Alle porte d'Italia/La Marchesa di Spigno
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LA MARCHESA DI SPIGNO
“Nata dai nobili Canalis di Cumiana, damigella d’onore di Madama Reale, sedotta, ancor giovinetta, da Vittorio Amedeo II, sposò il conte di San Sebastiano, del quale rimase vedova, con molta prole, nel 1724. Nominata allora dama di corte, accesa dalla speranza del trono, con mille arti fecesi riamare e segretamente sposare dal sovrano; il quale la investì del marchesato di Spigno; ma avendo subito appresso abdicato, dovette ella con molto dispetto e rammarico ritirarsi con lui in Savoia. Impaziente però della solitudine e smaniosa di regnare, eccitò il re abdicatario a riprendere la corona al figliolo. Onde, tornati insieme in Piemonte, e imprigionato Vittorio Amedeo a Rivoli, fu rinchiusa nella fortezza di Ceva, per esser poi restituita al marito prigioniero di cui assistette alla morte; dopo di che venne, per ordine di Carlo Emanuele III, relegata nel monastero delle Salesiane di Pinerolo, dove chiuse i suoi giorni. Donna d’ambizioso e temerario animo, e di triste memoria.„
Niente di meno. Io stavo appunto rileggendo, per caso, quei quattro periodi in cui è così brutalmente strozzata la storia d’una vita di novant’anni, piena di grandi casi e di grandi dolori, quando entrarono nel giardino della villa una signora e una signorina, nostre amiche e vicine, ad annunziarmi che la superiora delle Salesiane aveva cortesemente acconsentito a ricevermi nel parlatorio, e a dirmi quanto si sapeva nel monastero intorno alla marchesa di Spigno. Era una graditissima notizia. Chi sa, pensavo, ch’io non riesca a fare almeno uno sbrano nel velo di mistero che copre quella benedetta marchesa, tanto discussa, tanto maltrattata, e così poco conosciuta! Perchè nè le storie di Casa Savoia, anche le più minute, nè il romanzo del Dumas, nè il racconto del Rabou, nè la novella storica del buon teologo Viglierchio, nè la bella monografia di monsignor Bernardi, nè gli altri scritti che trattano di quel periodo storico, ci danno più che delle congetture per quanto risguarda “il cor profondo„ e la giusta misura di colpevolezza della celebre signora; la quale non lasciò una sola lettera, ch’io sappia, in cui si riveli tutto o in parte l’animo suo, e neppure un suo sentimento passeggero. Quello che si sa di certo è che era bella “d’una bellezza ribelle agli anni„, come dice uno storico illustre, “pericolosa all’età prima e alla matura.„ E bisogna che fosse bella veramente, se, già vicina ai cinquant’anni, innamorò ancora d’un ardente amore Vittorio Amedeo, grande conoscitore, che aveva fatto un corso così vasto e splendido di studi, da madamigella di Saluzzo alla contessa di Verrua, alla marchesa di Priez, alla marchesa di Chaumont, alla contessa della Trinità; la quale non era stata nè l’ultima nè la più ammirabile. Giovane ancora e bellissima a quasi cinquant’anni, che maravigliosa creatura sarà stata ai sedici, quando fece la prima apparizione alla Corte, ancora commossa dai ricordi della battaglia terribile della Marsaglia, di cui aveva visto il fumo e udito il fragore dalle finestre del suo bel castello di Cumiana! E può darsi pure che tutta la sua bellezza non sia fiorita che nell’età avanzata: era forse una di quelle opere predilette dalla natura, che essa accarezza, ritocca e abbellisce per mezzo secolo, tormentata da un desiderio amoroso e infaticabile di perfezione. Còlta non è credibile che fosse, poichè sarebbe stata nel suo ceto, e in quel tempo, un’eccezione; e non era forse in grado di scrivere una lettera, neanche in francese, senza molti e grossi spropositi di varia categoria. Ma per questo appunto, chi sa quali altre forze di seduzione e d’amore doveva avere quella sua giovinezza indomabile, chi sa lo sguardo, la carezza, la grazia delle mosse, la musica della parola, l’eloquenza miracolosa del pianto e dell’ira, l’originalità strana dell’ingegno e la fragranza propria, innata del suo bel corpo, cresciuto come una pianta di rosa all’aria delle Alpi! E tutta questa bellezza, tutta questa forza, tutta questa ambizione, salita fino all’ultimo gradino d’un trono, fu precipitata in fondo a un carcere, e andò a finire sul catafalco d’un chiostro. Ah! se la superiora delle Salesiane mi avesse saputo rivelar qualche cosa!
⁂
In pochi minuti, scendendo per un vicolo erboso e triste, arrivammo alla porta del monastero; che è un grande edifizio nudo, posto sulla china del colle di San Maurizio, con la facciata vòlta verso le Alpi, circondato da un muro altissimo, intorno al quale gira una stradicciuola solitaria. Non ci è più che poche monache; ma sempre un buon numero di educande soggette a un tenor di vita severo; tra le quali, in altri tempi, ci furon ragazze delle prime famiglie del Piemonte, e principesse, che anche presero il velo, e morirono tra quelle mura; poichè il monastero godeva della predilezione della casa regnante. La marchesa di Spigno, lasciata libera di scegliere tra quello e un convento di Carignano, aveva scelto quello, perchè ci aveva due parenti. Le poche case che son là intorno, pare che faccian parte anch’esse del chiostro: non ci si vede e non ci si sente nessuno. Accanto al chiostro c’è una chiesetta chiusa. La marchesa doveva essere passata per quello stesso vicolo silenzioso e malinconico. Sonammo a una porticina, che ci fu aperta da una mano invisibile, salimmo su per una piccola scala tetra, e passando per un’altra porta bassa e stretta, ci trovammo in una stanza bianca, davanti a una larghissima grata doppia, di legno grigio, simile a una inferriata di carcere, di là dalla quale si vedeva un’altra stanza, pure bianca, e semioscura. Qua e là, sulle pareti, ci son scritte a grandi caratteri delle sentenze di santi. A sinistra della grata, c’è una finestra chiusa da una ruota, come quelle degli esposti, per far girare gli oggetti di dentro, senza che si veda in viso chi li riceve. Dall’altra parte c’è appeso al muro un cartellino, che proibisce di dar dei confetti alle educande. La giornata essendo coperta, ci si vedeva appena. E c’era un silenzio, una tristezza fredda, un’espressione così severa, in tutte le cose, di penitenza, di rinunzia al mondo e di malinconia, che quelle due signore coi cappelli infiorati e coi vestiti eleganti ci facevano un contrasto violento e stranissimo, come di due mascherine pompose nella stanza mortuaria d’un ospedale. Aspettammo per molto tempo, senza trovar nulla da dire, come già presi dalla tristezza del luogo. Finalmente, s’udì un fruscio: comparvero due monache. Eran la superiora e un’anziana, vestite di nero, con un soggòlo bianco, e con un velo oscuro calato fin quasi sugli occhi. S’avvicinarono alla grata. Il velo e la mezza luce non lasciavan distinguere nè l’età, nè la fisonomia. La superiora doveva esser giovane. Quando aperse bocca, fui maravigliato della sua voce dolcissima e della sua pura pronunzia toscana. Era di Pistoia. Ci sedemmo, e cominciammo a parlare, come in confessione, a bassa voce, a traverso ai fori della grata.
