiamo nella immensità dello spazio sconosciuto.
Arrigo era venuto coi suoi complimenti, freddamente accolti, a distogliere la signorina Manfredi dalla contemplazione del vecchio. Con lui si era avvicinato anche il Ceprani, che il conte Guidi tirò presto in disparte, per chiedergli:
— Chi è quel vecchio signore con cui siete entrati voi altri?
— Quello là? È Cesare Gonzaga, lo zio del Valenti; — rispose Orazio Ceprani; — un marchese che non vuol essere chiamato marchese, e che ha passato trent’anni della sua vita nel Bengala, facendo la guerra agli Indiani e guadagnando molti laks di rupìe.
— Non mi piace niente affatto; — sentenziò il giovinotto.
— Ah, bravo! Ecco un presentimento; — replicò Orazio Ceprani.
— Un presentimento! perchè?
— Vieni in qua, e te lo spiegherò. Bada che è un segreto, colto al volo da me.
— Tu cogli tutto al volo!
— Dio buono! È l’arte di vivere in società. Guardare, udire, raffrontare, trarre la conseguenza e regolarsi; tutto ciò è diritto e facile come un sillogismo. Sappi dunque che Arrigo Valenti è innamorato di Gabriella Manfredi.
— Che scoperta! — esclamò il conte Guidi, aggrottando le sopracciglia e torcendosi i baffi.
— Non lo sarà; — rispose il Ceprani; — e forse non sarà neanche vero che egli sia innamorato. Certo è che vorrebbe sposarla. È ricco, capisci, è ricco, e può benissimo aspirare a questo matrimonio, che avrebbe per lui il vantaggio inestimabile di collocarlo tra i pezzi grossi, tra i Burgravi del ceto bancario.
— La sposi; — disse il Guidi, seguitando a tormentare i suoi baffi. — Se Gabriella si contenta.... Ma questo mi par più difficile. Qualche volta le ricchezze non bastano, a strappare quel benedetto sì.
— Eccoci dunque al nodo dell’azione; — rispose il Ceprani. — Il marchese Gonzaga è stato un grande amico di gioventù del senatore Manfredi.
Capisci ora perchè è venuto a Roma, lasciando il suo castello sul Reggiano, dove stava godendosi i frutti dei suoi laks di rupìe? Lo zio Pilade parla in nome dell’antica amicizia ad Oreste; oppure, se ti piace meglio un altro paragone, viene, vede e vince, da quel Cesare ch’egli è. Questo ho scovato io, osservando, raffrontando, e traendo la conseguenza. Ma bada, io non ti ho detto nulla.
— Non dubitare; — rispose il Guidi. — Ma che ne penserà la contessa? —
Orazio Ceprani si strinse nelle spalle e allungò il muso.
— Questo non l’ho indovinato; è uno dei tanti arcani che dovrò ancora scoprire. Stamane, per esempio, uscendo di casa, per andare nei quartieri alti, chi vedo! Lei, proprio lei, male nascosta dietro i cristalli di una vettura da nolo, che andava... lassù. Dovevo vedere il Valenti, per certe faccende di Borsa, e ho ritardato un’ora buona a salire da lui; ma non l’ho veduta uscire, nè prima, nè poi. Di sicuro, c’è un passaggio segreto, un’altra scala, e che so io.
— Come? Sei tanto intrinseco del cavaliere, e non hai pratica della casa?
— Che cosa vuoi che ti dica? Il cavaliere ha il cuore chiuso come la mano; è avaro dei suoi segreti, come dei suoi quattrini.
— Glie ne hai chiesti, per caso?
— Una volta, sì, per mettere la sua amicizia alla prova. Ed è un’amicizia salda, la sua, a prova di bomba! Oh, ma aspetti, verrà anche il mio giro e faremo a buon rendere. Infine, vedi che capricci di fortuna! Si lavora tutti e due in Borsa, e il più delle volte con le stesse notizie. Orbene, egli guadagna ed io perdo. Stamane ci ho lasciato centomila lire, e sorrido; a denti stretti, ma sorrido. Lui, intanto, ne ha guadagnate trecentomila; e guardalo là, ride a piena bocca, il felice! —
Mentre questi bei ragionamenti si facevano tra il conte Guidi e quell’esemplare di gratitudine del signor Orazio Ceprani, il re della festa, accompagnato dalla contessa Giovanna, faceva il suo giro trionfale nel salotto e giungeva davanti a Gabriella Manfredi.
Fu allora tra il vecchio soldato e la fanciulla una scena bellissima, un dialogo commovente. Gabriella era diventata rossa, vedendolo venire verso di lei, e si era perfino alzata dal divano, con gran meraviglia del Guidi, che stava ad osservarla da lunge.
— Io non avevo più, questa sera, che da conoscere il suo nome; — disse Gabriella, poichè la presentazione fu fatta. — Conosco da molti anni Cesare Gonzaga; potrei anzi aggiungere che è la mia prima conoscenza.
