parecchie volte a sgomberare in fretta e in furia il convento, per cagione delle guerre, le monache avevan perduto molte carte importanti, ed anche degli oggetti preziosi; fra i quali dei doni della marchesa di Spigno. Il ricordo più notevole che rimanesse di lei era un ritratto a olio, di grandezza naturale, che si diceva somigliantissimo e che doveva essere stato fatto prima della sua entrata in monastero, perchè non si poteva supporre che, nel monastero, si fosse fatta ritrarre con quel vestimento. Era forse del tempo in cui credeva di diventar regina, che allora aveva la passione dei ritratti; in uno dei quali si fece dipingere in piedi, con la mano distesa sopra il diadema. La superiora mi domandò se lo volevo vedere. Non aspettavo altro: una monaca, che non vidi, lo portò su dal piano terreno e lo fece passare nello spiraglio tra la ruota e il muro; la signorina lo prese e lo appoggiò alla spalliera d’una seggiola a cinque passi da me, rivolto verso la finestra; e io ci fissai gli occhi su, avidamente.... Bella.... Bella.... Cioè, non so. Seducente, senza dubbio. Una testina, un visetto pieno di grazia, di grilli, di vezzi, di sorrisi sfuggevoli, di sottintesi arguti, di piccole minaccie e di piccole carezze, gli occhi neri e grandi, un nasino patrizio, una boccuccia amorosa e maliziosa, un bel collo lungo, una vita snella e diritta, che fa indovinare un’alta statura, e un corpo leggero e pieghevole, d’una eleganza altera, il quale si possa afferrare e levar su con una mano, come un arboscello, e che debba essere irresistibile nei movimenti della contraddanza e quando s’abbandona sui guanciali