⁂
La superiora cominciò con dire che aveva ben poche notizie da darmi. Essendo state costrette parecchie volte a sgomberare in fretta e in furia il convento, per cagione delle guerre, le monache avevan perduto molte carte importanti, ed anche degli oggetti preziosi; fra i quali dei doni della marchesa di Spigno. Il ricordo più notevole che rimanesse di lei era un ritratto a olio, di grandezza naturale, che si diceva somigliantissimo e che doveva essere stato fatto prima della sua entrata in monastero, perchè non si poteva supporre che, nel monastero, si fosse fatta ritrarre con quel vestimento. Era forse del tempo in cui credeva di diventar regina, che allora aveva la passione dei ritratti; in uno dei quali si fece dipingere in piedi, con la mano distesa sopra il diadema. La superiora mi domandò se lo volevo vedere. Non aspettavo altro: una monaca, che non vidi, lo portò su dal piano terreno e lo fece passare nello spiraglio tra la ruota e il muro; la signorina lo prese e lo appoggiò alla spalliera d’una seggiola a cinque passi da me, rivolto verso la finestra; e io ci fissai gli occhi su, avidamente.... Bella.... Bella.... Cioè, non so. Seducente, senza dubbio. Una testina, un visetto pieno di grazia, di grilli, di vezzi, di sorrisi sfuggevoli, di sottintesi arguti, di piccole minaccie e di piccole carezze, gli occhi neri e grandi, un nasino patrizio, una boccuccia amorosa e maliziosa, un bel collo lungo, una vita snella e diritta, che fa indovinare un’alta statura, e un corpo leggero e pieghevole, d’una eleganza altera, il quale si possa afferrare e levar su con una mano, come un arboscello, e che debba essere irresistibile nei movimenti della contraddanza e quando s’abbandona sui guanciali della carrozza. Bellissima no; ma simpatica, bizzarra, salata, come dicon gli spagnuoli, un misto curioso di tipo francese e di tipo italiano, una fisonomia che rivela un sangue bollente e una volontà risoluta, e la consapevolezza della propria potenza; uno sguardo che fa aspettare un parlare stringato e concitato, tutto frasine scintillanti e scherzi acuti, e parole che infochino l’anima, all’occasione. Una di quelle figure che vedeva sognando Enrico Heine, quando sonava certi pezzi il Paganini, adagiate sopra un canapè in una stanza decorata alla Pompadour, con molti piccoli specchi e piccoli amori, in mezzo a un grazioso disordine di porcellane chinesi, di ghirlande di fiori, di trine lacerate, di guanti bianchi e di perle. Ha una foggia strana di pettinatura, rotonda e altissima, a trecce ravvolte, della forma d’un turbante enorme; dal quale vien giù un velo trasparente che le dà l’aria d’una musulmana; un vestito di broccato azzurro ricamato a fiori d’argento, e un manto di velluto vermiglio ornato d’ermellino, del quale stringe un lembo con la mano sottile. Ha l’aspetto d’una grande signora; ma d’una signora salita più alto dei suoi natali, e che abbia la coscienza di star degnamente dov’è salita; e si capisce ch’è salita per l’amore. Si capisce come Vittorio Amedeo potesse credere ch’ella sarebbe bastata a riempirgli la vita nella solitudine di Chambéry. Si prova un rammarico di non averla vista viva. E si vorrebbe dire molte cose alla sua immagine, come si sarebbero dette a lei vivente; e non parole timide e ossequiose, ma brillanti, ardite, argute, per farla ridere, per parerle spiritosi, festosi e amabili, e piacerle a qualunque costo, e ottenere un lembo di quel velo bianco da stropicciar fra le dita e la bocca. Non una donna bellissima; ma che sarebbe meno seducente e meno terribile, se fosse più bella.
— Sappiamo poca cosa, — disse la superiora, dolcemente. Quello che si sa di certo, perchè è scritto nelle memorie del monastero, è che l’annunzio della sua venuta arrivò alla superiora quasi improvvisamente, pochi giorni dopo la morte del re Vittorio Amedeo, in modo che ci fu appena il tempo di far sgombrare e rintonacare alcune stanze al piano terreno, e di metterci un poco di mobilio. A che ora sia arrivata e da chi accompagnata, non si sa. Era un giorno di novembre del 1732. Ci si dice che fosse una mattina di domenica. Ma non lo potremmo assicurare.... La superiora d’allora era la madre Chiara Maria di Luserna....
Mentre la superiora parlava con quella voce soave e monotona, io continuavo a guardar fissamente la tela, sempre più attirato da quella singolare bellezza. E come avviene sovente, che a furia di fissare un ritratto pare che gli occhi s’avvivino, che le labbra fremano, che i muscoli guizzino e che da un momento all’altro debba uscir dall’immagine la parola, così avvenne a me. Intorno non c’era nulla che mi distraesse: in capo, a pochi minuti mi parve che il ritratto s’animasse. E come da molti giorni pensavo quasi continuamente alla marchesa di Spigno, studiandone l’animo, attribuendole pensieri, sentimenti e parole, così mi seguì quello che segue a tutti qualche volta, di far parlare dentro di noi una persona familiare, e di starla a sentire con attenzione, come se fosse veramente lei che parlasse, e senza intervenzione alcuna, fuorchè passiva, della nostra facoltà intellettuale. La marchesa mi fissò, il suo sguardo prese a poco a poco un’espressione severa, la sua bocca s’atteggiò a un sorriso di ironia e di disprezzo: poi, tutt’a un tratto, arrossì come d’una fiammata di sdegno, e sprigionò un torrente di parole.
— Eh bien! Que voulez-vous? Etes-vous encore un historien de la maison de Savoie? Ètes-vous un officier des gardes déguisé, venu pour surveiller mon portrait? N’est-ce pas encore assez de vous être acharnés pendant cent cinquante ans contre une pauvre femme que personne ne défend? Mais c’est honteux, à la fin! Je suis lasse de trainer dans vos romans et dans vos sottes histoires, pleines de calomnies et de mensonges! Pourquoi donc êtes-vous si impitoyables avec moi, vous qui êtes si flatteurs pour tant d’autres? Allez, allez faire vos romans sur la comtesse de Verrue. Je ne suis pas assez intéressante, moi. Je n’ai pas assez changé de couvent, je n’ai pas trahi mon mari, je n’ai pas fait des voyages triomphants à Saint Moritz avec des cortèges de reine, je n’ai pas fait l’espionne pour l’Ambassadeur de France, je n’ai pas fui de Turin comme une voleuse en emportant les collections d’objets d’art achetées avec l’or de mon amant, je n’ai pas fini ma vie dans un palais splendide, au milieu des fêtes et des plaisirs, en me glorifiant de mes amours passées! Allez. Je n’ai pas d’auréole poétique, moi. Je n’ai été qu’une ambitieuse vulgaire. Je visais peut-étre déjà à la couronne à l’âge de seize ans, lorsque je commis la faute monstrueuse de donner mon cœur d’enfant à l’amour d’un roi, jeune, beau, glorieux, à qui toutes les autres ont resistè, comme tout le mond sait bien! Je n’ai jamais eu que de l’ambition; je n’ai jamais su ce que c’était l’amour, la reconnaissance, le dévouement, l’amitié. Je n’ai pas méme eu le cœur d’une piémontaise et les entrailles d’une mère. J’ai été le malheur et la honte de mon pays. C’est moi seule qui ai poussé Victor Amédée à bouleverser l’État pour ressaisir la couronne, c’est moi qui ai été le tourment de ses derniers jours, c’est moi qui ai été la première cause de sa mort. J’ai fait tout cela pour l’ambition. Et je l’ai satisfaite, en effet, cette malheureuse ambition, pour ètre traitée comme je le suis! J’ai fait mon bonheur, j’ai joui de la vie, je n’ai pas été punie, je n’ai pas expié, je n’ai pas souffert, je n’ai pas pleuré! J’ai mérité vraiment que la haine du monde s’abattit sur ma téte et frappat au cœur mes enfants, et que mon pauvre nom fût prononcé pour toujours avec un sourire de raillerie et de dédain comme le nom d’une coquette sans àme et d’une aventurière bafouée! Ohi... C’est une infamie!... étes-vous venu pour mentir comme les autres?
