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pure, a poco a poco, di smarrire la ragione! Che ore, che giornate passai alle finestre della mia stanza, a guardare per i vetri i fossi e le palizzate del castello, e quelle pioggie interminabili, sola, smemorata, aspettando che i cappuccini l’avessero placato, e ch’egli mi riammettesse alla sua presenza! Poichè era destino che le mie angoscie crescessero fino all’ultimo giorno, che egli dovesse a grado a grado prendermi in ira, e poi in odio, chiamarmi la cagione di tutte le sue sventure, scacciarmi, coprirmi d’insulti, cercare nella sua mente vaneggiante le parole più crudeli per passarmi l’anima, farmi morire di vergogna in presenza dei servi, e.... sì, Dio mio! percuotermi, stamparmi l’impronta della sua mano sul viso, chiamandomi col più infame nome che si possa gittare in faccia a una donna! Invano io gli afferravo le mani, e lo supplicavo, ricordandogli i nostri bei giorni, quando m’aveva vista fanciulla, e quando m’aveva riamata dopo trent’anni, e le nostre dolci sere del Valentino, e il mio ritorno a Rivoli, quando mi piangeva sul seno come a una madre! Tutto era invano! Egli non voleva ricordare, s’esasperava, mi respingeva, alzava il pugno sopra il mio capo! No, nulla di più orrendo ha mai sofferto una creatura umana. Tutti i dolori passati eran nulla in confronto alla vista di quel volto di moribondo, di quell’occhio insensato e terribile che mi fissava, mentre la lingua paralitica si sforzava e non riusciva a proferir l’ingiuria sanguinosa che esprimeva lo sguardo! Dio mio! Dio mio! Quelle notti eterne, quelle furie di pazzo, quei lamenti