Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/299


la marchesa di spigno 285

perdonami!... — Era già lontano. Non mi ricordo più. Mi portaron nelle mie stanze. Da quel giorno in poi vissi come smemorata. Alla vecchiaia era succeduta in poche ore la decrepitezza. La notizia della morte di mio figlio, avvenuta nel dicembre di quell’anno, cadde nella mia cella come in una tomba. Non piansi più, non mi lagnai più. Il mio cuore era spezzato. La mia vita era finita.

— Prima di morire, — continuò la superiora, — sofferse una malattia lunga e dolorosa. Le monache furon chiamate molte volte in furia al suo letto, che parea che morisse. Ma la sua forza di resistenza al male era ancora grande. Soffriva con rassegnazione, parlava della morte con coraggio. Diceva che voleva esser sepolta nel convento in mezzo alle suore, senza pompa, come una di loro. Nei vaneggiamenti chiamava per nome i suoi figliuoli, particolarmente il primo, il conte Paolo di San Sebastiano, e teneva stretto le mani alle monache che l’assistevano, dicendo parole dolcissime....

— La mia vita era finita, — riprese la marchesa con voce stanca. — I tre anni che durai ancora dopo quel giorno, non furono che una morte lenta. Non ho più che una reminiscenza oscura di quel tempo; intorno a me non si movevan più che delle ombre, e le voci che mi parlavano mi parevan di gente molto lontana. Era una mattina di primavera.... Sentii che doveva esser l’ultima. Da molto tempo soffrivo atrocemente, e desideravo di morire. Feci girare il mio piccolo letto verso la finestra per vedere ancora una volta quelle belle montagne,