— Nel convento, — continuò la superiora, con la sua voce dolce, mentre io dicevo l’animo mio alla marchesa di Spigno, — essa non fu cagione di alcun disturbo. Non vestì l’abito di monaca; ma si può dire che visse quasi come una monaca. Ci aveva qui una sorella, suor Maria Giuseppina Radegonda, e una nipote, suor Teresa Innocente, che le furono di molto conforto nei primi mesi. Ma si adattò a ogni cosa con grande dolcezza. Era buona con le educande, ossequiosa con la superiora.....
— Eh bien, oui! — rispose la marchesa; — je vous ouvre mon cœur, j’avoue mes fautes. Lorsque, après la mort de mon mari.... — S’interruppe un momento, e poi ricominciò, con una strana pronunzia tra piemontese e francese, e con un poco di stento: — Ebbene, sì, lo confesso. Quando mi ripresentai alla corte dopo la morte del conte di San Sebastiano mio marito, non miravo soltanto a rialzar la fortuna dei miei figliuoli, caduti nelle strettezze; quando m’accorsi che il Re mi riamava, mi lasciai sedurre da una pazza speranza. È vero. E feci quant’era in me perchè il mio sogno s’avverasse. È anche vero. Sono stata ambiziosa, sono stata donna. Si perdonano, si scusano tante colpe d’ambizione agli uomini! Non si dovrà perdonar nulla a una donna? Sì, ho creduto di diventar regina, lo confesso, e quando intesi la notizia inaspettata dell’abdicazione, mi si gelò il sangue nelle vene, come se fosse crollata la reggia sotto i miei piedi. Ma tutto fu finito in quel punto. Quella delusione terribile mi tolse ogni speranza per sempre. È una scellerata ingiustizia l’accusarmi d’aver eccitato Vittorio Amedeo a rivocare l’abdicazione, d’averlo spinto da Chambéry a Moncalieri per ritogliere la corona al figliuolo. Non è vero. Quelli che furono primi ad accusarmene, dimenticarono di aver predetto essi medesimi, quando il re voleva abdicare, che se ne sarebbe pentito ben presto, che avrebbe voluto regnar da capo dopo sei mesi; dimenticarono d’averlo supplicato piangendo di desistere dal suo proposito, perchè appunto presentivano quello che sarebbe accaduto; come lo supplicò il suo stesso figliuolo, turbato da un eguale presentimento. Ma che dimenticarono! Come potevano non ricordarsi che, nei primi mesi dopo l’abdicazione, Vittorio Amedeo aveva continuato a regnare, che non si faceva nulla a Torino senza il consenso di Chambéry, che si diceva che c’eran due Re, che tutto, tutto faceva presentire quasi inevitabile e di giorno in giorno più certo quello che da principio s’era solamente temuto? Io ho spinto Vittorio Amedeo! Ma non sapevan dunque più com’era nata e cresciuta l’acrimonia del padre contro il figliuolo, prima perchè avevan cessato di mandargli il bollettino delle notizie, poi, per la legge delle catastazioni in cui non avevano fatto a modo suo, poi per la questione di Roma in cui non avevan chiesto il suo parere? Non avevan lette le sue lettere sempre più concise, sprezzanti, irritate, minacciose? Non sapevan dal conte Petiti, che ci veniva in casa in aspetto d’amico, tutti i discorsi che egli faceva, furiosi contro Carlo Emanuele? Aveva mai potuto riferire una mia parola detta a mal fine, il signor conte? E c’era forse bisogno che la dicessi? E il peggior rimprovero che mi abbia fatto Vittorio Amedeo, in que’ suoi ultimi tristi giorni di Moncalieri, non è forse stato di non essermi opposta al suo disegno, di aver semplicemente taciuto in quella malaugurata notte del Moncenisio, quando egli mi domandò se doveva proseguire il viaggio o ritornare in Savoia? Se avesse avuto un eccitamento, un cattivo consiglio da rimproverarmi, si sarebbe contentato di rimproverarmi il silenzio? Mi accusano di aver ordito la trama! Ma quale trama, Dio giusto, se Vittorio Amedeo scese in Piemonte come un fanciullo, senza aver nulla preparato, senz’aver cercato un aiuto, senz’essersi fatto un complice, senza saper neppure quello che si voleva? Che prove, che indizi d’una trama si son trovati nelle sue carte? Chi fece un passo, chi disse una parola per favorire il suo proposito? Si può pensare che io l’avrei lasciato correre a una simile impresa in quel modo, se ci avessi messo la mano? Dove sarebbe stato l’accorgimento, allora, la malizia fine e profonda, di cui mi accusarono? Avrei dovuto oppormi almeno, dicono, trattenerlo, persuaderlo. Ipocriti! Essi sapevan bene che il mio impero sopra di lui era già finito da un pezzo, che dopo i primi mesi di solitudine l’amore era volato via, che non era più lo stesso Vittorio Amedeo dopo l’insulto apoplettico del cinque di febbraio, che la mia parola non trovava più la via del suo cuore, che già aveva cominciato a contraddirmi, ad aspreggiarmi, a impormi tutti i suoi voleri; ch’io non ero più che una povera infermiera al suo fianco! Ma chi non comprende, cominciando da quel disgraziato giorno dell’apoplessia, chi non vede in tutti i suoi atti, nella sua condotta a Moncalieri, nelle sue imprudenze puerili, nei suoi discorsi contradittorii, nelle sue esitazioni, nelle sue povere collere d’infermo, chi non riconosce il corso, il progresso lento e costante d’una malattia della mente, che doveva finire, che finì con l’insensatezza, e per cui sarebbe stato inutile, se non sarebbe stato peggio, qualunque mio tentativo di persuasione? Certo, io ho desiderato che abbandonasse il soggiorno di Chambèry, perchè vedevo che quella solitudine lo rattristava, che quell’aria non gli giovava, e che in quel viver così soli noi due, io andavo perdendo il suo affetto, e affaticandolo quasi con la mia presenza. Io ho desiderato, e l’ho consigliato nei primi mesi ad accogliere le offerte di Carlo Emanuele, e a ritornare in Piemonte. Ma consigliarlo a cacciar dal trono il figliuolo, a turbare il suo popolo, a versare del sangue, a compromettere la mia patria, io, per essere regina, a cinquantadue anni! e una regina accagionata di mille mali, invisa ai miei sudditi, odiata dalla corte, disprezzata dai miei pari, maledetta dal futuro re! E regina per quanto tempo? E poi? E voi l’avete creduto? E mille e mille l’hanno potuto credere? E quasi tutti lo credono ancora? È un’ingiustizia! Io ho l’anima pura di questa colpa, lo grido al mondo! ne attesto il cielo! lo giuro per la memoria de’ miei figliuoli!
— Si valse sempre della sua autorità a vantaggio del monastero, — continuava dolcemente la superiora; — in molte occasioni ci ottenne dei favori e delle protezioni. Aveva conservato la sua ricca dote; spendeva largamente perchè le feste religiose si celebrassero con pompa. Si adoperò molto, fra l’altre cose, per la canonizzazione della nostra Giovanna Chantal, ch’era stata nel monastero il secolo innanzi....