— Che dice, signorina? — esclamò il Gonzaga, commosso alla voce della fanciulla, che gli richiamava al pensiero i suoni e le inflessioni di un’altra a lui cara. — Una fata benigna l’avrebbe condotta laggiù, nel cuore dell’India?
— Una fata benigna e un buon genio, che l’amavano ambedue; — rispose la fanciulla. — Ora, solo il mio genio è rimasto ad amarla. —
Cesare Gonzaga trasse un profondo sospiro, al malinconico accento di Gabriella Manfredi.
— Incomincio a capire; — diss’egli.
— Sì, — proseguì la fanciulla, — mio padre parla sempre, con affetto e con ammirazione, del suo migliore, del suo unico amico. Se oggi, quando ella è venuta a casa nostra, avesse chiesto di me, sarei stata felice di riceverla io, contro tutte le norme del cerimoniale. Ella è di casa nostra, signor Cesare; appartiene alla nostra famiglia. Mia madre, quando aveva da citare un tipo di cavalleria, ricordava sempre lei. Vuol sapere quando fu che udii per la prima volta il suo nome? Mamma e babbo, a tavola, parlavano di un caso che non ricordo più bene, ma in cui, dicevano loro, sarebbe bisognato un uomo di cuore e di virtù singolare; e mamma, allora, soggiunse una frase che non ho più dimenticata: “Senti, Andrea, per far questo che tu dimandi, ci sarebbe voluto un uomo come Cesare Gonzaga.„ —
Il vecchio soldato si recò una mano alla fronte, come per chetare un dolore, o discacciare un molesto pensiero, ma nel fatto per rasciugare con le ultime dita una lagrima.
— Ella vede adunque, — proseguì la fanciulla, provando una gioia schietta e profonda a ragionare con quell’uomo, a dirgli tutti i pensieri che fiorivano nella sua mente; — ella vede adunque che io la conosco intimamente, come conosco l’anima e il cuore di mio padre. Per una ragazza, che incomincia appena ora a vivere, sono abbastanza fortunata; non le pare? —
Il vecchio sorrise malinconicamente, a qual vanto giovanile, e rispose, tentennando la testa:
— Ah, signorina! La vita è piena d’ingrate novità. Gli uomini, creda a me, non si rassomigliano tutti.
— Lo credo facilmente; — replicò Gabriella. — Anzi, veda fin dove giungo, i due che conosco mi hanno resa molto difficile con gli altri. Quando ne incontro uno, che vuol comparire un miracolo di uomo (e l’hanno tutti, questa bella pretesa!) io dico subito tra me: sarà egli un uomo di cuore, un nobile carattere, un cavaliere antico, come il babbo, e come Cesare Gonzaga? —
La fanciulla parlava con una grazia ingenua, con un’anima, con una effusione di cuore, che l’avreste abbracciata, divorata dai baci, se fosse stata una bambina di sette anni. Davanti alla sua età, vi sarebbe mancato il coraggio di far tanto (non la voglia, perbacco!) e vi sareste inginocchiati. Cesare Gonzaga non fece nè l’una cosa nè l’altra; ma i suoi occhi ebbero lampi di tenerezza infinita, che valevano i baci e le genuflessioni.
— È bello, — diss’egli, — sentirsi parlare così; bellissimo sarebbe meritarlo. Ma io ricorderò in buon punto, signorina, che nessuna età dispensa l’uomo dalla modestia. Vedrei tanto volentieri suo padre! È forse uscito?
— Non credo. Sarà forse di là, impegnato in qualche grave discorso. Vuole che andiamo a cercarlo? —
Così dicendo, Gabriella si alzò e fece l’atto di prendere il braccio del Gonzaga.
— Con questa guida, in capo al mondo! — diss’egli.
— Ed io con lei, anche più in là; — rispose ella, appoggiandosi confidente a quel braccio che il Gonzaga le aveva finalmente profferto.
Proprio in quel punto, nella sala vicina, si attaccava sul pianoforte uno dei soliti valzer dello Strauss, e sulla soglia del salotto appariva il ballerino che sapete.
— Signorina, — diss’egli, — venivo per l’appunto a chiedere....
— Non chieda nulla, per ora; debbo far prima una presentazione; — rispose Gabriella. — Non vorrà mica dolersene?
— Oh, le pare? S’immagini: rimango a’ suoi ordini; — replicò il ballerino, inchinandosi.
Gabriella, appoggiata al braccio del Gonzaga, proseguì la sua via. Il ballerino seguitava a due passi di distanza, tutto mogio e contrito. Il conte Guidi, piantato in un angolo, aveva notato ogni cosa, le tenerezze maravigliose di Gabriella per quell’indiano baldanzoso, i discorsi infiammati, gli atti vivaci, e finalmente quel loro andar via a braccetto, come se ella si fosse legata per tutta la sera a quell’uomo. E si morse le labbra, il conte Guidi, e si torse ancora i baffi, masticando qualche cosa, che non doveva esser zucchero.