— Ma fossi anche stata colpevole, — ripigliò la marchesa, — avrei meritato il castigo con cui mi schiacciarono? Sarebbe bastata una sola notte, quella orrenda notte di Moncalieri, all’espiazione d’ogni colpa. No, non fu giustizia, non fu umanità; mai, mai si troverà una onesta parola per scusare quell’abbominio. Per molti anni, a ogni rumore ch’io sentii, di notte, mi svegliai atterrita, e mi voltai verso la porta come per veder cadere i battenti sotto i colpi delle accette, e apparire il Conte della Perosa, gli ufficiali delle guardie e le torce.... Con le spade nude e con le baionette circondarono il letto! Ah! non si descrive, non s’immagina quello ch’è accaduto. Il re si avviticchiò disperatamente a me; io credei che mi restasse morto fra le braccia; ci separarono a forza, mi lacerarono i panni, mi trascinarono sul pavimento, seminuda, fuori della stanza. Io non vidi più nulla; ma sentii! Resistette. Pregava i suoi granatieri: Ma voi, miei bravi soldati, che m’avete servito fedelmente, che m’avete visto combattere cento volte in mezzo a voi, soffrirete che si tratti così il vostro vecchio re?... — Mi si schiantava l’anima. Tutto fu inutile. Orrore! Gli misero le mani addosso! a lui! al vincitore di Verrua, al liberatore di Torino, che aveva regnato per cinquant’anni e condotti in dieci guerre gli eserciti della lega europea! le mani addosso, come al più vile dei malfattori! Sentii lo strepito della lotta, le grida; lo portaron via ravvolto nelle coperte; udii morir la sua voce che mi chiamava: Dov’è la marchesa? dov’è mia moglie? Carlotta! Moglie mia! Guardai giù dalle vetrate, vidi una selva di baionette, le lanterne, la carrozza.... Ebbene, sì, feci un terribile voto allora, mi balenò una triste speranza quando intesi il mormorio dei granatieri, indignati di vederlo cacciare in carrozza come un condannato a morte, sotto le pistole dei dragoni, e quando il La Perosa gittò quel sinistro grido: Morte a chi parla! — Desiderai che i reggimenti si ribellassero e lavassero quell’infamia col sangue.... Me le sentii passare sul seno le ruote di quell’orribile legno, quando lo vidi sparire nelle tenebre, come un feretro trafugato. Tutto era finito. Credetti di sognare. Una così nefanda cosa mi pareva impossibile. Mi pareva che avrebbe dovuto crollare il palazzo, aprirsi la terra, sconvolgersi il mondo. Avrei voluto cader morta fulminata. Fossi pur morta! A un altro più tremendo dolore sarei sfuggita. Raccapriccio ancora; il mio cuore fa ancora sangue e fuoco a quel ricordo. Nella fortezza di Ceva m’hanno portata! Sì, gran Dio. Una gentildonna onorata, la moglie del vecchio re, la sposa di Vittorio Amedeo, nella fortezza di Ceva; vigliacchi!.... in mezzo alle prostitute!
— Tutti ricorrevano a lei, — mormorava intanto la superiora; — ella beneficava e confortava tutti. Alle porte del monastero veniva ogni giorno una folla di poveri, che se n’andavano sempre via benedicendola. E non dava solamente soccorsi in denaro. Scriveva lettere di raccomandazione ai parenti e ai conoscenti lontani, alcuni dei quali occupavano alte cariche e insisteva con tanta bontà e con preghiere così affettuose....
— Oh! come si riconosce in tutto questo, — continuò la marchesa, — la viltà degli uomini che diventan feroci e implacabili per paura! Perchè fu per paura, che il ministro d’Ormea, coi suoi complici, suscitò nel cuore di Carlo Emanuele i più iniqui sospetti e lo spinse alla barbarie; per paura del suo vecchio re, del suo antico benefattore, del quale sapeva d’aver provocato lo sdegno; fu per paura, fu per ambizione di grandeggiare davanti a Carlo, come salvatore dello Stato; fu per pigliar padronanza su di lui, e appagare il furore malaugurato di despotismo che lo divorava. Non può esser stato che suo il pensiero di quello spaventevole arresto notturno, che diede l’ultimo tracollo alla salute d’Amedeo, come non può esser nata che nel capo d’una donna l’idea di cacciar me in quella immonda prigione; in capo alla regina Polissena, a cui ho sempre letto l’odio negli occhi, e che non essendo capace di pietà, credeva me incapace d’affetto. Io non l’amavo Vittorio Amedeo! Io non l’avevo amato mai!... Ebbene, è vero; ci fu un tempo in cui l’ambizione soffocò l’affetto nel mio cuore, dei giorni in cui non amai che il re nel mio sposo. Me ne accuso e me ne vergogno. Ma quando ogni ambizione fu morta e la sventura lo colpì.... quando in quella sciagurata fortezza seppi che il mio povero re, chiuso nel castello di Rivoli, mi cercava, e interrogava di me con parole supplichevoli le guardie mute, e mi chiamava ad alta voce piangendo, allora tutto l’affetto antico si ridestò in me, un amor nuovo, una pietà immensa, un desiderio di rivederlo, di consolarlo, di gettarmi ai suoi piedi, di dare il mio sangue e la mia vita per lui. Sì, io l’amai allora, più che non l’avessi mai amato, con tutte le mie viscere, con tutte le forze della mia disperazione. E quando mi ricondussero a lui, in quell’eterno viaggio da Ceva a Rivoli, ringraziai Iddio e piansi di gioia. E quando arrivai al castello, e vidi tutte quelle sentinelle, quei fossi, quelle porte murate, quelle finestre a botola, quell’apparato lugubre di carcere, quando, spalancata la porta della sua stanza oscura e triste, me lo vidi correre incontro con le braccia aperte, piangendo come un fanciullo, invecchiato, smagrito, barcollante, sfigurato da due mesi d’angoscia e di delirio, e pure raggiante per un momento dalla contentezza di rivedermi, oh allora sì, allora l’amai, allora gli gettai le braccia al collo con uno slancio d’amore infinito, lo benedissi cento volte, gli domandai perdono dei miei torti, giurai di sacrificare tutta la mia vita a lui, di non aver più sentimento, più pensiero, più respiro che per lui, di non staccarmi dal suo fianco mai più, di essere sua sposa, sua sorella, sua figliuola, sua schiava, e gli abbracciai le ginocchia e gli copersi le mani scarne di baci, singhiozzando da morire. Povero marito mio! Povero mio vecchio re, mio grande Amedeo infelice! Non aveva più che me al mondo, non gli rimaneva più del suo immenso passato che il mio povero amore! Abbandonava la testa tremante sopra il mio seno come sul seno d’una madre, e voleva ch’io lo coprissi con le mie mani come per proteggerlo. Dio m’ha letto nel cuore: io mi sarei trascinata in terra fino ai piedi del trono, per ottenergli un sollievo! Avrei dato la mia carne a brani per riavere un anno di gioventù e di bellezza! Ma egli m’amava ancora così com’ero, e s’impietosiva per me, dicendosi cagione di tutti i miei dolori, e domandandomi perdono; e allora piangevamo e pregavamo insieme, guardando pei vani dell’inferriata il bel cielo del nostro Piemonte.... E in quei momenti, almeno, non eravamo infelici!
— Fece molti bei regali al monastero, — continuava a dire la superiora, sempre con la stessa dolcezza; — regalò quasi tutti gli oggetti che aveva portati con sè: un bacino e una brocca d’argento, un inginocchiatoio, una tavola d’ardesia nera, che era appartenuta a sua maestà Vittorio Amedeo. Diede alla cappella maggiore una bellissima lampada d’argento, tutta cesellata. Istituì una messa settimanale da celebrarsi nella nostra chiesa il venerdì....
— No, non furono quelli i giorni più tristi. — ricominciò la marchesa; io li rimpiansi, poi. Ci rimaneva ben altro a soffrire, a tutti due. Oh quegli ultimi mesi infelicissimi di Moncalieri! A questo supplizio ero riserbata, di vederlo morire lentamente, perdendo la ragione, ricadendo nell’infanzia. Che orrende sere, quando egli si trastullava a tavolino a giochi di ragazzo, ridendo e cantando, ed io lo stavo a guardare, da un angolo della stanza, per ore ed ore, soffocando i singhiozzi nel fazzoletto, temendo io pure, a poco a poco, di smarrire la ragione! Che ore, che giornate passai alle finestre della mia stanza, a guardare per i vetri i fossi e le palizzate del castello, e quelle pioggie interminabili, sola, smemorata, aspettando che i cappuccini l’avessero placato, e ch’egli mi riammettesse alla sua presenza! Poichè era destino che le mie angoscie crescessero fino all’ultimo giorno, che egli dovesse a grado a grado prendermi in ira, e poi in odio, chiamarmi la cagione di tutte le sue sventure, scacciarmi, coprirmi d’insulti, cercare nella sua mente vaneggiante le parole più crudeli per passarmi l’anima, farmi morire di vergogna in presenza dei servi, e.... sì, Dio mio! percuotermi, stamparmi l’impronta della sua mano sul viso, chiamandomi col più infame nome che si possa gittare in faccia a una donna! Invano io gli afferravo le mani, e lo supplicavo, ricordandogli i nostri bei giorni, quando m’aveva vista fanciulla, e quando m’aveva riamata dopo trent’anni, e le nostre dolci sere del Valentino, e il mio ritorno a Rivoli, quando mi piangeva sul seno come a una madre! Tutto era invano! Egli non voleva ricordare, s’esasperava, mi respingeva, alzava il pugno sopra il mio capo! No, nulla di più orrendo ha mai sofferto una creatura umana. Tutti i dolori passati eran nulla in confronto alla vista di quel volto di moribondo, di quell’occhio insensato e terribile che mi fissava, mentre la lingua paralitica si sforzava e non riusciva a proferir l’ingiuria sanguinosa che esprimeva lo sguardo! Dio mio! Dio mio! Quelle notti eterne, quelle furie di pazzo, quei lamenti di bambino, quei balocchi sparsi, quei carcerieri, quei frati, quell’aria di morte che spirava da ogni parte.... Nemmeno il conforto di vegliare il suo cadavere mi fu concesso. Appena spirò, fui strappata dal suo letto. Ero pure la sua vedova, l’avevo pure assistito per due anni, me l’ero guadagnato il diritto di restare accanto al suo letto di morte! No.... io profanavo quella camera, ero un’intrusa. Dovevo andar fuori, a piangere. Fui spinta fuori. Mi voltai ancora una volta a dare l’ultimo addio a quel povero corpo.... Poi mi parve di ritrovarmi sola in mezzo a un immenso deserto oscuro, oppressa da una stanchezza infinita.... Ma non mi lasciaron riposare lungo tempo, no.... L’ordine del re non si fece attendere.... Oh! quella tomba aperta non aveva disposto alcuno alla pietà.... Alla prima parola compresi e caddi in ginocchio.... Era il chiostro per la vita.
— Fu meraviglioso, veramente, un miracolo del Signore, — continuava la superiora a bassa voce, — che ella abbia fatto un così grande cambiamento di stato e di vita, senza dar segno di soffrire, o di fare un sacrifizio. Qui si aspettavano tutti che sarebbe stata per molto tempo inquieta e triste, che avrebbe dovuto per molto tempo lottare e pregare prima di ottenere la pace dell’anima, dopo tanti grandi casi e infortuni che la conducevano dalla reggia in un monastero. E così non fu. Essa venne qui come già preparata in cuor suo alla nuova vita, e si mostrò fin dai primi giorni rassegnata e tranquilla....
— Quelli che parlaron di rassegnazione, allora! — ripigliò la marchesa con un sorriso amaro. — Rassegnazione! La tortura, l’inferno fu, nei primi tempi. Il mio cuore faceva sangue per cento ferite.... Dei miei figliuoli avrei avuto bisogno! E mi segregaron dal mondo. Sì, io ci speravo nella rassegnazione. Ma non credevo che avrebbe tanto tardato a giungere. Io non so. Una cosa strana, impreveduta, seguì dentro di me, quando mi trovai reclusa, scemata appena la grande angoscia di Moncalieri. La mia immaginazione, sovreccitata dalla solitudine, passava sopra alle ultime sventure, e ai due anni di Chambéry, e mi riportava sempre, mio malgrado, ai più begli anni della mia vita, alle più dolci ebbrezze della mia ambizione, e quasi me ne ravvivava il senso, e mi faceva sognare a occhi aperti, e mi tormentava, e mi metteva la febbre. Io non capivo il perchè. Era una pazzia. Ne ero impaurita. Mi ritrovavo in mezzo alle feste della Corte, disgraziata! rivivevo nei grandi castelli e nei parchi, rivedevo i tornei, le cavalcate, le cacce, mille visi, mille larve d’oro, che mi facevan guardare, toccare le pareti della mia cella con un profondo stupore, a cui seguiva uno sgomento mortale. E una forza nuova si ridestava in me, il grido ostinato di una gioventù che non voleva morire, un ritorno impetuoso dell’antico orgoglio, un’eco, un nuovo soffio inaspettato di tutte le passioni che io aveva creduto morte per sempre. Volevo dimenticare, pregare, assopirmi nella mia tristezza, annichilirmi fra queste quattro mura dove mi avevano calata come una morta; e sognavo, invece, vivevo potentemente, e soffrivo con tutto il vigore d’una donna provata per la prima volta dalla sventura. Quello stesso silenzio del chiostro, quegli anditi bianchi, quelle vesti nere, quei visi color di cera, quella quiete inalterata delle sorelle, quel mormorio soave delle orazioni, mi sollevavano delle tempeste nel sangue. Tutte le mie ferite si esacerbavano. Un odio mortale mi crescea nell’anima contro i miei nemici. Perchè m’avevano sepolta? Che cosa avevano a temere da me, povera donna? Non erano paghi di avere ucciso il re? Volevano far impazzire e morir me pure, e godere della mia disperazione e della mia agonia? Non ci potevo credere. Non può durare, pensavo, mi libereranno, mi lasceranno andare con i miei figli! Guardavo dalla finestra quei monti e quelle campagne dove aveva combattuto Vittorio Amedeo, e non mi pareva possibile di dover morir torturata in cospetto di quei luoghi! Mi pareva ch’egli dovesse sentirmi piangere e accorrere a liberarmi, e lo chiamavo dentro al mio cuore; avrei gridato il suo nome, se avessi osato; speravo, l’aspettavo qualche volta, come un’insensata; baciavo i suoi ricordi, mi stringevo al seno tutte le cose che serbavo ancora della mia vita passata, singhiozzando delle notti intere, e poi degl’impeti di furore mi travolgevano il sangue e la ragione, e soffocavo gli urli contro i guanciali, augurando che sprofondassero il monastero e la reggia, e che si richiudesse la terra sopra la mia testa. E poi ricominciavo a piangere e ad adorare il passato!
— Molto anche giovò a mantenerla serena, — continuò la superiora, — un’altra parente ch’ella trovò qui, una cugina, la marchesa Bianca di San Germano, che era rimasta vedova a vent’anni, essendo dama d’onore di sua maestà la regina Polissena, e che aveva preso il velo per fuggire ai pericoli del mondo. Era una creatura tutta soavità e amor di Dio, e la marchesa prese ad amarla come una figliuola....
— Ma nessuno mi lesse nell’anima, — riprese a dire la marchesa; — la vedova di Vittorio Amedeo non mancò alla dignità del suo nome; con uno sforzo supremo dell’orgoglio io tenni nascosti i miei avvilimenti e le mie angosce. Nessuna di quelle buone suore, che mi guardavan nei primi giorni con un sentimento quasi di pietà inquieta e di aspettazione paurosa, nessuna vide mai sul mio viso un’ombra di rammarico o di sgomento. Io sarei morta di crepacuore senza tradirmi. Dio m’aveva dato una forza immensa di soffrire. E poi.... i mesi succedettero ai mesi, gli anni agli anni.... Il mio cuore si quetò, il mio spirito si staccò a poco a poco dal mondo. Mi parve che intorno a me si facesse un grande silenzio. Centinaia e migliaia di quei giorni sempre eguali, interrotti sempre a quell’ore dal suono della tabella, dal bisbiglio delle preghiere e dal campanello del parlatorio, mi si confondono ora alla memoria in un solo giorno interminabile, d’una luce pallida, durante il quale non sono ben certa d’aver vissuto o sognato. Molte e molte suore passarono, che rivedo in confuso: dei visi ridenti, dei visi desolati, dei visi di sante e di martiri, delle vecchie e delle giovinette, e mi ricordo vagamente di lunghe agonie, di morti improvvise e strane, e di via vai notturni di monache, fra cui riconoscevo il passo del confessore. Lentamente, d’anno in anno, il mio cuore si ravvicinava a Dio. La vista di tutte quelle povere creature che vivevano e morivano santamente, con una serenità sovrumana, e quella preghiera continua, infaticabile, eterna, che mi sonava d’intorno e ravviava, rialzava perpetuamente i miei pensieri verso il cielo, finirono con aprirmi l’anima alle consolazioni e alle gioie d’una fede che non avevo mai conosciuta. Cominciai a pregare col cuore, e a sentir cadere sulle mie mani giunte delle lagrime che mi facevan del bene. Il mondo in cui ero vissuta non m’appariva più che come una terra lontanissima, dalla quale m’allontanavo senza posa, inoltrandomi in un mare immenso e immobile. Il mio passato e il mio presente diventarono come due esistenze distinte nella mia mente. Mi pareva d’esser passata da un mondo ad un altro. Non ero neanche ben certa, alle volte, che quel passato splendido e doloroso fosse veramente mio e non d’un’altra donna ch’io avessi conosciuta intimamente. Guardavo il mio ritratto con maraviglia, toccavo la mia tavola d’ardesia nera come per interrogarla, non mi pareva vero, vedendo della gente di fuori che si fermava a guardare le mie finestre, mi pareva una cosa strana d’esser io l’oggetto della loro curiosità, d’esser io quella marchesa di Spigno di cui parlavano. Un solo affetto mi legava ancora al mondo: i miei figli. Quetate le tempeste che l’avevan sopraffatto per pochi anni, quell’affetto mi si era ridestato nel cuore più forte, più dolce ch’io non l’avessi mai sentito. Essi m’avevano sempre amata, essi dovevano aver sofferto, avrebbero avuto dei nemici per cagion mia. Io dovevo espiare anche questa colpa, ricompensarli con tanto amore di quei dolori. E li amai allora, dal fondo della mia solitudine; li richiamai intorno a me, li accarezzai con infinito amore nel mio pensiero; li chiamavo a bassa voce, mille volte, per sentire il suono dei loro nomi, e me li scrivevo e li baciavo nella mia cella, di notte, e pregavo per loro, benedicendoli, e piangendo in silenzio, con la speranza che un giorno avrebbero perdonata e compianta la loro povera madre, e onorata la sua memoria infelice....
— Passava molte ore sola nelle sue stanze, — diceva in quel momento la superiora, — e occupava il tempo a cucire e a filare: il monastero conservò per molti anni due pezze di tela ch’essa aveva filate e regalate alla superiora. All’occorrenza, aiutava di propria mano la guardaroba, la sacrestana, e l’archivista, rendeva dei servizi alla scuola e alla infermiera, e aveva un angolo per sè nel giardino, dove coltivava dei fiori per l’altare della cappella maggiore....
— Poi, un grande avvenimento scosse la mia vita, — disse la marchesa, avvivandosi. — Ero nel convento da quindici anni. Ero settantenne, quasi. Durava la guerra con la Francia da un pezzo. Io stavo in pensieri per il mio Paolo, il mio primo nato, che comandava il primo battaglione delle guardie. Aveva trentasette anni, allora, era tenente colonnello; era sempre stato affezionato a me più degli altri; pensieroso, dolce come un fanciullo; l’anima più onesta, più gentile che abbia mai sognato una madre, aspettando il suo primo figliuolo. Non lo vedevo da molti anni. Ma sapevo che mi ricordava con amore e che non parlava di me senza lacrime. Ed ecco che all’improvviso la guerra irrompe dalla riviera sulle Alpi. L’invasione francese è imminente. I soldati piemontesi accorrono da ogni parte. Pinerolo è in rumore. Passano le milizie provinciali, passano i battaglioni austriaci, passa il primo battaglione del reggimento delle guardie. Le guardie! I soldati che comandava il mio figliuolo. Ne fui avvertita. Li vidi passare dalla finestra per la via della val di Perosa, con le loro belle divise vermiglie. Paolo non potè salire a vedermi. Ma io lo riconobbi, mi parve di riconoscerlo di lontano in mezzo a un gruppo di cavalieri: egli s’era voltato di certo a guardare il monastero dove la sua povera mamma stava rinchiusa da quindici anni. Dio mio! Andava a battersi! Avevano fortificato l’Assietta. Io sapevo bene che le guardie avevan diritto al posto d’onore sul campo di battaglia, che i più gravi pericoli gli avrebbero affrontati loro, che le forze della Francia eran formidabili, e che il mio figliuolo sarebbe stato il primo tra i più temerari. Il mio figliuolo! Se me l’avessero ucciso! La mia povera testa si perdeva. Avevo un triste presentimento. Passai dei giorni con l’anima sconvolta. Le sorelle mi confortavano, pregavano per lui e per me. Le ore erano eterne. Una mattina, tutt’a un tratto, sentii un colpo sordo, lontanissimo: non capii subito; ne sentii un altro.... e caddi fra le braccia di mia sorella e di Bianca di San Germano. Erano i cannoni francesi. Si battevano all’Assietta. Ci mettemmo a pregare. Io non connettevo più, non sentivo più nulla. Mi parve che passasse un tempo sterminato. Non arrivavano notizie. Venne la notte. A mezza la notte fummo riscosse da un grande rumore della città. Era la notizia della vittoria! Il conte di Panissera aveva attraversato Pinerolo come un fulmine, per portar la notizia e un fascio di bandiere francesi a Carlo Emanuele. Ma il mio figliuolo? Che cos’era avvenuto di lui? Era ferito! Era morto forse! Non si sapeva nulla! Io morivo d’affanno, di impazienza, di terrore, volevo fuggire, correre verso i monti, a cercarlo, a domandare. Ah! finalmente, la grande notizia venne: è vivo! — Gittai un grido, caddi in ginocchio, ringraziai Iddio. Oh! io non conoscevo ancora tutta la grandezza della sua grazia. D’ora in ora sopraggiunsero le altre notizie. — Il conte di San Sebastiano ha respinto tutti gli assalti della principale colonna nemica. — Il conte di San Sebastiano ha salvato la giornata, rifiutando tre volte di obbedire al conte di Bricherasio, comandante supremo, che gli ordinava di abbandonar la tenaglia e di correre in soccorso al Serin. — E poi una voce generale, crescente, la notizia che arrivava da cento parti, ripetuta, ripercossa da mille echi, dal Piemonte, dall’Italia, dalla Francia, dall’Europa intera: — La gloria della vittoria è del San Sebastiano; lui il generale, l’anima della difesa, davanti a cui morirono il generale Delisle e il maresciallo Arnault; lui che vide e comprese tutto, e trionfò con un atto temerario d’inobbedienza in cui sapeva di giocar la vita e l’onore; lui l’eroe dell’Assietta, il vincitore della grande battaglia, il salvatore del Piemonte! — La gioia mi soffocò, mi ottenebrò la ragione. Oh! vederlo! abbracciarlo! poterlo benedire! sentirmi chiamar madre un momento, vederlo soltanto passare, poter sventolare il fazzoletto dalla finestra, e ricevere un suo sorriso e un suo saluto! Ed ecco, una mattina, accorre la superiora: indovinai; volai nel parlatorio; era lui. Dio grande! il mio Paolo! il figliuol mio! il sangue mio! la gloria mia! lui, bello, splendido, buono, che strinse la mia povera testa contro la sua divisa, senza poter parlare, ansando dalla pietà e dalla gioia, e mi baciò in fronte, e mi chiamò: Maman! — come quand’era bambino, e mi carezzò i capelli. Oh, grazie in eterno, Dio pietoso, di quella gioia celeste, delle sante parole che mi faceste dire da mio figlio! Io non ero degna d’un così grande premio! M’avete dato assai più che non avessi mai sognato! Non avevo sognato che un trono!
— Essa conservò fino all’età più avanzata tutta la sua intelligenza, — continuò la superiora. — Nelle memorie del monastero non è fatto cenno d’alcuna malattia grave che abbia sofferto prima degli ottant’anni. Pare che essendo già più che ottuagenaria, si recasse ancora da sè al refettorio, e intervenisse alle funzioni religiose, ed anche alle ricreazioni delle monache, com’era stato sempre suo costume. Pareva che non dovesse mai più morire. Soltanto le monache più vecchie si ricordavano di quando era venuta. Le novizie sì facevano raccontare la sua vita come una storia di miracoli....
— Per molti anni, — ricominciò la marchesa, — io vissi di quella gioia. Il mio cuore trionfava. Nessuna vendetta più sfolgorante di quella mi era mai passata per il pensiero, nei delirii del mio orgoglio straziato. Carlo Emanuele m’aveva gettata in una carcere infame e condannata al chiostro perpetuo, e mio figlio gli salvava gli Stati con la più grande vittoria del secolo! Quella gloria del mio sangue rialzava il mio nome in faccia al mondo, mi vendicava di mille calunnie, richiamava la pietà del mio paese sul mio destino, apriva, rischiarava l’avvenire a’miei figliuoli, mutava il mondo a’miei occhi. Il mio Paolo! Il mio figliuolo! Egli fu d’allora il mio idolo, il pensiero e il conforto mio di tutti i momenti, il sogno luminoso d’ogni mia notte. Continuamente, senza posa, con un sentimento sempre nuovo di curiosità amorosa e di tenerezza, riandavo la sua vita fin dalla culla, i suoi giochi di bimbo, laggiù nei giardini di Cumiana, la sua allegrezza per il primo cavallo, e poi, con che nobiltà d’animo aveva sostenuto il nostro cambiamento di fortuna, e la prima volta che m’era comparso davanti con la divisa di alfiere delle guardie, sorridendomi con quel suo buon sorriso affettuoso e un po’ triste. Tutto il paese era pieno del suo nome, e lo splendore della sua gloria giungeva per mille vie fino alla mia solitudine. Il convento m’era diventato caro, dopo che ci avevo ricevuto la notizia della sua vittoria, dopo che ce l’avevo visto lui trionfante e felice, con le braccia aperte verso sua madre! Fu senza dubbio quella gioia che m’infuse nelle vene come una seconda gioventù, e che mi fece vivere ancora ventidue anni.... Eppure mi pigliava una grande tristezza, qualche volta, di non poterlo vedere, di viver sempre così lontana da lui. Come avrei dato volentieri quasi tutti gli anni che mi restavano a vivere, per stargli un po’ di tempo vicina, per abitare almeno nella città dov’egli abitava! Mi sarei contentata di vivere a Torino in una cameretta povera e oscura, di patire il freddo, d’essere sempre malata, pur di vederlo passare qualche volta a cavallo, alla testa del suo reggimento, e di sentire il mormorio d’ammirazione della folla, e delle donne gentili e dei giovanetti dire a bassa voce: è il conte di San Sebastiano, il figliuolo della marchesa di Spigno. — Questi desiderii mi soverchiavano il cuore, qualche volta, e mi mettevan delle malinconie, delle follìe di fanciulla, vecchia com’ero: l’idea di fuggire a Torino, di andarmi a avviticchiare alle sue ginocchia, come una disperata, che nessuna forza mi potesse più strappare da lui.... e piangevo, tutta sola, col viso nelle mani, e desideravo di morire. Ma poi le tristezze passavano. Una sua lettera, un saluto di lui che mi arrivasse, mi ridava coraggio, mi rifaceva serena e contenta. E allora pregavo per lui, di notte, guardando dalla finestra della cella le Alpi ch’egli aveva difese; e poi guardavo verso Superga, dov’era sepolto il mio Amedeo, e pensavo ch’egli l’avrebbe amato, che doveva amarlo dal cielo il mio Paolo, lui, valoroso, che aveva onorato sempre i valorosi; e che per amor del mio figliuolo avrebbe rivolto un pensiero pietoso anche a me, alla sua povera compagna di sventura, alla sua fida amica degli ultimi anni, che pure gli aveva dato qualche dolcezza e qualche conforto sopra la terra.... E così vissi molti anni, lenti, tranquilli, uniformi, allietati dalla speranza d’una fine egualmente tranquilla. Povera speranza! Un nuovo dolore, il più tremendo di quanti n’avessi sofferti in ottantasette anni, mi stava sospeso sul capo!
— Nel gennaio del 1766, — continuò la superiora, — fece testamento. Provvide ai suoi figliuoli, legò duemila lire alla sorella Radegonda e alla nipote Teresa Innocente, e lasciò parecchi ricordi al monastero. Aggiunse poi al testamento un codicillo, pochi mesi prima di morire, il quale fu ricevuto da un regio notaio di Pinerolo, Pier Francesco Raimondi, rammentato nelle carte del monastero; in presenza di due medici e di due religiosi, frà Maria Lugo minore conventuale e frà Giusto da Susa Guardiano Cappuccino....
— A poco a poco, — ripigliò la marchesa, con voce tremola, — m’accorsi che s’andava facendo un cangiamento nel mio figliuolo. Le sue lettere diventavano tristi. Lasciò il suo reggimento delle guardie, che amava tanto, e andò colonnello d’un reggimento provinciale; si mise come in un canto, spontaneamente, senza dire il perchè. Qualche voce confusa mi arrivò all’orecchio, però: nimicizie di Corte, una guerra sorda, perchè era il figlio della marchesa di Spigno. Quella notizia mi passò l’anima! Io dovevo dunque essergli fatale, non c’era pietà, il mio nome era una maledizione, mi esecravano ancora laggiù, e non potendo più infierire contro un’ottuagenaria sepolta viva, mi ferivano, m’uccidevano nel mio figliuolo, in quel figliuolo! Questo mi toccava ancora di vedere, prima di chiudere gli occhi! Egli tacque per un pezzo. Poi negò. Non era vero. Non ci dovevo credere. Mi supplicava di non crederci e di vivere serena. Ma io lo conoscevo. Egli era buono come un angelo. Sarebbe morto di angoscia, piuttosto che darmi quella pugnalata al cuore di dire: — Sì! è vero! Io sono odiato e perseguitato, io sono infelice per cagion tua! — Oh io capivo bene ogni cosa dal fondo del mio convento. Conoscevo la Corte. Era troppo duro il dover una grande vittoria e la salvezza del proprio Stato al figliuolo della reclusa di Ceva, di quella marchesa di Spigno che s’era fatta strascinar seminuda dai soldati per le stanze del Castello di Moncalieri, come una ladra di strada. La gloria di quel colonnello delle guardie era un rimprovero amaro, una vendetta del re morto e della vedova moribonda, un castigo, un scherno del destino, che risvegliava dei rimorsi e delle vergogne. Oh! io capii, capii tutto. Non lo perseguitavano, no; lo torturavano lentamente, facendo il silenzio intorno alla sua gloria, mostrando di non vederla e d’ignorarla, dandola ad altri, levandogli l’aria da respirare. Dopo un po’ di tempo non si parlava più di lui. Egli vedeva spegnersi a poco a poco la luce del suo nome e rifarsi l’oscurità sul suo capo. Povero Paolo! Era un’anima gentile: l’ingratitudine lo uccideva. Era altiero: non si ribellava; ma sanguinava di dentro. Per non affliggermi, non potendo più dissimulare, non mi scriveva più. Io udivo dire che viveva solitario e malinconico. Poi seppi che la sua salute se n’andava. Caddi in una profonda tristezza. Passò molto tempo. Avevo ottantasette anni, non mi reggevo più che a stento. Un giorno che m’aveva dato notizie migliori di lui, mentre stavo piangendo di consolazione e ringraziando Iddio, suor Radegonda venne a chiamarmi. Titubava. Capii che c’era mio figlio. Mi mancaron le ginocchia; mi sostenne. Corsi quasi fino al parlatorio, appoggiandomi ai muri, trattenendo un grido di gioia.... Lo vidi, e gettai un grido di dolore! Non era più mio figlio! Incanutito, consunto, smorto, con quell’impronta che lascian nel viso i grandi dolori dissimulati; anche la sua voce era mutata, e le sue braccia non avevano quasi più la forza di stringermi! Solo il suo cuore era sempre lo stesso. Io diedi in uno scoppio di pianto. — Oh figliuol mio! Paolo mio! È dunque tutto vero! E per cagion mia! È dunque la tua povera madre che t’uccide! — Ma egli buono e pietoso negò ancora: non stava bene, sarebbe guarito, avrebbe lasciato l’esercito, sarebbe venuto a stare a Pinerolo, per vedermi tutti i giorni. E accomiatandosi, mi stringeva il capo fra le mani e mi premeva la bocca sulla fronte. E io quasi tornavo a sperare; ma nel dirmi addio gli sfuggì un singhiozzo. — Paolo! gridai allora disperatamente, inseguendolo; non ti vedrò più? Mai più? Senti! Fermati! Perdonami! perdonami! perdonami!... — Era già lontano. Non mi ricordo più. Mi portaron nelle mie stanze. Da quel giorno in poi vissi come smemorata. Alla vecchiaia era succeduta in poche ore la decrepitezza. La notizia della morte di mio figlio, avvenuta nel dicembre di quell’anno, cadde nella mia cella come in una tomba. Non piansi più, non mi lagnai più. Il mio cuore era spezzato. La mia vita era finita.
— Prima di morire, — continuò la superiora, — sofferse una malattia lunga e dolorosa. Le monache furon chiamate molte volte in furia al suo letto, che parea che morisse. Ma la sua forza di resistenza al male era ancora grande. Soffriva con rassegnazione, parlava della morte con coraggio. Diceva che voleva esser sepolta nel convento in mezzo alle suore, senza pompa, come una di loro. Nei vaneggiamenti chiamava per nome i suoi figliuoli, particolarmente il primo, il conte Paolo di San Sebastiano, e teneva stretto le mani alle monache che l’assistevano, dicendo parole dolcissime....
— La mia vita era finita, — riprese la marchesa con voce stanca. — I tre anni che durai ancora dopo quel giorno, non furono che una morte lenta. Non ho più che una reminiscenza oscura di quel tempo; intorno a me non si movevan più che delle ombre, e le voci che mi parlavano mi parevan di gente molto lontana. Era una mattina di primavera.... Sentii che doveva esser l’ultima. Da molto tempo soffrivo atrocemente, e desideravo di morire. Feci girare il mio piccolo letto verso la finestra per vedere ancora una volta quelle belle montagne, dove il mio povero Paolo aveva combattuto. Le monache mi stavano intorno in ginocchio. Perdonai a tutti, domandai perdono a tutti. Sentii che piangevano. Bianca di San Germano mi baciò. Resi l’anima a Dio. Così finì la marchesa di Spigno. Ecco la mia vita. Un peccato d’orgoglio, pochi giorni d’ebbrezza e quarant’anni d’espiazione, cominciati e finiti con due tremendi dolori.... Scrivete ora, signore, e siate giusto e umano. Fate che chi passa sotto queste mura non dica più, sorridendo: — Qui morì la bella di Vittorio Amedeo, la regina fallita. — Oh non sorrida, per rispetto al mio figliuolo! Fate che si dica d’ora innanzi: Qui morì la madre del vincitore dell’Assietta. Non domando altra indulgenza al mondo, e non la domando per me. Sia benedetto chi l’avrà. Ne esulterà l’anima del mio Paolo. Addio.
— Morì la mattina dell’undici di aprile, — mormorò la superiora, terminando; — l’anno 1769, il giorno anniversario della sua nascita, nel quale compiva novant’anni. Il cadavere fu vestito degli abiti monacali ed esposto, secondo l’uso, sopra un catafalco, nel mezzo della nostra chiesa. Poi fu calata nei sotterranei del monastero. Non c’è pietra che indichi dove sia; il nome non è iscritto da alcuna parte. Tale fu l’ultima volontà della morente. Ma la sua memoria è sempre nel nostro pensiero e nel nostro cuore. Sia pace all’anima sua.
Seguì un profondo silenzio. La superiora non aveva più nulla a dire. La signorina riprese il suo ritratto e lo fece ripassare dall’altra parte della ruota, dove una mano invisibile lo raccolse. Le due monache fecero un saluto del capo, e sparirono, come due larve. E noi uscimmo in silenzio. In quel breve tempo la marchesa di Spigno s’era interamente trasformata nella mia mente. Fino allora, la prima immagine che mi aveva sempre destato il suo nome, era quella di una signora vezzosa e superba, che passava per la sala d’una reggia, in mezzo a due ali di dame, sfolgorando di gioia. Dopo d’allora non vedo più che una vecchia novantenne, che attraversa, brancolando, i corridoi tristi d’un chiostro, fulminata dal dolore. E perchè la stessa trasformazione, che è l’effetto d’un cambiamento di giudizio storico, s’operi in qualchedun altro, ho scritto queste pagine.
Le dedico alla nobile, gloriosa, benedetta memoria del tenente-colonnello delle guardie, conte Paolo Federico di San Sebastiano.
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